Cinque uccelli che cantano (anche) di notte e perchè lo fanno

 

Succede soprattutto in Primavera, e anche d’Estate. A notte fonda, quando non manca molto all’alba, gli uccelli iniziano a cantare dando vita a dei veri e propri gorgheggi corali. Molti di noi, da profani, attribuiscono il loro cinguettio alla gioia per l’arrivo della stagione calda: le cose, però, non stanno esattamente in questo modo. Innanzitutto c’è da dire che in città i volatili subiscono il disagio dell’inquinamento luminoso e acustico, per cui a tarda notte si sentono più liberi di vivere in armonia con l’ambiente che li circonda. E poi, i loro canti fanno parte del rituale di corteggiamento: non è un caso che le melodie provengano da esemplari di sesso maschile, che marcano il proprio territorio e cantano per attirare le femmine della specie. Prima si inizia a gorgheggiare, meglio è. Ogni specie di uccello, infatti, ha un suo orario caratteristico e anticiparlo significa surclassare un rivale; per fare un esempio, il codirosso spazzacamino comincia a cantare un’ora e mezzo prima che il sole sorga, mentre il merlo precede l’alba solo di un’ora. La cinciallegra e la capinera, invece, non iniziano che con la luce dell’aurora.

 

 

In questo periodo, in piena fase di riproduzione, gli uccelli emettono gorgheggi più che mai “sopra le righe”, elaborati e complessi. Naturalmente, si tratta di un modo per farsi notare dalle femmine. Oppure, le vocalizzazioni notturne permettono loro di comunicare con i compagni: per fargli sapere dove si trovano, ad esempio, o avvertirli della presenza di un predatore. Le specie che cantano anche di notte sono diverse: scopriamone cinque insieme.

 

L’usignolo (Luscinia megarhynchos)

 

Gli anglosassoni lo chiamano “nightingale”, un omaggio al suo canto notturno: l’usignolo, nelle ore buie, gorgheggia senza sosta soprattutto nel periodo della riproduzione. Il suo è un canto melodioso, raffinato, quasi ipnotico, che crea un’atmosfera incantata e mira ad attrarre le femmine della specie. Il canto dell’usignolo, infatti, è un potente strumento di seduzione; tant’è che di giorno i maschi gareggiano tra loro per affinare le proprie doti. Questo uccello della famiglia dei Muscicapidi vive essenzialmente nei boschi, dove è distinguibile anche grazie ai suoi inconfondibili gorgheggi.

 

Il pettirosso (Erithacus rubecula)

 

Il suo aspetto è inconfondibile, con quella chiazza arancione che esibisce frontalmente. Lo contraddistingue un gorgheggio che esordisce secco e ritmico diventando a poco a poco melodioso; ma il pettirosso è tanto dolce esteriormente quanto aggressivo a livello caratteriale: difende il suo territorio con tutta la tenacia possibile persino dalla compagna con cui si riproduce. Ed è proprio durante la stagione dell’amore che il suo canto si ascolta anche di notte. C’è da dire, inoltre, che questo uccello è particolarmente colpito dall’inquinamento acustico e preferisce gorgheggiare al buio per far sì che le femmine ascoltino meglio il suo richiamo.

 

Il merlo (Turdus merula)

 

E’ molto popolare, come d’altronde il pettirosso e l’usignolo. Famoso per la leggenda dei “giorni della merla” che lo vede protagonista in pieno Inverno, in Primavera e in Estate il merlo canta anche di notte. I  suoi gorgheggi sono vivaci, brevi e terminanti con un acuto; si esibisce in notturna durante la fase di riproduzione, e secondo alcuni esperti ciò è dovuto principalmente alla stimolazione dei lampioni: il merlo è un uccello altamente fotosensibile, e vivendo soprattutto nei parchi e nei giardini pare che la luce artificiale stimoli il suo desiderio di accoppiamento. L’inquinamento luminoso, quindi, avrebbe provocato squilibri nell’orologio biologico del Turdus merula spingendolo a scambiare la notte con il giorno.

 

Il succiacapre (Caprimulgus europaeus)

 

Si chiama così perchè secondo una leggenda secolare, che Plinio Il Vecchio riportò nella sua Historia Naturalis, il Caprimulgus Europaeus si cibava del latte delle capre, che poi rendeva cieche. Altre credenze lo associavano a particolari più lugubri, descrivendolo come un uccello che traeva il proprio nutrimento dal sangue del bestiame ed era legato a determinati riti di sepoltura. Ciò probabilmente dipendeva dal suo misterioso aspetto: il succiacapre si mimetizza alla perfezione con l’ambiente circostante e sembra dotato della virtù dell’invisibilità. E’ un uccello notturno e il suo canto, una sorta di ronzio che nelle fasi acute somiglia quasi ad un martello pneumatico, comincia al crepuscolo e si intensifica a notte fonda. Tra gli autori che lo hanno incluso nelle proprie opere letterarie troviamo Howard Phillips Lovecraft, che lo ha menzionato ne “L’orrore di Dunwich”, ma anche Stephen King e Cormac McCarthy: il succiacapre appare nei loro rispettivi romanzi “Jerusalem’s Lot” e “Figlio di Dio”.

 

L’assiolo (Otus scops)

 

E’ un rapace notturno appartenente alla famiglia degli Strigidi, come la civetta e il gufo. In Primavera e in Estate, nelle campagne il suo canto è una costante delle ore buie. Peraltro, non si fa fatica a riconoscerlo: può essere descritto come una nota acuta, monosillabica, ripetuta ad intervalli equidistanti. Al pari di molti altri uccelli, l’assiolo canta per difendere il territorio ed attrarre le femmine della sua specie. I gorghecci ipnotici che lo contraddistinguono rimandano alla notte e alla sua atmosfera sospesa; Giovanni Pascoli ne rimase affascinato al punto tale da dedicargli una poesia, “L’assiuolo”. L’assiolo comincia il suo canto al tramonto e prosegue fino all’alba. Curiosamente, dopo la mezzanotte le vocalizzazioni si interrompono per circa due ore. Un’altra curiosità? L’assiolo spesso duetta con la propria partner, che si distingue per l’intonazione più acuta e la cadenza meno regolare dei gorgheggi.

Foto via Pexels e Unsplash. Foto del succiacapre di Fabio Usvardi – www.italianwildlife.it, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Wild Hair

 

Con il Solstizio d’Estate che si avvicina (cadrà il 20 Giugno), il tema della natura – che ha fatto da filo conduttore la settimana scorsa – non può concludersi in un batter d’occhio. In questi giorni, quindi, tornerà ad insinuarsi in tutti gli articoli. Prova ne è il post di oggi, dedicato all’hairstyle: la chioma dell’estate, al di là delle tendenze, si impregna di esuberanza estiva e ritrova la sua libertà. I capelli sono ondulati, quasi sempre sciolti sulle spalle, catturano i riflessi della luce solare e si muovono con il vento. Recuperano, insomma, quel lato selvaggio che rimanda all’impeto della natura. Di tagli, dettagli e stili ci occuperemo in seguito più approfonditamente. Buon inizio settimana, e come sempre…stay tuned!

 

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La mietitura: riti e tradizioni dell’evento più atteso dell’annata agraria

 

Quando il grano è nei campi, è di Dio e dei Santi.

(antico proverbio agreste)

 

Si avvicinano i giorni della mietitura del grano, che si effettua tra la fine di Giugno e la metà di Luglio: un momento cruciale per la vita agreste, decisivo al fine di scandire i suoi ritmi; una pratica dalle origini antichissime che, nel corso dei secoli, si è arricchita di significati simbolici che spaziano dalla fede alla cultura. La raccolta dei cereali, una delle principali fonti di nutrimento per l’organismo umano, rappresentava un evento importantissimo nel mondo contadino. L’organizzazione che lo precedeva era perfetta: si spalmava il lavoro su un tot numero di giornate, si riordinavano gli attrezzi, ci si approvvigionava di cibi e bevande per festeggiare il raccolto con pranzi conviviali. La mietitura, infatti, coinvolgeva un numero incalcolabile di persone: le famiglie coloniche si aiutavano tra loro, dando vita a vere e proprie comunità, e i salariati (i lavoranti esterni retribuiti per la loro prestazione) erano moltissimi. Tutti partecipavano alla grande festa del raccolto, anche i bambini, e a ognuno veniva affidato un incarico ben preciso. L’evento chiave dell’ annata agraria vedeva all’opera l’intera collettività. Non è un caso che fosse una sorta di rituale in cui il folklore giocava un ruolo preponderante; danze, stornelli, canti e usanze propiziatorie per la raccolta e lo stoccaggio ne erano parte integrante.

 

 

Un tempo, quando l’utilizzo della mietitrebbia era una realtà ancora molto lontana, il grano veniva mietuto con la falce. Il suo nome varia a seconda delle località e delle regioni: falcinella e falciola erano due degli appellativi più comuni. Gli antichi romani, che già se ne servivano, l’avevano battezzata “falx messoria”. In qualsiasi modo la si chiamasse, comunque, rimane il fatto che fosse uno strumento estremamente tagliente; per questo i mietitori erano soliti proteggersi le dita della mano sinistra con degli anelli d’alluminio. Il grano, dopo essere stato falciato, veniva posato sul terreno e ai giovani spettava il compito di raccoglierlo per ammucchiarlo e comporre i covoni, dei grandi fasci di spighe legate insieme. Solitamente, i covoni si posizionavano verticalmente per accelerare l’essiccazione del grano.

 

 

Dopodichè avveniva la battitura, la separazione, cioè, del grano dalla spiga. Il grano si spargeva sull’aia e veniva fatto calpestare da asini o da buoi bendati (se non lo fossero stati, si sarebbero cibati del frumento) che effettuavano il lavoro con i loro zoccoli. Gli uomini, intanto, contribuivano all’opera battendo il grano con dei pali.

 

 

Infine, il grano veniva pesato e suddiviso in due parti: una spettava al proprietario terriero, l’altra all’agricoltore. Tale mansione, che abbisognava di una grande forza fisica, era svolta dai giovani uomini vigorosi e “gagliardi”, che ne approfittavano per sfoggiare i muscoli davanti alle ragazze occupate a pulire i chicchi dalla pula. Per questo tipo di operazione, sempre effettuata sull’aia, si preferivano le giornate di vento: le spighe battute venivano alzate in aria con l’ausilio dei forconi affinchè la pula, leggera come una piuma, si librasse nell’aria, mentre i chicchi cadevano a terra a causa del loro peso. La preparazione del pagliaio, ovvero la sistemazione del fieno attorno allo stollo (un palo di legno conficcato nel suolo), spettava invece agli uomini e alle donne più maturi. Ogni fase del processo di mietitura e trebbiatura era accompagnata da battute, racconti, stornelli improvvisati sotto forma di botta e risposta, finchè arrivava l’ora del pranzo. I pasti erano abbondanti, rigorosamente genuini e a base di frutti della natura: a gustosi primi piatti seguivano il bollito e una miriade di verdure, dolci fatti a mano e caffè con l’anice. Il vino si manteneva al fresco calandolo in un pozzo dal quale veniva estratto con una carrucola.

 

 

Spesso non esisteva neppure una tavolata. I lavoranti e le lavoranti si sistemavano sotto le fronde ombrose delle querce, si sedevano sull’erba e consumavano i pasti su una lunga tovaglia distesa sul suolo.  La gioia di stare insieme, l’euforia estiva prevalevano, nonostante la fatica: si rideva, si scherzava, ci si corteggiava con arguzia. Non era raro che sbocciassero nuovi amori, favoriti dalla complicità e dal lavoro collettivo svolto sotto i cocenti raggi del sole.

 

 

Ma quali tradizioni si accompagnavano alla mietitura? Abbiamo già visto che rivestiva un ruolo carico di significati per la cultura agreste. Il grano, nei vari stadi che accompagnavano il suo ciclo vitale, era associato a rituali che propiziavano l’abbondanza del raccolto. Si pensava, ad esempio, che le ultime spighe di grano mietute o l’ultimo covone realizzato fossero pregni di una potente valenza simbolica: rappresentavano lo “spirito del grano” e avevano un’importanza decisiva per determinare le sorti delle messi future. Anticamente, in molte civiltà europee, vigeva l’usanza di gettare l’ultimo covone in un fiume o di bruciarlo; l’acqua del fiume era un emblema della pioggia che avrebbe favorito un buon raccolto, mentre la cenere del fuoco, sparpagliata sui campi, avrebbe auspicato la loro fecondità. Altre tradizioni prevedevano che il contadino che mieteva le ultime spighe fosse legato a queste ultime con una corda e che, dopo essere stato condotto nel villaggio, venisse bastonato e poi buttato in acqua.

 

 

La parte finale della mietitura aveva una valenza fondamentale in svariati luoghi. La tradizione detta incannata, tipicamente campana, prevedeva che il passante che transitava in un campo a mietitura quasi ultimata venisse insultato dai mietitori; al che, costui avrebbe dovuto rispondere con espressioni gioiose. Ma che significato si celava dietro a questa usanza? Gli insulti avevano una funzione protettiva: salvaguardavano il raccolto dagli influssi negativi che il passante avrebbe potuto esercitare. L’ultimo covone, poi, doveva essere dimenticato sul campo o tramutato in un fantoccio che rappresentava la cosiddetta “madre del grano”. Riallacciandoci al proverbio che apre questo articolo, è d’obbligo dire che la religione era sempre presente, quando si trattava di mietitura. Gli agricoltori invocavano la protezione di Dio, di Maria e di diversi Santi per garantire l’abbondanza delle messi e la buona riuscita dei lavori agricoli. E non solo: esistevano speciali orazioni che assicuravano la tutela degli strumenti utilizzati. Anche i canti e gli stornelli erano di buon auspicio, se non altro perchè incrementavano l’energia e lo spirito di squadra.

 

 

L’argomento potrebbe essere approfondito ulteriormente, specie nelle sue declinazioni spirituali e religiose. Però ho deciso di fermarmi qui, focalizzandomi sui significati e sui riti della mietitura nella cultura agreste. Valenze di tipo più mistico meriterebbero un articolo a parte. Concludo quindi questo post sulla scia dell’atmosfera inebriante e rurale che aleggia sull’evento più atteso del mondo campestre.

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“Vi è un incanto nei boschi”, una poesia di Lord Byron

 

Vi è un incanto nei boschi senza sentiero.
Vi è un estasi sulla spiaggia solitaria.
Vi è un asilo dove nessun importuno penetra
in riva alle acque del mare profondo,
e vi è un armonia nel frangersi delle onde.
Non amo meno gli uomini, ma più la natura
e in questi miei colloqui con lei io mi libero
da tutto quello che sono e da quello che ero prima,
per confondermi con l’universo
e sento ciò che non so esprimere
e che pure non so del tutto nascondere.

Lord Byron

 

 

I fiori di campo e la loro bellezza selvaggia

 

Che posto solitario sarebbe un mondo senza fiori di campo!

(Roland R. Kemler)

 

Cominciano a sbocciare già all’inizio della Primavera, e in Estate trionfano in tutto il loro splendore: i fiori di campo sfoggiano una bellezza selvaggia e costellano le distese campestri di una miriade di colori. Nascono spontanei, non hanno bisogno della semina nè della coltivazione, eppure sono meravigliosi. Non è un caso che siano stati immortalati da alcuni degli artisti più celebri di tutti i tempi: ricorrono nei dipinti di Claude Monet, Vincent Van Gogh, Gustave Klimt…Gli Impressionisti, che dipingevano en plein air in mezzo alla natura, li adoravano letteralmente. Anche perchè la loro comparsa nei prati, nei campi e nel sottobosco coincideva con il risveglio della natura. A sbocciare per prime sono le margherite, i cosiddetti occhi della Madonna (fiori di Veronica) e le primule; successivamente spuntano il tarassaco (su VALIUM ho parlato del buon miele che si ottiene da questa pianta) e la camomilla. Quando il clima si fa più caldo, e il sole invade i campi in attesa della mietitura, ecco che i papaveri cominciano a schiudersi; i loro petali rossi e impalpabili vibrano di rutilante splendore. In aree più ombreggiate ed erbacee, invece, le campanule e i muscari non passano inosservati. Questi ultimi, costituiti da raggruppamenti di piccoli fiori color indaco lungo uno stelo tubolare, sono utilizzatissimi anche come pianta ornamentale per la scenograficità della loro nuance. Ma oltre a quelli già citati, quali sono i fiori di campo più conosciuti?

 

 

Il fiordaliso, ad esempio, azzurrissimo e al centro di due affascinanti leggende della mitologia romana. Ma anche l’anemone, detto il fiore del vento, e poi la margherita di mais (glebionis segetum), così soprannominata perchè somiglia a una margherita completamente gialla. E ancora, la viola del pensiero, la viola riviniana, il ranunculo favagello.

 

 

La digitale rossa colpisce per il contrasto tra il suo nome ed i suoi fiori, infiorescenze pendule tipicamente viola, mentre il garofano dei poeti è diventata una nota pianta ornamentale, come d’altronde l’adonide estiva. Tra i fiori di campo troviamo anche il gittaione, la lantana, la dimorphoteca sinuata, con i suoi colori vivaci, il farfaraccio maggiore.

 

 

E infine il tussilago farfara, dai caratteristici petali giallissimi e sottili. A questa pianta venivano attribuite proprietà medicamentose sin dai tempi dell’antica Roma: pare che il suo nome derivi dal latino “tussis”(tosse), una patologia che il tussilago si era rivelato molto efficace nel curare.

 

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Ode alla Natura e ai Quattro Elementi

 

Ristabilire un contatto con la natura, il nostro habitat primigenio. Riscoprire la sua meraviglia, la sua infinita perfezione. Ripristinare un contatto fisico con il suolo, camminando a piedi nudi: che si tratti di sabbia, terra, erba o un campo di papaveri non importa, ciò che conta è sentirsi un tutt’uno con la Madre Terra. Rimanere senza fiato davanti alla rigogliosità dei boschi, l’immensa distesa del mare, la suggestività di un lago. Estasiarsi di fronte a un’alba, un tramonto, il crepuscolo e le sue luci soffuse. Riconnettersi con la natura è riconnettersi con i quattro elementi, trait d’union per eccellenza tra il microcosmo dell’uomo e il macrocosmo naturale: in tutte le cosmogonie, il loro equilibrio garantiva la sopravvivenza umana e cosmica. Riconnettersi con la natura è avvalersi dei cinque i sensi per riallacciare un legame con il nostro pianeta e le sue bellezze. Ho voluto dedicare la nuova photostory di VALIUM proprio a questo concetto.

 

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Dal grano al pane: le principali varietà presenti in panetteria

 

Il pane conserva quasi una maestà divina. Mangiarlo nell’ozio è da parassita; guadagnarlo laboriosamente sembra un dovere; rifiutarsi di dividerlo è da crudeli.
(Charles Pierre S. J.)
Giugno è anche il mese del grano e della mietitura. Ne parleremo a brevissimo più approfonditamente; intanto, voglio soffermarmi sul prodotto legato al grano per eccellenza, l’alimento nutrizionale di base di ogni civiltà: il pane. Chi vuole saperne di più sulle sue proprietà e i suoi benefici, può cliccare qui.  Quello che mi interessa oggi, invece, è focalizzarmi sui principali tipi di pane in commercio. Sto parlando di pane genuino, quello che i fornai sfornano quando il cielo è ancora buio. Per chi è abituato a vivere l’alba, non esiste aroma più delizioso: è un dato di fatto accertato anche scientificamente. Uno studio dell’Università della Bretagna del Sud, infatti, ha evidenziato come il profumo del pane appena sfornato infonda benessere, buonumore e una buona disposizione nei confronti del prossimo nelle persone. Quali sono, quindi, varianti regionali a parte, le tipologie di pane disponibili in panetteria? Andiamo subito a scoprirlo.
Il pane comune
E’ il pane nella sua quintessenza: si prepara con farina (raffinata o meno), lievito di birra e sale, ma quest’ultimo ingrediente è facoltativo. Contiene circa 290 calorie in 100 grammi di prodotto.
Il pane integrale
Quello classico, detto anche “pane nero”, viene realizzato utilizzando la farina integrale (ovvero ottenuta dal chicco integro e senza l’aggiunta di crusca). E’ caratterizzato da un impasto denso per la notevole quantità di acqua assorbita dalla farina, che viene affiancata dal sale e dal lievito. Il pane integrale, ricco di fibre e proteine, viene considerato un toccasana per la salute. 100 grammi di prodotto contengono 224 calorie.
Il pane speciale
E’ un pane che viene insaporito con una buona quantità di semi. Possono essere di sesamo, chia, papavero, zucca e lino, ma anche la frutta secca e l’uvetta sono molto utilizzate. Si aggiungono inoltre birra o vino e a volte delle spezie, tipo la curcuma.
Il pane ai cereali
Tra i suoi ingredienti, come dice il nome, risalta un mix di cereali: un ottimo modo per aggiungere ferro alla dieta. Può contenere la segale, il farro, il kamut, ovvero il grano turanicum, che è un tipo di grano altamente proteico. Riguardo al contenuto calorico, il pane di farro riporta i valori più bassi: 211 calorie in grammi di prodotto. Il pane di segale raggiunge un numero di calorie leggermente maggiore, 219 calorie in 100 grammi, mentre 100 grammi di pane kamut contengono quasi 360 calorie.
Il pane soffice
E’ arricchito di ingredienti extra che vanno ad aggiungersi all’acqua dell’impasto: solitamente vengono utilizzati il latte, l’olio, il burro, lo yogurt e lo strutto, che rendono questo tipo di pane estremamente soffice. Si trova spesso sotto forma di panini. Quelli al latte, ad esempio, sono morbidissimi e tondeggianti. Per quanto riguarda le calorie, i panini all’olio e al latte ne contengono, rispettivamente, 299 e 295 in 100 grammi di prodotto.
Il pane azzimo
Gli ingredienti che lo compongono sono l’acqua e la farina di cereali, ma manca il lievito. Questo tipo di pane, inoltre, non passa attraverso il processo di fermentazione. Per quanto riguarda le calorie, nel pane azzimo se ne contano 377 in 100 grammi.
Il pane bianco
Contiene farina di frumento priva di crusca e verme, eliminati precedentemente, che di frequente diventa candida grazie all’aggiunta di diossido di cloro o bromato di potassio. 100 grammi di pane bianco contengono 265 calorie.

Le lucciole e i loro magici bagliori: come possiamo salvarle dall’estinzione

 

Della loro sparizione, nel 1975, scrisse anche Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera. Eppure, in quegli anni erano molto più numerose rispetto ad oggi: le lucciole rimangono un incantevole ricordo d’estate per molti, compresa la sottoscritta. Quel lampeggiare magico nelle notti afose è indimenticabile. Bastava scendere in giardino e osservare il tripudio di lucine intermittenti che scintillava nel buio. Oggi, purtroppo, le lucciole sono pressochè scomparse. Almeno in città. E così pare che avvenga in tutto il mondo. Un esempio? Negli USA, ben 18 specie sono a rischio di estinzione. Questi coleotteri, detti Lampiridi e appartenenti alla famiglia Lampyridae, sono diffusi in ogni angolo del globo e vantano circa 2000 specie. In Europa sono presenti prevalentemente la Luciola Italica, la Luciola Lusitanica e la Luciola Novaki; non è difficile rintracciare le prime due anche in Italia. L’habitat dei Lampiridi è molto vario. Predominano i boschi, i giardini e in generale tutte le aree umide, come gli stagni, i fiumi, gli acquitrini e le paludi. Tutto ciò è strettamente associato al loro ciclo di vita, dato che le lucciole trascorrono la maggior parte dell’esistenza nel sottosuolo o a contatto con l’umidità del terreno. La metamorfosi passa attraverso quattro stadi: uovo, larva, pupa e adulto; già nella fase larvale, le lucciole si cibano ampiamente di lumache e lombrichi. Nelle zone umide, quindi, godono delle condizioni esistenziali ideali.

 

 

Quando diventano adulti, tuttavia, i Lampiridi si focalizzano totalmente sulla riproduzione e il nutrimento passa in secondo piano. Il loro accoppiamento si svolge grazie a un rituale particolarissimo basato sull’ emissione di luce: questo fenomeno, chiamato bioluminescenza, si verifica al calar del buio e prosegue con l’oscurità notturna. Il rito viene avviato dal maschio, che si libra nel cielo del crepuscolo emanando bagliori intermittenti. Il suo è un segnale di via libera al corteggiamento, l’indicazione della propria disponibilità. Bisogna aggiungere che solo il maschio è in grado di volare, la femmina si muove sul terreno o sugli steli delle piante; quando il maschio attiva la bioluminescenza, la femmina la attiva a sua volta se è interessata all’accoppiamento. Il maschio la raggiunge e ha inizio il rituale. Ma che cos’ha a che fare, tutto questo, con la scomparsa delle lucciole? Ha a che fare eccome: a causa dell’inquinamento luminoso, i segnali lampeggianti che i Lampiridi si inviano prima della riproduzione vengono quasi totalmente vanificati. Le città e le periferie, con la loro sovrabbondanza di luci, insegne e lampioni, rendono la bioluminescenza delle lucciole pressochè impercettibile.

 

 

Un altro ostacolo alla sopravvivenza dei Lampiridi è rappresentato dal massiccio utilizzo dei pesticidi chimici, che si rivelano fatali per le lucciole e per le larve. Anche il fenomeno dell’urbanizzazione, comportando una notevole riduzione dell’habitat di questi coleotteri, contribuisce a contrastare la loro presenza: fossi, stagni e piccoli corsi d’acqua diminuiscono, così come le zone paludose. In molte aree del mondo sono stati creati speciali punti di osservazione delle lucciole, soprattutto laddove i Lampidiri accentuano il fascino di determinati luoghi turistici. Le Great Smoky Mountains degli Stati Uniti, ad esempio, il Daan Forest Park di Taiwan e Nanacamilpa, in Messico, che proprio le lucciole hanno reso celebre. In queste zone, delle traiettorie sopraelevate apposite favoriscono la protezione dei coleotteri, che durante l’accoppiamento (oltre che, come abbiamo visto, in molti altri casi) rimangono ancorati al suolo. Gli esperti consigliano di seguire accuratamente quei percorsi per evitare di calpestare le lucciole, e di evitare l’utilizzo di una torcia per arginare l’inquinamento luminoso.

 

 

In molti, inoltre, organizzano le cosiddette “lucciolate”, promosse da svariati enti ambientalisti, che risultano sempre affollatissime. Cosa fare, in conclusione, per arrestare la progressiva estinzione delle lucciole? Innanzitutto, impariamo a rispettarle e a rispettare il loro habitat. Magari, adottando gli accorgimenti necessari per ricreare le condizioni di umidità ideale nel nostro giardino, oppure per eliminare l’inquinamento luminoso di cui siamo direttamente responsabili: regoliamo l’intensità delle luci che circondano la nostra casa con strumenti appositi, chiudiamo tende o persiane affinchè la luminosità dei lampadari non si propaghi negli spazi esterni. Possiamo fare attenzione a non calpestarle, se vediamo delle lucciole in giardino, e infine, last but least, dobbiamo assolutamente interrompere quel gioco crudele che aveva come scopo il catturarle per rinchiuderle in un vaso di vetro. Se poi volete saperne di più su questi magici coleotteri, vi invito a visitare il sito lampyridae.it

 

Riconnettersi con la natura

 

Vi auguro un buon fine settimana con questa immagine, una distesa di grano lambita dal sole sotto un cielo straordinariamente azzurro. Giugno è il mese in cui ci riconnettiamo appieno con la natura, assaporando i suoi frutti e godendo della sua infinita bellezza. Ormai manca pochissimo alla mietitura, che abitualmente si svolge a cavallo tra la fine di Giugno e inizio Luglio: un tempo, le spighe color dell’oro venivano tagliate a mano utilizzando una falce, poi si riunivano in grandi fasci chiamati “covoni”. Il lavoro era duro e non conosceva soste, ma le giornate si concludevano con conviviali cene sotto le stelle a cui partecipavano tutti i mietitori. Il canto dei grilli accompagnava l’atmosfera festosa, le lucciole scintillavano nell’ oscurità. A questo rinnovato legame con la natura, descritto sotto svariati aspetti e forme, saranno dedicati tutti gli articoli di VALIUM della prossima settimana. Non vi anticipo altro, invitandovi a seguirmi e concludendo con un’esortazione d’obbligo: stay tuned!

 

New York ai miei piedi

 

“In teoria, avrei dovuto essere l’invidia di migliaia di ragazze come me di tutti i college d’America, le quali avrebbero dato chissà che cosa per trovarsi nei miei panni, anzi nelle scarpe di vernice numero sette che mi ero comprata da Bloodmingale’s nell’intervallo del pranzo, insieme a una cintura di vernice nera e a una pochette coordinata. E quando avessero visto la mia foto, sulla rivista per la quale noi dodici lavoravamo – bicchiere di Martini in mano, un corpino ridottissimo di lamè imitazione argento che spuntava da una gran nuvola di tulle bianco, su qualche terrazza sotto le stelle, circondata da un assortimento di anonimi giovanotti dalla struttura ossea americana al cento per cento, ingaggiati o presi in prestito per l’occasione – tutti avrebbero pensato: caspita, che vortice di mondanità. Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente. Eravamo dodici in albergo. Tutte quante, con articoli, racconti, versi o pezzi pubblicitari, avevamo vinto il concorso organizzato da una rivista di moda il cui premio consisteva in un mese di praticantato a New York, completamente spesate, con in più montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere, occasioni per incontrare gente che aveva sfondato nel campo dei nostri sogni, nonchè lezioni di trucco personalizzate. (…) Io, a diciannove anni, non avevo mai messo il naso fuori dal New England, a parte quel mese a New York. Era la mia prima grande occasione e io cosa facevo? Stavo a guardare, lasciando che mi sfuggisse tra le dita come acqua. “

Sylvia Plath, da “La campana di vetro” (Mondadori, Oscar Moderni, traduzione di Anna Ravano)