New icons: Petite Meller

L’ hanno paragonata di volta in volta a una Lolita, ad un folletto, a una bambolina: quel che è certo, è che nel panorama pop contemporaneo la figura di Petite Meller è talmente unica e irripetibile da non avere eguali. Incarnato color latte, capelli biondissimi e il tipico fard rosa steso in una chiazza che ricopre naso, guance e zigomi in modo uniforme, Petite ha saputo tramutare il suo look in materiale iconico imitato da migliaia di fans. Dopo il boom dell’ estate 2015 con il singolo Baby Love, un’ esplosione gioiosa di note mandata quasi “in loop” per tutta la stagione ed oltre, nel Settembre scorso è uscito Lil Empire, il suo primo album, scritto e prodotto da un team di big names che include Jocke Ahlund, Peter Mayes, Shamir, Nick Littlemore e Craigie Dodds, già producer di Amy Winehouse. Petite, nata in Francia ma vissuta a lungo in Israele, vanta un CV di tutto rispetto che spazia dagli studi di Filosofia alla Sorbona all’ attività di modella in un caleidoscopio di suggestioni ispirative: un elemento fondante del suo stile “jazzy pop” – come le piace definirlo – che mixa irresistibilmente le sonorità di Dizzy Gillespie, Charles Aznavour e Duke Ellington al pop melodico più tradizionale.

Una miscela non nata a caso, influenzata da un’ infanzia parigina che al sottofondo di chansonnier come Charles Aznavour e Serge Gainsbourg alternava i ritmi made in Africa di Fela Kuti. E’ all’ università che Petite scrive le prime lyrics, ma solo a New York il suo imprinting musicale riaffiora appieno: le note dell’ hot jazz la contagiano, tramutandosi in mood ispirativo da cui scaturiscono suoni e immagini. Potenti entrambi, preziosi in parti uguali nel definire un sound che fa del video il suo irrinunciabile supporto base. Il primo, NYC Time, Petite lo gira a New York e lo carica su You Tube: proprio grazie a quel video viene notata per caso da un manager inglese che, folgorato, la invita immediatamente a Londra.  Ha così inizio la sua avventura, una carriera all’ insegna di un jazzy pop travolgente associato a sequenze di forte impatto visivo. Un esempio su tutti? Il coloratissimo video di Baby Love, dove Petite esorcizza il mal d’amore in un tripudio di danze. Girata a Nairobi, in Kenya, la clip la vede ballare scatenata con i locali e posare tra giraffe e fenicotteri rosa.

L’ ispirazione è nata dalla famosa scena del mambo di BB in E Dio creò la donna, ma le citazioni cinematografiche riappaiono in quasi ogni video di Petite Meller, così come le terre lontane ed i paesaggi esotici: le Vergini suicide di Sofia Coppola, le colline mongole, il lago Rosa del Senegal fanno da leitmotiv all’ immaginario sconfinato della bionda popstar, suggestivi fotogrammi di un viaggio a ritroso nell’ infanzia.

Ed è proprio da un ricordo infantile che provengono le sue guance in total look rosa. Nulla a che fare con un trademark di stile, piuttosto – come ha spiegato a Panorama – lo strumento terapeutico per il superamento di un trauma, quando un’ ustione durante le vacanze sulla neve tinse il suo volto di un fiammeggiante rosso ciliegia: un aneddoto che la dice lunga sul “think pink” interiore e sulla straordinaria propositività di Petite.

Photo courtesy of Petite Meller

Amanda Toy: tattoo da fiaba e un nuovo e-shop

 

Bambole dagli occhioni languidi, matrioske, unicorni, arcobaleni fatati e dettagli che strizzano l’ occhio ad un’ epoca a cavallo tra la Belle Epoque e i Ruggenti Anni ’20: tutto questo – e molto altro ancora – fa parte dell’ inconfondibile iconografia di Amanda Toy, tatuatrice cult del panorama italiano ed internazionale. Il suo cognome d’arte, “toy”, evoca un immaginario in cui il fiabesco si intreccia al ludico traducendosi in un tripudio di forme naif e tinte pop in modalità sfumata. Iconico e al tempo stesso unico, lo stile di Amanda risalta per forza espressiva: il suo universo creativo riflette nelle immagini, accompagnate a volte da brevi claim, una magica valenza concettuale. Non è un caso che i bijoux e la tela siano gli ulteriori supporti delle sue creazioni, celebrate come veri e propri fetiches. Oggi, Amanda Toy festeggia i primi 20 anni di carriera ed ha in serbo una sorpresa che farà la gioia degli aficionados del suo studio di Milano e di tutti i suoi fan: un e-shop in cui sarà possibile acquistare prodotti che riproducono le oniriche effigi dei suoi tattoo. L’ ho incontrata per saperne di più.

 

Per quando è previsto il lancio del tuo e-shop esclusivo?

Per il 22 novembre.

Attualmente, nel tuo sito web è già possibile acquistare bijoux e stampe ispirate ai tuoi tattoo. Quando e come hai deciso di ampliare il tuo “raggio d’azione”?

Oltre al lancio dell’e-shop è in previsione un nuovo sito Internet ad esso collegato. Ho deciso di ampliare il raggio d’azione circa 12 anni fa, in quanto ho sempre cercato di essere il più trasversale possibile e quindi di collegare i tatuaggi delle mie bamboline ad un filo conduttore non solo concettuale ma anche reale, che le potesse far viaggiare non solo sulla pelle ma anche su altri supporti. Per questo inizialmente ho deciso di creare una collezione di bijoux proseguendo con borse, maglie ed altre cose.

Amanda Toy

 

Come hai iniziato, come tatuatrice?

Ho iniziato nel 1996: eh sì, sono vent’anni … Quello dei tatuaggi era un mondo magico e molto di nicchia ed è stato amore a prima vista, qualcosa che potesse permettere alla mia energia di incanalarsi in una direzione che per me aveva un senso.

L’uso del colore sfumato in un arcobaleno di gradazioni è uno dei tuoi punti di forza. Come nasce questa tecnica?

Lo amo, mi viene spontaneo. Questa tecnica nasce con la consapevolezza di riuscire a mixare i colori tra di loro con sofficità. E quando dico “tecnica” intendo la conoscenza dello strumento, cioè la macchinetta per fare i tatuaggi, con tutti i suoi annessi e connessi.

Da dove trai ispirazione?

Semplicemente da me stessa e ovviamente da tutto ciò che mi circonda e mi contagia in senso positivo: immagini, ma soprattutto emozioni. Si può davvero dire che traggo ispirazione dalle mie emozioni.

Se dovessi definire il tuo stile con un aggettivo, quale sceglieresti?

Un aggettivo solo?…E’ un po’ difficile, perché io stessa non sono mai una cosa sola quindi neanche un solo aggettivo penso che definirebbe il mio stile. Se vuoi che te lo descriva con una parola direi stile TOY, cioè me stessa…Se invece mi dai la possibilità di definirlo con più aggettivi, sarebbero sicuramente “immaginativo”, “surreale”, “onirico”, “infantile”, “simbolico”, “giocoso”, “concettuale”.

Quali sono i tatuaggi più richiesti?

Lavoro molto con i racconti e le storie delle persone, a cui chiedo di definirmi che tipo di tatuaggio vogliono dal punto di vista degli aggettivi e delle loro emozioni in maniera che io possa trasferirli su pelle. Ovviamente un soggetto ricorrente è la donna, le mie bambole con occhi grandi. Il messaggio, molto spesso, è nei dettagli.

La tua è una carriera internazionale: che ci racconti al riguardo?

Ho una lista d’attesa molto lunga qua a Milano. Cerco di viaggiare il più spesso possibile, ma non sempre riesco a viaggiare come vorrei in quanto sono molto presente nel mio studio milanese. Ho in previsione, comunque, viaggi in Giappone e in America.

Esiste un tuo cliente tipo?

Il mio cliente tipo rientra in una vasta lista di persone che si tatua da me da moltissimi anni, e devo dirti che il 50% dei miei clienti sono tutti clienti che ho tatuato più volte. Da me si sono fatti braccia intere o comunque molti tatuaggi, e di questo ne sono molto felice. Il mio cliente tipo è colui che conoscendomi e fidandosi mi lascia ampio spazio di azione. Tatuo più ragazze per scelta, in quanto i miei tatuaggi spesso hanno colori molto femminili. Ma quando iniziai, nel ’96, tatuavo più maschi: anche i tatuaggi con tanto nero e molto potenti fanno parte di me.

Photo courtesy of Amanda Toy

La notte, l’arte, la “contaminazione”: incontro con il Principe Maurice

All’ anagrafe il suo nome completo è Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, ma è unanimemente conosciuto come Principe Maurice. E un principe, Maurizio Agosti, lo è davvero: discende da una casata d’ illustre lignaggio che affonda le origini nel Veneto della Serenissima, e da vent’anni a questa parte ha scelto proprio Venezia come sua dimora.  Eclettico, visionario, eccentrico, nel suo CV alterna studi di Marketing Bancario al Conservatorio ma in lui, a prevalere, è stata decisamente la vena artistica. Dire “Principe Maurice” equivale ad evocare un’ incontrastata icona dei cultori della nightlife: colui che, con magnetismo straordinario, ha movimentato le notti della Piramide del Cocoricò di Riccione durante la “favolosa” decade dei ’90, ma non solo. Star del cosiddetto teatro notturno, il Principe Maurice si muove tra Djset e performance, esibizioni musicali e prove di canto, ballo e recitazione, party esclusivi e spettacolari eventi di cui è regista e autore. La città della laguna lo vede protagonista indiscusso: Direttore Artistico dell’ Associazione Internazionale del Carnevale di Venezia, è Gran Cerimoniere oltre che figura ormai emblematica della kermesse. Oggi, la sua carriera sfaccettata ed esplosiva viene celebrata in un docufilm, Principe Maurice #Tribute, diretto da Daniele Sartori. E’ un’ alternanza di interviste e footage a raccontare questo sommo artista “della notte” in tutto il suo carisma: con il Principe Maurice ho parlato dell’ omaggio che Sartori gli ha dedicato e di molto altro ancora.

 

Icona della nightlife, performer, artista a 360°: quale definizione ti calza più a pennello?

Penso che “performer” sia la più adeguata poiché mi consente di non definirmi esattamente. Icona lo sono diventato grazie ai miei tanti estimatori e penso anche per l’originalità del mio personaggio. Artista a 360° mi piace vista la mia passione ed applicazione in varie discipline… insomma, di tutto un po’.

Come nasce il Principe Maurice?

Il Principe Maurice è nato dall’esigenza di sovrapporre alla mia vita reale una dimensione surreale ma sempre personale. E’ stata la naturale evoluzione di una personalità composita e curiosa. Il mondo della notte è stato mio complice con le sue atmosfere rarefatte e a volte morbose.

Il Principe Maurice nei panni di Giacomo Casanova – Foto di Marco Bertin

Discendi da un’antica famiglia dell’ aristocrazia veneto-napoletana. Qual è il tratto più nobile presente in te?

La mia famiglia mi ha trasmesso valori fondamentali quali la libertà, la dignità e l’amore. Non ho avuto un’educazione “borghese” legata al patrimonio e all’ostentazione. Credo che il tratto più riconoscibile sia una naturale eleganza del gesto e del linguaggio e la grande sensibilità verso la Bellezza.

Da bancario a star del “Night Theater Show”. Perché hai scelto la notte e cosa rappresenta, la notte, per te?

Fin da bambino la notte per me significava magia. Non ho mai avuto paura del buio e in vacanza mi si lasciava sveglio a fantasticare. Leggere e suonare di notte ha un altro sapore. Quando crei atmosfere oniriche hai bisogno dell’oscurità. Con le luci di scena hai uno strumento in più per suggestionare e caratterizzare ciò che fai. La notte è complice, è libera e libertina, è una sfida tra eros e thanatos che mi ha sempre intrigato. Infine, è la mia dimensione ideale.

Il Principe Maurice (in total look Issey Miyake e gorgera Swarovski Jorge Santos) e Daniel Didonè immortalati da Daniele Cipriani

Un diploma al Conservatorio con il massimo dei voti, studi di canto, danza e recitazione, mentori prestigiosi come Lindsay Kemp: come si inserisce questo background nel tuo ruolo di anfitrione delle più note discoteche italiane ed internazionali?

La mia preparazione e continua ricerca mi consentono di esprimermi in maniera intensa ed emozionale in un contesto piuttosto tecnologico e impersonale. E’ questa la differenza tra “animazione” e “teatro notturno”. Il mio modo di intervenire è fortemente contaminante e solo con strumenti artisticamente e tecnicamente affinati è possibile elaborare linguaggi che pur molto alternativi e sperimentali riescono a toccare le corde sensibili di un pubblico non abituato a queste atmosfere. La possibilità di avere Maestri straordinari è stata una grande fortuna.

Hai dichiarato di essere stato fortemente ispirato da Klaus Nomi. Che tipo di influenza ha esercitato sulla tua traiettoria artistica?

Klaus Nomi, con la sua voce incredibile e la sua presenza scenica drammatica e grottesca al tempo stesso, è per me un punto di riferimento proprio per quella sua unicità nel proporre, in particolare, la musica barocca in modo nuovo e godibile anche dal mondo “pop”. E’ esattamente quello che cerco di fare io nell’ambiente “techno”. Non l’ho mai incontrato personalmente ma quando l’ho scoperto è diventato il mio modello assoluto. L’altro mio grande mentore è stato Lindsay Kemp, con lui ho studiato e praticato la magica arte della pantomima moderna.

Il Principe Maurice con Grace Jones al Gran Ballo della Cavalchina del Teatro La Fenice (Carnevale di Venezia 2009)

Il Carnevale di Venezia ti ha visto, per anni, nei panni di un Giacomo Casanova poi proclamato maschera ufficiale della kermesse. Cosa ti affascina, del grande seduttore veneziano?

Giacomo Casanova è il testimone più autentico del modus vivendi del suo secolo, il mio preferito, il ‘700. Ha creato il mito di se stesso con la sua esistenza fatta di avventure di ogni genere e di grande curiosità intellettuale. In lui riconosco i miei tre valori fondamentali: la libertà, la dignità e l’amore. Non è tanto il celeberrimo libertino che mi intriga quanto il temerario, iperbolico, adorabile cialtrone ma anche autentico e libero “illuminato” che vive in maniera così intensa e libera una vita esaltante e tribolata a cavallo di cambiamenti radicali che lo vedono rifugiarsi nelle sue memorie per non soccombere. Ho perorato personalmente la sua “elezione” a nuova Maschera (“Il Casanova”) della Commedia dell’Arte codificando il personaggio e dandogli un cliché di immagine con il noto costumista Stefano Nicolao. Un modo per renderlo immortale attraverso il Teatro.

A Grace Jones ti lega una collaborazione di lunga data. Com’è scattata l’ alchimia tra di voi?

Conosco Grace da 35 anni. Ero ragazzino la prima volta che l’ho incontrata a Milano in una festa per la Settimana della Moda. E’ stato un colpo di fulmine e in lei ho subito intuito la personalità straordinaria oltre a subirne il fascino totale. Anche lei si è sentita immediatamente in sintonia con me intuendo qualità che nemmeno io conoscevo e che ho scoperto e migliorato proprio grazie alla nostra frequentazione. Per un periodo siamo stati anche “fidanzati”, ma sapevamo bene che l’Amicizia ha più durata e quindi il nostro rapporto si è tarato in quel senso. Godere della sua fiducia al punto da invitarmi sul palco della Royal Albert Hall in concerto all’improvviso per ballare “Libertango” chiamandomi dal pubblico dà il senso della confidenza e della complicità che nel tempo si è creata tra di noi. La considero come una componente della mia famiglia e la cosa è ricambiata. Basti pensare che quando si è esibita al Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, avendo a disposizione pochi e preziosi inviti ufficiali e personali, mi ha fatto recapitare da Buckingham Palace il mio facendomi un regalo indimenticabile. Abbiamo troppo poco spazio qui per poter spiegare cosa significa per me questo rapporto così speciale e completo.

La locandina di “Principe Maurice #Tribute” di Daniele Sartori

“Principe Maurice #Tribute” è il titolo del docufilm che ti ha dedicato il regista Daniele Sartori: ce ne vuoi parlare?

Daniele Sartori, amico veneziano che ho conosciuto quando da ragazzo frequentava il Cocoricò ed era già mio fan, è un regista di grande talento che ha ricevuto riconoscimenti internazionali per i suoi corti rivolti in particolare alla cultura Queer. Mi chiese tempo fa di fare un cameo in un suo lavoro importante e ne scoprii l’originalità e bravura. Quando mi ha proposto di seguirmi per un certo periodo in modo da realizzare un docufilm su di me ne sono rimasto colpito e ho risposto subito si. In lui riconosco la capacità di esprimersi con diverse tecniche mantenendo il filo del racconto, un po’ come Kubrick, quindi il più adatto a rappresentare le mie tante personalità. Così è stato: Principe Maurice # Tribute è un insieme di corti, tre di video arte e altri di reportage, molto diversi tra loro e  legati da un’intervista in cui spiego il mio percorso artistico ed esistenziale entrando anche nell’intimo… c’è un omaggio a Klaus Nomi ed uno a Lindsay Kemp. Il mediometraggio che dura circa 50 minuti ed ha una colonna sonora originale elaborata da me con i mitici Datura, ha già fatto il giro di Festival di Cinema quali Firenze, Torino, Milano, Venezia e l’ultima proiezione prima della distribuzione è al Cinepalace di Riccione, dove tutto è nato, ad inaugurare una rassegna di Cinema d’Essai (3 ottobre) voluta dal patron Massimiliano Gometti in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura.

Le lenti bianche e la Piramide del Cocoricò sono gli emblemi a cui la mia generazione associa, da sempre, il Principe Maurice. Se ne dovessi indicare un terzo ai “posteri”, quale sarebbe?

La “contaminazione”, una parola che amo e che è stata anche il titolo della mia prima esperienza radiofonica su Radio Capital nel ’94.

Il Principe Maurice in un look di Vivienne Westwood

“Last, but not least”: in VALIUM il focus sul fashion è preponderante. Che rapporto hai con la moda o con lo stile in generale?

Lo stile è più importante della moda, me lo hanno insegnato Grace Jones e David Bowie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare per un po’… Ci sono stilisti straordinari che nelle loro collezioni mettono capi, magari   poi nemmeno in produzione, che se riesco ad accaparrarmi (quasi sempre) entrano nel mio repertorio di costumi. Tra questi, oltre ad outfit fatti apposta per me dal mio compagno (scomparso prematuramente 8 anni fa ma sempre nel mio cuore) Pierluigi Voltolina ho parecchi pezzi di Issey Miyake, Jean Paul Gaultier, Thierry Mugler, Martin Margiela, Vivienne Westwood, Alexander McQueen, John Galliano e tanti abiti di scena autenticamente teatrali e anche antichi che “contamino”, appunto, con accessori particolari spesso fatti su mio disegno. In ogni caso la Moda è sempre più Teatro e segno dei tempi, quindi a modo suo Arte.

Photo courtesy of Maurizio Agosti

A colloquio con Greta La Medica, poliedrica icona

Photo by Oskar Cecere

Dai giorni dell’ ultima Fashion Week milanese, non si fa che parlare di lei: passare inosservata non si addice a Greta La Medica, icona glamour che ha stregato il parterre della sfilata Primavera/Estate 2017 di Fausto Puglisi. VOGUE Italia la definirebbe #untaggable, impossibile da incasellare in catalogazioni standard o in categorie ben precise. Stylist, dj, esteta, musa di designer quali Fausto Puglisi e Riccardo Tisci, Greta è una creatura ammaliante e poliedrica, colta e sofisticata ma al tempo stesso profondamente estrosa, notturna, trasgressiva. Persino i suoi “colori” rivelano un mix di contrasti: bionda come una scandinava benchè sia nata nel profondo Sud, emana una allure che coniuga al fascino una buona dose di mistero dark. Non è un caso che, sulla passerella di Puglisi, abbia calamitato tutti gli sguardi mentre incendeva tra statue di Madonne barocche e croci al neon con l’ aplomb di una modella consumata. Per Greta è stato subito boom: richiestissima, la femme fatale milanese d’adozione ha moltiplicato il numero dei suoi fan in modo esponenziale. Ed è una vera e propria star  – a Milano, i suoi dj set del venerdì sera al Blanco sono un must – di un universo che costantemente intreccia lo sfavillio della nightlife a quello del fashion world.

Com’è stato sfilare per un designer del calibro di Fausto Puglisi?

Io e Fausto ci conosciamo da tanto tempo, entrambi abbiamo le nostre radici in Sicilia. Poche settimane fa, mi ha chiesto di incontrarlo per parlare di un “progetto speciale”. Facendo la stylist, ed essendo sempre stata dall’altra parte della passerella,  non mi sarei mai aspettata che volesse propormi di fare da modella per il suo show, mi ha letteralmente spiazzata. I giorni prima dell’evento mi sono sembrati quasi irreali e carichi di forti emozioni in cui una grande eccitazione si alternava a momenti di forte insicurezza: io con il  mio  metro e 67 e diciamo non esattamente giovanissima, fra tante ragazze appena maggiorenni e bellissime. Ero molto emozionata, quasi terrorizzata. Il giorno dello show l’ho vissuto come un sogno bellissimo,  avevo l’adrenalina a mille e non mi sono quasi accorta di quanto la giornata fosse stata lunga ed intensa; l’appuntamento per le prove era di primo mattino e durante il giorno ho sfilato 2 volte, anzi 3 se penso anche alla presentazione privata fatta nel backstage per Anna Wintour! E’ stato davvero un sogno oltre che un grande onore, e ora che rotto il ghiaccio lo rifarei altre mille volte.

Che rapporto hai con la moda?

Simbiotico: per me non è semplicemente un sostantivo bisillabico, spesso anche connotato in senso negativo per via della sua caducità. E’  l’insieme di fascinazioni che arrivano da un quadro, da un film, da un viaggio, un volto, da cui si cerca di estrarre l’essenza per renderla “eterna”, per non dimenticare. La moda è pura magia e se non incanta non si può definirla tale.

Greta sulla passerella di Fausto Puglisi

Nasci come truccatrice e stylist. Come ha avuto inizio la tua avventura da dj nei più celebri “templi della notte”?

Ho studiato Lettere Antiche a Milano, è stata una scelta meravigliosa, mi ha reso poliedrica, elastica… Qualsiasi  suggestione mi sia arrivata l’ho trasformata in lavoro. Nel mio DNA scorre sangue da vampiro, amo la notte, mi ispira molto più del giorno. Qualsiasi studio o lavoro io abbia intrapreso, ho sempre avuto un rapporto parallelo con i club come fossero “amanti”. Non potrei vivere senza musica e forse non ci sarebbe vita senza di essa. Persino le stelle pare la producano nel cosmo.

Rock e moda hanno sancito, ultimamente, un connubio del tutto speciale. Da dove sorge questo feeling, a tuo parere?

Non vorrei essere troppo oscura in questa risposta, ma credo che arrivi dalle tenebre: parliamoci chiaro, le rockstar raccontano poemi di anime tormentate, che non hanno pace. E’ un’eredità lontana che arriva dallo “Sturm und drang”, da Baudelaire. Quale designer non è stato ispirato dal rock? Oggi più che mai, forse perchè siamo in una fase dissacratoria e tormentata culturalmente. E’ un periodo di buio e la moda lo deve narrare.

Photo by Giampaolo Sgura

Il tuo è un look d’impatto, inconfondibile, lo definirei da “femme fatale pensante”. Qual è la playlist che meglio ti esprime?

In questa risposta vorrei mescolare insieme musica e cinema, sintetizzo una top five: 1) “Sinnerman” di Nina Simone. 2) “The Tenant” di Roman Polansky. 3) “Janitor of Lunacy” di Nico. 4) “Lo Zoo di Venere” di Peter Greenaway. 5) “Per una Bambola” di Patty Pravo. Ma il mio sogno sarebbe ascoltare Grace Jones che canta al piano con Michael Nyman.

La musica, lo stile, e…? Quali sono le tue altre passioni?

Ultimamente sto maturando una passione pericolosa per le pietre preziose, sto studiando il loro linguaggio energetico, mi rapisce il loro colore, la luce che emanano: come se avessero un’anima. Sono una grande appassionata di cinema, da come si è intuito, e in questo periodo sono letteralmente drogata di serie TV di cui sono in grado di divorarne un’intera stagione in una sola notte. E coltivo un amore immutato nel tempo per “La Recherche” di Marcel Proust: la porterei nell’Arca insieme a tutti gli animali, se dovessimo estinguerci…Ma non porterei l’uomo!

Con la moda hai intrecciato una liason fissa. A quali designer ti senti maggiormente affine?

Discorso complicato per non dire periglioso. Non sono vittima di un marchio preciso, non voglio banalizzare rispondendo con la classica frase “dipende dalle occasioni”, ma in una situazione tipo mi piacerebbe: bere un caffè in una collezione 2010/11 di Stefano Pilati per YSL ispirata alle Suore Nere, sposarmi in un abito bianco che Riccardo Tisci disegnò nella couture del 2007 per poi uccidere lo sposo in un abito tailleur di Thierry Mugler ispirato alle formiche e andare a ballare infine in un  look gladiatrice bondage, completamente ricamato di strass e firmato Fausto Puglisi, ovviamente!

Greta alla consolle

Cosa pensi del trend no gender?

Penso che se gli alieni invadessero la Terra un giorno non starebbero a guardare cosa conservi sotto le mutandine, per essere spiccioli… in questa prospettiva cerco di interpretare la mia esistenza: sono nata in un modo, mi sono evoluta in altra forma, cerco di stare bene con me stessa. La chiave sta nell’accettazione di ciò che si è in senso ontologico; dialogare con se stessi e trovarsi. Se poi la moda negli ultimi anni sta riuscendo a scardinare gli idola tribus ereditati dal cattolicesimo, credo sia un messaggio catartico rivolto alla Libertà, che è il valore più alto dell”uomo!

Una domanda che sembra rubata ad un colloquio di lavoro: come ti vedi tra 10 anni?

Mi vedo identica ad oggi, non so se farmi i capelli con riga al centro o laterale forse accorciarli, ma sicuramente sarò bionda!

Che ci racconti, invece, del tuo immediato futuro?

Ci sono diversi progetti molto allettanti artisticamente di cui non parlo per scaramanzia. Un giornale ha scritto: dj, stylist, trendsetter e musa. Ecco, direi che il ventaglio è abbastanza ampio. Continuerò a produrre ed  ispirare con quella consapevolezza ereditata dal classicismo che le sole Muse nacquero da Zeus e Mnemosine e quindi starò con i piedi per terra!

Greta con Fausto Puglisi

Greta La Medica profilo Instagram: greta_lamedica

Photo courtesy of Greta la Medica

 

 

Eve La Plume, eterea diva

Photo by Bostjan Tacol

Di lei colpiscono immediatamente l’ allure sofisticata, l’ incarnato diafano a contrasto con la chioma color rame. I fiori intrecciati tra i capelli pettinati a ondine richiamano la nuance vibrante del suo lipstick: lo stile è anni ’30 DOC, con incursioni ad ampio spettro nel rétro enfatizzate da abiti scenografici e preziosi. Eterea, fascinosa, garbatamente seduttiva, Eve La Plume è una Burlesque performer che si distanzia in toto dallo stereotipo della pin up. Al Summer Jamboree – dove, per il secondo anno consecutivo, è stata confermata conduttrice – ha sfoggiato creazioni di Luisa Beccaria con una grazia innata, donando risalto ad evening dress che erano un trionfo di pizzo e tulle. Fotografatissima, al Festival senigalliese Eve è ormai una diva. Ma non perde mai di vista l’ ironia, né un entusiasmo genuino, nel raccontarsi e nel raccontare passioni, tappe e progetti che tracciano il percorso della sua poliedrica carriera.

Sei al bis come presentatrice del Summer Jamboree. Qual è il tuo bilancio di queste due edizioni?

Rimango sempre sbalordita da questo Festival, organizzato da due persone che su un grande amore personale per gli anni ’50 hanno imbastito un evento meraviglioso che attira pubblico da tutto il mondo. Venire qui è per me, ogni volta, un’ iniezione di felicità. E’ davvero impressionante! Non si può essere tristi, al Summer Jamboree. Il mio bilancio, quindi, è superpositivo.

Puoi raccontarci qualche aneddoto relativo alla kermesse?

Al Summer Jamboree girano moltissimi fotografi, ufficiali e non. Il risultato è che si è fotografati a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ci ho fatto l’abitudine, ma è impegnativo! Un giorno al mio fidanzato ho detto “Basta, oggi ci prendiamo una giornata liberatoria lontani dalle macchine fotografiche e dalle telecamere”, e siamo andati in spiaggia vicino alla Rotonda. Mi sono tolta il copricostume, mi sono slegata i capelli, sono entrata in acqua e ho sentito una signora che mi diceva ‘”Mi scusi signorina, la stanno chiamando da lassù!”: mi sono girata, ho guardato la Rotonda e ho visto tre teleobiettivi giganteschi, quattro macchine fotografiche, tutta l’organizzazione del Summer Jamboree  – che si trovava lì per caso, in realtà, ma vista Eve in acqua senza tutti i suoi artifici…Sono impazzita dal ridere, mi sentivo come le dive anni ‘50 paparazzate ovunque! E’ stato davvero comico. E gli scatti che ne son venuti fuori sono molto belli perché spontanei. Incredibile: persino in mezzo al mare sono riusciti a trovarmi!

Perché hai scelto di chiamarti Eve La Plume?

È una storia un po’ complicata, però posso semplificarla. Adoro il nome Eve perché è palindromo, cioè si legge anche al contrario. Ha tre lettere e a me piacciono i nomi brevi, e poi è il nome di una primadonna come Eva. “La Plume” perché fin da ragazzina mi hanno associata al concetto di leggerezza, quindi volevo un nome che contenesse un elemento leggero, delicato. In più, quando si pensa alla piuma, si pensa sempre alla piuma bianca, che svolazza. Nell’ immaginario collettivo la piuma è leggera e bianca. Dunque, Eve La Plume: un nome che è come una piccola poesia, molto fonetico.

Photo by Bostjan Tacol

Il tuo sofisticato stile d’antan è inconfondibile. Quali sono le tue epoche preferite?

Sono appassionata del periodo che va dalla fine dell’800 agli anni ’30 e ’40 del ‘900: il periodo della Belle Epoque, del Liberty, dell’ Art Déco. Di quell’ epoca amo l’estetica in toto: architettura, arredamento, abbigliamento…

Hai icone di riferimento a cui ti ispiri?

La Marchesa Luisa Casati è stata per me un innamoramento a prima vista, una folgorazione: era una donna coraggiosa, molto moderna, una performer di inizio ‘900. Con la cura, con lo studio, ha fatto di sé un’opera d’arte. Per un periodo mi è piaciuta Kiki de Montparnasse, una sorta di groupie di fine ‘800, e poi tante altre…Ammiro le donne audaci e “fuori dal loro tempo”, che hanno condotto una vita ben diversa rispetto a quella, costrittiva, delle donne dell’epoca.

Il Burlesque inneggia al glamour e all’ arte della seduzione. Che cos’è, per te, la femminilità?

Io non associo il Burlesque all’ arte della seduzione: per me è una ricerca estetica. Anche se, in generale, è sempre collegato alla sensualità femminile. Di sicuro la bellezza ha un suo lato sensuale. Il Burlesque va comunque alla ricerca di una bellezza del passato, dell’immagine di una donna che fu. Per me femminilità è la cura di sé, una cura estetica a 360° che comprende l’atteggiamento, la parola, il modo di muoversi, il modo di porsi…E’ questo che mi interessa. Perché oggi si guarda spesso a una bellezza molto più immediata e non alla cura che si costruisce nel tempo con i gesti, le parole, l’educazione.

Photo by Bostjan Tacol

Una domanda a bruciapelo: cosa voleva fare, da grande, Eve La Plume?

Da ragazzina, intorno agli 11 anni, volevo fare l’insegnante di pattinaggio artistico. Pattinavo tutti i giorni, era la mia missione di vita, e poi l’ ho fatto. Quando sono diventata più grande insegnavo pattinaggio artistico e mi sono resa conto che faceva così freddo, ma così freddo, che ho abbandonato l’ idea dopo 2- 3 anni! Poi volevo fare la stilista e quindi ho aperto un laboratorio di sartoria in cui si facevano abiti ed accessori per i negozi, per gli artisti che calcavano i palchi. E’ durata 10 anni. Infine, volevo diventare la regina del Burlesque! Ed è andata abbastanza bene, devo dire. Quando mi metto in testa di fare qualcosa, in qualche modo ci riesco. Non sempre con lo stesso successo, però i miei sogni li concretizzo. E riesco a non avere rimpianti.

Quali sono i tuoi progetti più immediati?

Tra i miei progetti più immediati di sicuro c’è “Ultimo Spettacolo”, uno spettacolo teatrale che gira l’ Italia da un paio d’anni e il 12 novembre prossimo sarà a Bologna: spero che decolli perché ne sono molto orgogliosa. E poi ci sarà Venezia, perché sono già 6-7 anni che faccio parte del cast del Ballo del Doge e di altri eventi del Carnevale Veneziano. In più,ho in programma tante date e feste private in giro per l’ Italia.

Photo by Bostjan Tacol (https://www.facebook.com/PhotobillyPhotography/)

L’ abito blu e l’ abito in pizzo bianco che Eve indossa sono firmati Luisa Beccaria

“Franca: chaos and creation”: a Venezia il docufilm che racconta il direttore di Vogue Italia

E’ la “Signora della Moda” per eccellenza: Franca Sozzani, dal 1988 al timone di VOGUE Italia,  ricopre anche i prestigiosi incarichi di direttore di L’ Uomo Vogue e direttore editoriale della Casa Editrice Condé Nast. Ma al di là delle vette professionali raggiunte (che la vedono, inoltre, alla guida di tutte le testate italiane “griffate” VOGUE), il suo ruolo di influencer si è affermato grazie ad un intuito sopraffino, al coinvolgimento in importanti topic sociali, ad una straordinaria  visionarietà. La rimessa in discussione dei canoni di bellezza, la lotta contro i disturbi alimentari, i celeberrimi Plastic Surgery e Black Issue hanno rivelato le doti pioneristiche ed il talento sovversivo di colei che ha saputo imporsi, a titolo definitivo, come la figura più iconica ed autorevole del fashion system. A “raccontarla”, oggi, è un docufilm d’eccezione: diretto dal figlio Francesco Carrozzini, in 78 minuti delinea un ritratto di Franca Sozzani accurato e disinvolto al tempo stesso. Frammenti di girato, superotto che immortalano squarci della sua infanzia e adolescenza, il tributo delle celebrities intervistate – tra cui appaiono Karl Lagerfeld, Baz Luhrmann, Naomi Campbell, Courtney Love e Bruce Weber solo per citarne alcune – compongono i tasselli di un puzzle che descrive a tutto tondo il direttore di VOGUE Italia. Nella pellicola, che sarà presentata in anteprima stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia,  il fotografo e regista Francesco Carrozzini traccia un excursus che, oltre a rivelare Franca Sozzani come business woman e donna,  si addentra nella relazione madre-figlio evidenziandone la quintessenza. Il “Sozzani-pensiero” appare in tutto il suo fulgore: volitiva e votata al controllo, ma non per questo priva di una leggerezza che sdrammatizza la vita con rinfrescante ironia, Franca crede fermamente nella potenza dei sogni e attende un Principe Azzurro non ancora pervenuto. Anche se – con ogni probabilità – al suo arrivo sarà già proiettata verso nuove idee e nuovi lidi, incontro a quel futuro che persegue costantemente, capace di stravolgere, con la sua ingegnosità creativa, persino il fluir del tempo. Sempre intenta a creare, a scoprire, a lanciare, in perenne movimento: se come diceva Nietzsche “Bisogna avere un caos dentro di sè, per generare una stella danzante”, non poteva esistere titolo migliore (Franca. Chaos and creation) per descriverla in un docufilm che rappresenta, simultaneamente, un omaggio e un lascito. La dichiarazione d’amore da parte di un figlio che ha voluto regalare a sua madre il dono più bello: una testimonianza che celebra l’ audacia, l’ estro, la marcia in più di una “Signora della Moda” davvero speciale.

Photo by Studio NYC (Opera propria) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati

Schield Jewels: a tu per tu con Roberto Ferlito

In questi giorni la stampa internazionale, sempre molto attenta ai look di Letizia Ortiz,  è rimasta letteralmente conquistata dagli orecchini che la Regina di Spagna ha sfoggiato durante la cerimonia di premiazione della Fondacion Consejo Espana-India: un grappolo di fiori smaltati di bianco e cosparsi di Swarovski che pende dal lobo sfiorando delicatamente il collo. Gli orecchini in questione sono firmati Schield, un brand che i lettori di VALIUM conoscono ormai bene. Direttore creativo del marchio fondato a Firenze nel 2012 è Roberto Ferlito, classe 1981, nato in Sicilia ma fiorentino d’adozione. Dopo il diploma al liceo artistico, Roberto prosegue gli studi a Milano prima di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano,  dove esordisce come designer di accessori per brand del calibro di Vivienne Westwood e Roberto Cavalli. E’ durante il periodo trascorso alla corte del “Re dell’ Animalier” che ha il suo primo approccio con il gioiello: un coup de foudre sfociato, in breve tempo, nella creazione di una griffe che ingloba la luxury jewellery in un vero e proprio progetto con focus sul design, sulla fotografia e sul lifestyle. L’ incontro e il connubio con il fotografo Diego Diaz Marin sono stati, in questo senso, fondamentali. Insieme, Ferlito e Diaz Marin hanno dotato l’ universo Schield di un’ identità inconfondibile e dal forte impatto visivo: il design avantgarde di Roberto mixa originalità e inventiva con piglio graffiante, a tratti ironico, declinando il proprio estro visionario in creazioni ad alto tasso di savoir faire artigianale. La destinataria è una donna audace, priva di censure, eccentrica e sofisticata al tempo stesso: una donna che le advertising campaign di Diego Diaz Marin per Schield “raccontano” in immagini d’effetto.

Il successo riscosso da questo brand già divenuto iconico era inevitabile, rafforzato dal visual magazine Doubleview che ne diffonde il progetto a livello internazionale.  La nomina tra i finalisti della categoria “Accessori e Gioielli” di Who’s Next, l’ iniziativa di fashion scouting  lanciata da Altaroma e Vogue Italia, ha rappresentato un ulteriore, prestigioso step nella carriera di Roberto Ferlito: l’ ho incontrato per approfondire con lui l’ appassionante avventura di Schield.

Come nasce il tuo percorso di designer di gioielli?

Mi avvicino al mondo del gioiello quasi per caso, quando cominciai a lavorare per Roberto Cavalli 14 anni fa. Da lì una grande sorpresa mi porta ad appassionarmi fino a creare Schield.

A Firenze vivi, ma hai anche fissato il tuo headquarter. Quali sono i pro e i contro dell’ aver privilegiato una location che, pur prestigiosa,  si distanzia dal circuito delle capitali internazionali della moda?

Firenze è da sempre una città che mi ha dato molto, sia nel personale che nel lavoro. La distanza non mi spaventa anche perché è in un punto strategico, che ti permette di arrivare un po’ dappertutto. Il mio studio, creato insieme a Diego, è un luogo dover poter seguire serenamente i nostri progetti e il fatto di essere un po’ distanti dalle capitali della moda ci permette di creare senza nessun tipo di influenze.

Schield è un progetto che incorpora un mix esplosivo di estro e trasgressione. Quali input ha apportato, in questo senso, il tuo connubio creativo con Diego Diaz Marin?

Quando ho conosciuto Diego è scattata, da subito, una sintonia creativa molto simile che ci ha permesso di tracciare senza alcun dubbio la nostra strada creativa. In poco tempo ha permesso sia a Schield, che a Diego come fotografo, un forte impatto nel mondo della moda, dell’arte e delle celebrities.

Quanto è importante l’ aspetto visuale, oggi, al fine di veicolare l’ identità e il mood di un prodotto?

Soprattutto per Schield è importante perché con i nostri scatti, oltre a mostrare i gioielli siamo riusciti a creare un mondo che ha dato una personalità al brand.

Nei tuoi jewels risaltano il design innovativo, scintillanti Swarovski e colori vibranti che si sposano con l’ artigianalità più minuziosa. A quali spunti attinge la tua ispirazione?

E’ tutto casuale, qualunque cosa guardo può diventare un gioiello Schield.

Se dovessi tracciare un ritratto della “donna Schield”, come la descriveresti?

Decisa!

Esistono creazioni a cui sei particolarmente legato o contraddistinte da una speciale traiettoria creativa?

Uno dei pezzi che preferisco è la Fluide Necklace, un choker che viene realizzato come se il metallo stesse per sciogliersi.

Doubleview è il magazine che “racconta” il progetto Schield nella sua interezza. Posso chiederti qualche anticipazione sul prossimo numero della rivista?  

Doubleview è un progetto a sé, anche se viene realizzato nel nostro studio. Ha una propria personalità. L’ unica anticipazione che posso darti è che il prossimo numero uscirà a fine settembre e sarà un numero provocatorio molto più vicino all’ arte visiva che alla moda.

Cos’ ha rappresentato, per te, il traguardo di Who’s Next?

Una grande soddisfazione, sono contento di aver fatto parte di questo progetto!

 

 

Photo courtesy of Schield

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte

“It’s only Rock’n Roll (but I like it)”: a Bologna una mostra dedicata ai Rolling Stones

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

It’s only Rock’n Roll (but I like it): la celeberrima hit-manifesto dei Rolling Stones da oggi è anche il titolo di una mostra fotografica con cui, dal 16 giugno, ONO Arte Contemporanea omaggerà la leggendaria band. In esposizione, gli scatti di due prestigiosi fotografi della music scene come Terry O’ Neill e Michael Putland, che immortalano una carriera consolidata in piena Swingin’ London ed esplosa definitivamente nel decennio dei Settanta. E’ trascorso mezzo secolo da quando il TIME coniò l’ aggettivo che descriveva una Londra “dondolante”, frizzante, capitale assoluta dello “youthquake” citato da Diana Vreeland, quella stessa Swingin’ London che vede Terry O’ Neill muovere i primi passi come fotografo: nato nell’ East End, O’ Neill è un batterista jazz che sogna di volare negli USA e di unirsi alle più famose band. Per mantenersi scatta per la British Airways e diventa un fotoreporter, ma la sua passione per la musica non tarda a emergere ed è il primo a immortalare i Beatles nello studio di Abbey Road. Ben presto, però, la sua attenzione viene catturata da una band che in quegli anni inizia a spopolare, i Rolling Stones: il look del gruppo non è poi così diverso da quello dei Fab Four, ma musicalmente risalta un elemento “graffiante” e intriso di rimandi al rhythm and blues che li contraddistinguerà a titolo perenne. Le prime foto di O’Neill ritraggono la formazione di esordio della band – Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’ indimenticato Brian Jones – per le strade di Londra, ancora alla ricerca di uno stile estetico identificativo, anticipando l’ evoluzione che li tramuterà in trasgressive rockstar anche nel modo di mostrarsi al pubblico.

 

 

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

Il nuovo status coincide con una mutazione nel look che Michael Putland immortala egregiamente, congelando su pellicola una vera e propria svolta storica del gruppo.

 

 

©Michael Putland

 

Putland, fotografo ufficiale della band dai primi anni Settanta, è presente sul set del video di It’s only Rock ‘n Roll (but I like it) e documenta costantemente le performance live degli Stones. Ed è proprio nella dimensione del tour che si alimenta e si consacra il loro mito, rendendoli a tutt’ oggi esplosive leggende del rock: il ruolo privilegiato di Michel Putland fa sì che ci fornisca un dettagliato resoconto fotografico che, oltre alle esibizioni sul palco, include i backstage, gli studio recordings e i party che hanno descritto a tutto tondo un’ era. Queste immagini – unitamente a quelle in mostra – appaiono nel libro che ONO Arte cura per LullaBit, ROLLING STONES by PUTLAND. Il volume sarà nelle librerie a Settembre, ma verrà presentato in anteprima in galleria: i fan dei Rolling e di Michael Putland, infatti, il 18 Giugno (dalle ore 16) potranno farsi autografare copie del libro dal grande fotografo in persona. Un save the date decisamente da non perdere. Perchè sarà anche “only Rock’n Roll”…But We like it!

©Michael Putland

La mostra (16 Giugno – 23 Luglio), allestita a Bologna presso ONO Arte Contemporanea in via S. Margherita 10, è patrocinata dal Comune di Bologna ed è composta da circa 50 immagini in diversi formati.

Il catalogo ROLLING STONES by PUTLAND, edito da LullaBit, è il secondo titolo della collana realizzata in collaborazione con ONO Arte.

Rolling Stones cover

Photo courtesy of ONO Arte