Dante e il momento perenne

 

” Beatrice, diciottenne, affiancata da due fantesche, stava dirigendosi verso la chiesa di Santa Margherita mentre Dante, appiattito in una sorta di incavo del muro, tratteneva il fiato. La giovane, pur avvedendosi della sua presenza, confermando l’atteggiamento di sempre, andò oltre. Aveva raggiunto l’ingresso della Chiesa quando all’ improvviso si fermò. “Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”, era la sua canzone, “al tuo fedele, che, per vederti, ha mosso passi tanti!”  E lei, come obbedendo alla sua implorazione, si girò. Lui seppe che stava accadendo qualcosa di assolutamente inatteso, di immaginario. Dal più alto dei Cieli i Serafini, i Cherubini, i Troni, le Dominazioni erano scesi su quel minuscolo vicolo del grande mondo. Ora Beatrice lo stava fissando sorridendogli. “Vi saluto” sussurrarono le labbra benedette di lei nello stradello delle acque di scolo. Lui la guardava esterrefatto implorando il suo Dio di far durare quel sorriso di lei tutti i giorni della sua vita. “Vi saluto” le fece eco lui nel vicolo dei fradici muschi.

L’ ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente la nona di quel giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza…

Beatrice e le sue donne erano scomparse all’ interno della chiesa. Lui, in un mescolarsi di tremore e commozione, si lasciò scivolare lungo la parete, le gambe raccolte, stretto in se stesso. Rientrò a casa solo all’ imbrunire, saltando la cena per chiudersi prima possibile in quella sorta di sottotetto che gli permetteva di isolarsi dalla matrigna e dai fratellastri. Sul suo letto fissava il grande buio al colmo di una felicità immensa. Non doveva dimenticare nulla ma rendere perenne quel momento in cui lei aveva rallentato il passo, doveva rendere eterno il suo lento girarsi prima di decidersi a sorridergli e salutarlo. Un saluto che gli rivelava quanto conoscesse la sua pena. Si era voluto convincere che, con quel saluto, avesse inteso confidargli che qualunque cosa fosse accaduta tra loro, che lei fosse data in sposa a un altro, che avesse addirittura perduta la vita, lui avrebbe dovuto saperla sua, oltre ogni ragionevolezza, lui avrebbe potuto disporre di lei, come qualcosa che non è più da considerarsi nella contingenza del vivere.  ”

Pupi Avati, da “L’ alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante.”

 

 

Dipinto: “Dante meets Beatrice at Ponte Santa Trinità” (1883) di Henry Holiday

 

Neon Lights, September Lights

 

È di notte che è bello credere alla luce.
(Edmond Rostand)

8 Settembre, il sole tramonta alle 19.39. Il buio arriva sempre più presto, alle 20 il cielo è già quello della notte. Che cosa c’è di bello, quindi, nelle sere di questo mese? La risposta è molto semplice: il tripudio di luci che si accende sulla città. Che si tratti di antichi lampioni o di insegne luminose, il risultato non cambia: sono momenti ad alto tasso di suggestività. Luci e colori animano i centri urbani, li fanno vivere e risplendere anche in notturna. Se poi parliamo di luci al neon, l’ effetto è mozzafiato. Cromie vibranti, intermittenti, in technicolor animano la metropoli e diventano una sorta di termometro della sua nightlife: il numero di neon che sfavillano è direttamente proporzionale all’ offerta di locali, discoteche, ristoranti e bar di una determinata città. Come lo scorso anno, VALIUM dedica una speciale photostory alle “neon lights” di Settembre. Perchè, come dichiara Edmond Rostand nell’ epigrafe di questo articolo, “è di notte che è bello credere alla luce”. Soprattutto se è una notte settembrina.

 

 

 

 

La luna di settembre

 

” Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla? L’ amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista così, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’ infantile, tanto che dissi: – E’ una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna. – Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa. Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassù fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’ amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’ indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva. Così quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo. “

Cesare Pavese, da “Feria d’agosto”