” Rimasi a lungo davanti all’Ottica e Orologi di Österberg: su un letto di argentei fili natalizi e neve sintetica, tra piccoli babbonatale che mi pareva di riconoscere dalla mia infanzia, era adagiata una quantità di orologi: sveglie, orologi da polso, graziose pendole, un orologio della nonna, all’antica, cipolloni da tasca e orologini da signora, su cui era impossibile leggere le ore. Contai ventisette diversi misuratori del tempo, e tutti erano in funzione. E nessuno segnava la stessa ora. Uno le due e un quarto, un altro le quattro e venti, un terzo era quasi sulla mezzanotte, o mezzogiorno. Instancabilmente continuavano a ticchettare, ognuno seguendo il proprio tempo, incuranti gli uni degli altri. Nessuno era sbagliato, nessuno era giusto, non c’era né un prima né un dopo. Tutti erano rivolti a se stessi, al proprio meccanismo. Fuori dalla vetrina era lo stesso. Nella neve che cadeva fitta, gli uomini s’incrociavano, scivolavano l’uno verso l’altro senza nessuna vera contemporaneità. Quando uno si risvegliava dai suoi incubi, un altro s’immobilizzava nel ricordo di un giorno d’estate. La neve mi costringeva a socchiudere gli occhi e mi serrai più stretto il collo del cappotto, mi feci un’insenatura di calma all’interno della stoffa e mi ritrovai nel confuso labirinto del mio proprio tempo, mentre procedevo per quella via in cui, una volta, avevo dato il nome a tante cose. Camminavo con il mio passo da adulto e contemporaneamente, con un’altra parte di me, avevo tre anni. La mano che stringeva la borsa teneva al tempo stesso la mano di mia madre, indicava un cono gelato, si liberava da una mischia in Grecia, seguiva le meraviglie di una partitura. Ogni azione del passato generava mille altre possibilità, scorreva a rivoli verso suoi propri futuri. Ed essi proseguono, sempre più numerosi, nelle terre vergini della coscienza, ombre che t’inseguono e vengono inseguite. Non c’è mai requie. “
Göran Tunström, da “L’oratorio di Natale”