Giallo

 

“Il giallo è il colore più prossimo alla luce.”
(Goethe)

 

VALIUM l’ha eletto colore del mese di Maggio; brillante, avvolgente, luminoso, il giallo simboleggia perfettamente l’inizio della bella stagione. Mi sembra d’obbligo, quindi, dedicargli una photostory. Perchè anche se il meteo ci sta opprimendo con un Maggio novembrino, tra pioggia e temporali non c’è niente di meglio che sognare “in giallo”: la tonalità del sole.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Il maggiociondolo, uno sfarzoso tripudio di fiori gialli tra leggende e tradizioni

 

Fiorisce a Maggio, come suggerisce il suo nome. E se vi è capitato di vederlo, potete star certi non lo dimenticherete: i suoi grappoli di fiori gialli pendono dai rami come una rigogliosa cascata. La somiglianza con quelli del glicine è evidente. A differenziarli è il colore, un giallo brillante che cattura lo sguardo e lo riempie di meraviglia. La pianta di cui sto parlando è il maggiociondolo (nome botanico Laburnum anagyroides), un piccolo albero che appartiene alla famiglia delle Fabacee. La sua altezza è compresa tra i 4 e i 6 metri e sfoggia grappoli del colore del sole che raggiungono i 25 cm di lunghezza. I fiori, profumatissimi, ciondolano dai rami ad ogni alito di vento: da qui il nome “maggiociondolo”.

 

 

Il legno del tronco è molto scuro e super resistente. I frutti dell’ albero si presentano come baccelli contenenti innumerevoli semi neri, ma nascondono un’insidia: sono ricchi di citisina (un alcaloide), il che significa che sono estremamente velenosi per l’uomo e per alcune specie animali. La brutta notizia è che del maggiociondolo non risultano velenosi solo i semi. Quest’ albero, infatti, è velenoso nella sua interezza. “Guardare e non toccare” potrebbe essere il motto che lo rappresenta. Gli animali a maggior rischio avvelenamento sono i cavalli, le capre, le mucche: se queste ultime brucano i rami della pianta, c’è il pericolo che la tossicità si trasmetta finanche nel loro latte. I semi sono particolarmente letali, soprattutto se non ancora maturi. Ci si può intossicare anche ingerendo un solo seme, e consumandone molti si mette a rischio la propria vita. Misteriosamente, tuttavia, animali selvatici quali le lepri, i cervi e i conigli si nutrono dei semi del maggiociondolo senza incorrere in spiacevoli conseguenze: è uno dei motivi per cui questa pianta viene considerata magica sin da tempi remotissimi. Ed è proprio in virtù di ciò che vi parlo del maggiociondolo, un albero altamente simbolico, associato a molteplici leggende e a secolari tradizioni, nello specifico quelle della notte di San Giovanni.

 

 

Il Laburnum cresce nelle zone temperate ed è diffuso principalmente nell’ Europa del Sud: l’area sudorientale della Francia, catene montuose come le Alpi e gli Appennini, i rilievi della Penisola Balcanica. L’habitat in cui si sviluppa è il bosco. Il legno scurissimo e solido del maggiociondolo, che negli esemplari anziani accentua queste sue caratteristiche, è valso alla pianta l’appellativo di “falso ebano”, poichè può sostituirlo perfettamente.  Antiche leggende ricollegano l’albero alla figura delle streghe: pare che, nel Medioevo, si servissero dei suoi semi per la preparazione di elisir e pozioni magiche, mentre durante i Sabba erano solite cavalcare bastoni ricavati dal suo legno. Ma il maggiociondolo non è un albero che rimanda unicamente a connotazioni “malefiche”. I riti della notte di San Giovanni, ad esempio, prevedevano che venissero accesi dei falò con i rami di sette alberi, tra cui, appunto, il maggiociondolo. I falò ardevano con valenza purificatoria, in omaggio al sole e per alimentare l’energia interiore. Tale usanza persiste in molte aree geografiche.

 

 

Tornando alle streghe, vale la pena di approfondire alcuni aspetti del loro utilizzo del maggiociondolo. Le pozioni che preparavano con i componenti dell’albero sortivano effetti psicotropi: “liberavano” dal peso del corpo, davano l’illusione di poter levitare nell’aria. Lo scopo era quello di alterare lo stato di coscienza per esplorare nuove dimensioni. Questa pratica, chiamato “volo della strega”, veniva effettuata nel corso dei raduni. Il bastone di maggiociondolo utilizzato durante il sabba, invece, era un palese simbolo fallico, ma anche una sorta di strumento di riconoscimento che decretava lo status di strega. Simboleggiava inoltre il volo, il trionfo nei confronti della materia e delle costrizioni corporali. Pare che proprio da tale tipo di verga nacque la leggenda della “scopa volante”: per sfuggire agli inquisitori, le streghe usavano cammuffare i loro bastoni tra mazzi di saggina. Davano così l’impressione di essere delle normalissime scope.

 

 

In tempi remoti, il maggiociondolo era chiamato anche “pioggia d’oro” per la teatralità dei suoi grappoli fioriti. La chioma dell’ albero, un tripudio sfarzoso di giallo, è stata celebrata da poeti e letterati. Il poeta inglese Francis Thompson, in un suo componimento, definisce il maggiociondolo “miele di fiamme selvagge”. J.R.R. Tolkien, l’autore de “Il Signore degli Anelli”, inserisce la pianta nell’ opera mitologica “Il Silmarillon” e lo identifica con Laurelin, l’Albero d’Oro della terra primordiale di Valinor. Anche Sylvia Plath cita spesso il maggiociondolo nei suoi versi; la poesia “The arrival of the bee box” recita: “C’è il laburno, con i suoi biondi colonnati,/E le gonnelle del ciliegio”. Persino Giovanni Pascoli lo nomina ne “La capinera”.

 

 

Per concludere, una leggenda che fa riferimento al territorio abruzzese. Si narra che la Frigia, una remota regione situata in Asia Minore, fosse popolata da guerriere gigantesse chiamate “Majellane”. Maja, una di loro, ebbe un figlio da Giove che partorì in Arcadia, sulle alture del Monte Cillene. Hermes – così fu battezzato il bambino – divenne un giovane di bellissimo aspetto e imponente come sua madre. Un giorno, dopo che rimase ferito durante una terribile battaglia, Maja lo condusse in un luogo dove proliferavano erbe officinali di ogni genere: il Monte Paleno, nell’attuale Abruzzo.  Purtroppo, però, quando raggiunsero il Monte si accorsero che era completamente ricoperto di neve e per Maja risultò impossibile procurarsi la pianta di cui era in cerca. Hermes morì e sua madre cadde nella disperazione più totale. Il pianto della gigantessa risuonò tra le valli del massiccio montuoso per un anno intero, dopodichè fu stroncata dal dolore. Sceso sul Monte, Giove provò un’enorme sofferenza nel constatare che Maja era morta. In suo ricordo, allora,  creò il maggiociondolo, un alberello che “esplodeva” di fiori gialli, e le dedicò il mese di Maggio (poichè era il mese della fioritura). Sebbene non fosse più in vita, Giove elevò la madre di Hermes a ninfa delle selve e delle sorgenti del Monte. Ordinò che il Paleno fosse ribattezzato Monte Majella, un nome che onorava la memoria di Maja, e stabilì che sarebbe diventato il tempio eterno della donna che aveva amato suo figlio di un amore così profondo.

 

 

 

Il close-up della settimana

 

La notizia ormai è ufficiale: il marchio Walter Albini, capostipite del prêt-à-porter italiano, sta per essere rilanciato in grande stile. La proprietà intellettuale e buona parte degli archivi del brand sono stati acquistati da Bidayat, la società d’investimento con base a Lugano fondata da Rachid Mohamed Rachid. Rachid, CEO del fondo del Qatar Mayhoola che ha già acquisito le maison Valentino e Balmain, è entusiasta dell’ operazione. Attualmente sta intrecciando collaborazioni con un gran numero di media, musei, curatori, gruppi editoriali  e professionisti del settore del lusso allo scopo di divulgare l’eredità di Walter Albini e riaffermare la potente iconicità delle sue creazioni. Prima che li acquistasse Bidayat, gli archivi di Albini (che abbracciano un periodo compreso tra il 1965 e il 1983) erano di proprietà di Barbara Curti: sua madre, Marisa Curti, è stata un’appassionata collezionista di tutto ciò che riguardava lo stilista sin da quando apparve sulle scene. Abiti con le leggendarie stampe signature del brand, gioielli, accessori, un’incredibile quantità di foto e di disegni costituiscono il materiale della raccolta, di cui Barbara Curti seguiterà a occuparsi nel ruolo di curatrice. Il primo step del progetto di rilancio è incentrato proprio su un accurato studio dell’ heritage, che fornirà degli elementi decisivi per il futuro del marchio. La sfida è a dir poco emozionante: stiamo parlando di una griffe che il suo fondatore (Walter Albini, appunto) rese unica e irripetibile; non è un caso che lo stesso Rachid Mohamed Rachid l’abbia definita “un gioiello nascosto della moda italiana”. Ripercorrere in molta sintesi il percorso di Walter Albini, a questo punto, mi sembra d’obbligo. Nato a Busto Arsizio nel 1941, comincia a fare schizzi delle sfilate di alta moda appena diciassettenne, mentre studia ancora all’ Istituto d’Arte. Invia i suoi disegni alle riviste, si suddivide tra Roma e Parigi dove svolge la sua attività; nella Ville Lumière conosce Coco Chanel e ne rimane estasiato. Esordisce come fashion designer con Krizia di Mariuccia Mandelli, lavorando a fianco di un giovanissimo Karl Lagerfeld. Da Krizia rimane tre anni, a cui seguono collaborazioni con svariate case di moda. Si afferma a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 sbalordendo per il suo spirito innovativo: nel 1970 lancia il total look e l’ “unimax”, outfit per uomo e donna accomunati dal taglio e dalla tonalità; nello stesso anno svela la collezione Anagrafe, che a otto spose vestite di lunghi abiti rosa contrappone otto vedove in minidress nero. Anna Piaggi conia il termine “stilista” appositamente per Albini, ma l’estroso visionario di Busto Arsizio, grazie alle sue intuizioni, si guadagna anche il titolo di “pioniere del prêt-à-porter italiano”: sfila a Milano anzichè a Firenze (la capitale storica della moda), propone uno stile perfetto per la vita quotidiana e distante dall’atmosfera ovattata degli atelier. Presenta la prima collezione firmata Walter Albini a Londra, nel 1973. E’ una collezione co-ed che lancia in parallelo a molte altre novità. Una su tutte? La proposta di due linee parallele, la prima destinata a un pubblico ristretto e la seconda alla grande diffusione. In Italia apre uno showroom a Milano e va a vivere a Venezia, dove organizza un’indimenticabile sfilata al Caffè Florian. Diventa un “personaggio”, il testimonial delle sue creazioni, arreda le case che possiede en pendant con le sue collezioni. Nel 1975, a Roma, debutta nell’ alta moda con una linea fortemente influenzata da Coco Chanel e dagli anni ’30, che insieme ai ’40 rappresentano il periodo storico a cui fa riferimento. Altri cardini del suo stile sono le suggestioni ethno (pregilige l’Asia, l’Africa, il Messico), l’ispirazione Fortuny, l’unisex, il total look, la grande attenzione per i dettagli e gli accessori. Albini viene considerato l’equivalente italiano di Halston e di Yves Saint-Laurent, ma sfortunatamente non vive a lungo: muore nel 1983, a soli 42 anni. In Italia, all’ epoca, esplode il prêt-à-porter, un settore che lui stesso ha promulgato: il ricordo del suo marchio, tuttavia, sbiadisce con l’inarrestabile avanzata del Made in Italy.

 

 

Oggi, Bidayat ci offre la splendida opportunità di riscoprirlo. “La vera sfida sarà trovare una squadra direttiva del giusto calibro per concretizzare la nostra visione e ambizione”, dichiara Rachid Mohamed Rachid. E gira voce, non a caso, che alla direzione creativa del “nuovo” Walter Albini potrebbe essere nominato nientepopodimeno che Alessandro Michele.

 

Immagine di copertina: Walter Albini

Foto di Alessandro Michele by Walterlan Papetti, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Elisabetta I Tudor, l’incoronazione

 

“I preparativi per l’antico e complesso rito dell’incoronazione assorbivano gran parte del tempo di Elisabetta. Occorreva trovare un ecclesiastico disposto a officiare e, con il cardinale Pole defunto (era sopravvissuto a Maria solo per poche ore) e Heath, l’arcivescovo di York, diffidente nei riguardi dell’ intimo credo della nuova regina, la ricerca non si prospettava facile. Alla fine la scelta cadde su un oscuro suffraganeo di Heath, Owen Oglethorpe di Carlisle. Poi vi furono da appianare le controversie relative alla cerimonia, con i nobili che gareggiavano per ottenere la posizione di maggiore spicco durante le celebrazioni, i paramenti e gli arredi da ordinare, ecc. Nel giro di una notte, fu allestita una vera e propria impresa per fornire gli abiti, gli ornamenti e gli orpelli per la più sfarzosa delle occasioni regali: sarti e cucitrici per impuntire le vesti preziose e ricamatori, merciai e piumai per decorarle, pellai per reperire le pellicce e commercianti di tessuti per i ricchi velluti e le sete. I tappezzieri furono incaricati di rivestire la nuova portantina della sovrana con una stoffa intessuta d’oro e il seggio dell’ incoronazione nell’abbazia con un drappo argentato. Sellai e ferraioli prepararono sontuosi finimenti per i cavalli, mentre i coltellinai si occuparono delle spade cerimoniali e delle altre armi tradizionalmente indossate nel giorno dell’incoronazione. Il sarto della regina supervisionò l’ abbigliamento dell’ intera corte, non solo degli ufficiali e delle dame della sovrana, ma anche delle diverse centinaia di araldi, tirapiedi, musicisti e guardie che avrebbero seguito Elisabetta in processione. Nessuno fu dimenticato, nemmeno i fornitori di cibarie per le cucine del palazzo nè le lavandaie della regina, che ebbero una nuova veste rossa, e neppure i buffoni di corte, che avrebbero indossato sgargianti abiti in velluto arancione con inserti viola. “

 

Carolly Erickson, da “Elisabetta I – La vergine regina”

 

Foto: “Elizabeth I of England (1533-1603) in Coronation Robes”, dipinto di autore anonimo risalente al 1600 circa.

 

La colazione di oggi: le fragoline di bosco, un elisir di lunga vita

 

Maggio, come tutti ben sappiamo, è il tempo delle fragole. Ma anche delle fragoline di bosco! La Fragaria Vesca (questo il suo nome botanico), a differenza della Fragaria X ananassa che viene coltivata, nasce spontanea nel sottobosco ed è diffusa in Europa, nel Nord America e in Asia settentrionale. Le dissomiglianze tra le due tipologie sono evidenti: le fragoline, rispetto alle fragole da giardino, hanno dimensioni molto più piccole, una consistenza più soffice (“vesca”, in latino, significa “molle” non a caso) e un sapore decisamente più intenso. Quando passeggiamo nei boschi, la Fragaria Vesca è ben distinguibile. Cresce in mazzetti ornati da triadi di foglie dai bordi dentellati, ha fiori minuti e bianchissimi che sfoggiano un massimo di sei petali, fiorisce da Aprile fino a Luglio ma non è raro che sbocci anche in Autunno. La Fregaria Vesca predilige i terreni piuttosto ombreggiati, battuti dal sole quanto basta. Ma perchè dovremmo prenderla in considerazione, data l’ enorme diffusione della Fragaria X ananassa? E’ molto semplice: le fragoline sono oltremodo ricche di proprietà benefiche e curative.

 

 

Basti dire che vengono utilizzate come pianta medicinale sin da tempi remotissimi: tra le loro innumerevoli virtù, rientra quella di combattere i malanni gastrointestinali. Le fragoline di bosco depurano, svolgono un’efficace azione diuretica, tengono a bada gli sbalzi di pressione e contrastano l’ipertensione arteriosa. In Primavera, quando maturano i loro “falsi frutti” (i frutti veri e propri sono gli acheni, i semini che punteggiano la superficie rossa), sono un toccasana per azzerare lo stress tipico del cambio di stagione. La Fragaria Vesca abbonda di sali minerali come il ferro, il calcio, lo iodio, il fosforo e il magnesio, un ottimo drenante: grazie ad esso combatte eccellentemente la ritenzione idrica, favorisce la diuresi e depura l’organismo. Il frutto (lo chiameremo così), inoltre, è ricco di acido acetilsalicilico, noto per le sue virtù analgesiche e antinfiammatorie.

 

 

Anche la vitamina C contenuta nella Fragaria Vesca è di fondamentale importanza: le proprietà antiossidanti di questa vitamina contrastano la deleteria azione dei radicali liberi, causa prima della degenerazione dei tessuti. Grazie alle sostanze benefiche di cui abbonda, la fragolina di bosco può essere considerata un valido ricostituente, il che si rivela un toccasana anche per l’ ipertensione arteriosa di cui vi ho parlato poco fa. Ritemprare il sistema nervoso, combattere i radicali liberi e drenare i liquidi in eccesso, infatti, rappresentano tre azioni basilari per proteggere le arterie e rigenerare l’organismo.

 

 

Cosa potreste preparare, quindi, con le fragoline di bosco? A colazione, frappè e frullati sono l’ideale sia per dissetarsi che per drenare i liquidi.  Le fragoline possono essere anche gustate così come sono, magari condite con un po’ di limone, per godere appieno delle virtù antiossidanti di cui sono ricche. Altre idee? Inseritele nella macedonia, insieme ad altri tipi di frutta. Oppure consumatele nel porridge (la zuppa di avena). Quando viene inclusa nella farcitura o nella decorazione dei dolci, la Fragaria Vesca raggiunge il top della golosità. Se però volete sfruttare al meglio le proprietà salutari delle fragoline selvatiche, assaporatele al naturale dopo averle mescolate al miele: l’effetto ricostituente è assicurato.

 

 

 

Le Frasi

 

“Quando da Ragazzina stavo molto nei Boschi, mi dicevano che il Serpente mi avrebbe morso, che avrei potuto cogliere un fiore velenoso, o che i Folletti mi avrebbero rapita, ma io andavo avanti e non incontravo nessuno tranne Angeli, che erano molto più timidi con me, di quanto io fossi con loro, così non ho quella confidenza con l’inganno che hanno tanti.”

(Emily Dickinson)

 

 

Nel tramonto

 

” Camminavo in una primavera mediterranea. Sola. Ancora oceani di pensieri inquieti acceleravano ritmi cardiaci sincopati e ansiosi. Nel confuso di un tramonto marino. Il porto a pochi passi. Liberi i gabbiani in volo. La mia ombra addosso rimproverava sicurezze più che ventenni. Mi vorrei forte e coraggiosa. Pensavo. Integra stella lucente e intanto lame metalliche mi stringevano stronze i fianchi saziandosi, rubando il dolce rimasto sulla mia pelle. Frenetica inquietudine bisognosa di felice quiete. Cosi poetico e triste insieme. Sentirmi romantica nel tramonto. Come sempre musica di violini elettrificati registrati in nebbiose pianure padane ad azzerare il sonoro naturale delle onde nervose. “

 

                                               Isabella Santacroce, da “Destroy”

 

 

1 Maggio, Beltane

 

1 Maggio. Se la tradizione, oltre che alla Festa del Lavoro, associa questa data al Calendimaggio (rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato), i Gaeli – un popolo celtico stanziatosi in Scozia e in Irlanda – celebravano Beltane, il giorno che coincideva con l’inizio dell’Estate. Il nome deriva dall’ irlandese antico “Beletene”, ovvero “fuoco luminoso”, e in Irlanda veniva usato anche per indicare il mese di Maggio. La collocazione di tale ricorrenza era fissata a metà tra l’ Equinozio di Primavera e il Solstizio d’Estate. Ma cosa si festeggiava, esattamente? Innanzitutto il ritorno della luce e della vita; accanto ad esse, la fertilità. Luce, vita e fertilità rappresentano una triade inscindibile, l’una è direttamente collegata all’altra. Il sole a Maggio torna a splendere, il clima è mite, si può godere dell’aria aperta. Ci si proietta verso l’esterno anche interiormente: la natura rigogliosa e le giornate sempre più lunghe diffondono un’atmosfera gioiosa. Si progettano picnic, scampagnate, si intrecciano amicizie e nuovi amori. E’ il periodo in cui il bestiame, dopo lo svernamento, viene condotto al pascolo. A Beltane, nel X secolo, i greggi e le mandrie erano sottoposti a pratiche di benedizione e purificazione da parte dei Druidi, che accendevano enormi falò sulle colline. Lì avevano luogo i rituali.

 

 

Questa tradizione sopravvisse persino dopo l’avvento del Cristianesimo e resistette fino agli anni ’50 del 1900. Non era, però, esclusivamente rivolta agli animali. Un gran numero di persone ardiva attraversare i falò saltando. Il rito aveva un carattere di buon auspicio e preveggenza: quanto più alto era il salto, tanto più alto sarebbe stato il raccolto. Molteplici usanze celebravano la fertilità tramite la formazione di nuove coppie. Il rito del Palo del Maggio, ad esempio, era comune presso i popoli Germanici e Anglosassoni. Prevedeva che un tronco di betulla, ontano, pioppo o maggiociondolo venisse privato dei rami e poi fissato nella terra. Alle donne del villaggio spettava il compito di attaccare al Palo ventiquattro nastri che misuravano il doppio della sua lunghezza; i colori erano innumerevoli, ma prevalevano il rosso, che simboleggiava il principio maschile, e il bianco, emblema di quello femminile. Le donne nubili erano tenute a realizzare una ghirlanda di fiori da porre attorno al Palo, in modo che potesse salire e scendere nel bel mezzo della danza rituale. Tre giorni prima dell’ inizio della festa, il Palo e la corona venivano consacrati. Erano rispettivamente il simbolo dell’ energia maschile e femminile.

 

 

Il giorno stesso delle celebrazioni, le donne scavavano una buca nel terreno laddove sarebbe stato collocato il Palo. La valenza emblematica di questo particolare è evidente: la buca rappresentava l’organo genitale femminile, mentre il Palo era un palese simbolo fallico. Nel momento in cui gli uomini si accingevano a sprofondare il Palo nella terra, avveniva un singolarissimo rituale. Le donne fingevano di allontanarli dalla buca per poi permettere loro di piantarvi il tronco. Infine, i nastri colorati venivano fissati sulla cima del Palo insieme alla ghirlanda. Attorno al Palo si effettuavano danze di corteggiamento: ogni uomo e ogni donna del villaggio dovevano tenere in mano l’estremità di un nastro. Le donne danzavano attorno al palo in senso antiorario, gli uomini in senso opposto. Quando l’uomo e la donna si incontravano, dovevano cambiare subito la direzione della loro danza. A segnare il ritmo, solitamente, era un tamburo detto “bodhran celtico”. Il rituale terminava nel momento in cui i nastri si intrecciavano attorno al tronco e la ghirlanda scendeva; a quel punto, la danza ricominciava in senso contrario e la ghirlanda doveva ritornare in cima al palo. L’ obiettivo, in sintesi, era che la corona di fiori scendesse e salisse senza difficoltà: raffigurava una metafora dell’ unione del Re e della Regina di Maggio, nominati quella sera stessa. Nei paesi anglosassoni, i componenti della giovane coppia venivano ribattezzati “John Thomas” e “Lady Jane”, il che riporta alla mente una celebre hit dei Rolling Stones (anche se alcuni identificano la “Lady Jane” del titolo con Jane Seymour, moglie di Enrico VIII Tudor).

 

 

I fiori assumevano un ruolo importante, nelle celebrazioni di Beltane. Oltre ad essere destinati alla ghirlanda del Palo del Maggio, adornavano il capo delle giovani donne e venivano raccolti dopo i rituali, prima di trascorrere la notte insieme sotto il cielo stellato. Il fiore è il perfetto emblema del risveglio primaverile, dell’ energia ritrovata. Al sorgere del sole, era come se esplodesse la fioritura. Il desiderio era sbocciato e avrebbe diffuso il suo profumo durante l’ intero giorno. Non dimentichiamo che per i Gaeli, appartenenti al gruppo dei Celti, la giornata iniziava al tramonto e terminava con il tramonto successivo. Incluso nei quattro festival gaelici associati ai cicli stagionali (gli altri sono Samhain, Imbolc e Lughnasadh), Beltane era una data ricca di tradizioni. I falò rimangono l’elemento principale, il più importante: con le loro fiamme altissime, rivestivano una valenza protettiva, purificatrice e beneaugurale. Un’usanza prevedeva che tutti i fuochi delle case venissero spenti e poi riaccesi con una torcia alimentata dal falò dei Druidi. Gli antichi sacerdoti celti, infatti, realizzavano grandi falò in onore di Bel (anche detto Belenus), il Dio della Luce e del Fuoco.

 

 

Nelle case, davanti al focolare, si banchettava in compagnia. I fiori, onnipresenti, decoravano le porte, le finestre, gli ingressi delle stalle e persino il bestiame: adornare una mucca era di buon auspicio per la produzione di latticini, all’ epoca una delle principali fonti di sostentamento. Si creavano i cespugli di Maggio, corposi bouquet composti da giunchi, rami, infiorescenze, nastri, conchiglie e spighe. I fiori più utilizzati erano le primule, il biancoscospino, il sorbo selvatico, il nocciolo, la ginestra, la calendula, che venivano affiancati plasmando le più disparate forme; abbondavano le ghirlande così come le croci. A Beltane erano d’obbligo le visite ai pozzi sacri, e a la rugiada incarnava un potente elisir di giovinezza.

 

 

I May Bush, cespugli di Maggio, erano alberelli riccamente adornati (si usavano finanche le candele, preziose palline d’oro e d’argento) che facevano bella mostra di sè nei giardini delle case. Non era raro che venissero banditi concorsi per il cespuglio più bello. Ciò, con il passar del tempo, diede adito a rivalità e ladrocini che in era vittoriana condussero alla messa al bando della tradizione. A Beltane, inoltre, tornavano alla ribalta i cosiddetti “Aos Sì”, l’antico popolo degli elfi e delle fate irlandesi. Si pensava che le fate avessero l’abitudine di rubare i latticini e per evitarlo venivano presi speciali accorgimenti: ad esempio, i prodotti caseari si legavano ai rami del Maggio. Gli ornamenti floreali delle mucche, oltre ad essere di buon auspicio, avevano un identico obiettivo. Proteggevano, cioè, i bovini dalle incursioni delle fate. Oppure, gli agricoltori effettuavano appositi riti per placare le incantate creature: si versava a terra una piccola quantità di sangue del bestiame, si organizzavano processioni…Ciò dimostra il carattere fondamentale che a livello nutritivo, a quei tempi, rivestivano i derivati del latte. La simbologia di Beltane include infatti anche la mucca, e accanto ad essa l’ape: il miele rientrava tra i portentosi alimenti che assicuravano il sostentamento dei Gaeli.

 

 

L’ amore e l’ innamoramento rappresentavano due punti cardine della festa. Il 1 Maggio si celebrava il sacro incontro tra il Dio e la Dea, lo sboccio del loro amore. Da questa unione scaturivano, copiosi, i germogli della vita. L’ Estate, a Beltane, è sempre più vicina e la terra riprende a donarci i suoi frutti; l’agricoltura fiorisce in vista dei prossimi raccolti. Spiritualmente, Beltane è il periodo dei traguardi raggiunti. Abbiamo consolidato le nostre potenzialità individuali e siamo pronti ad elevarci ulteriormente, raggiungendo livelli di autoconsapevolezza e propositività sempre maggiori.

Buon Beltane a tutti voi!

 

John Collier, “Queen Guinevere’s Maying”

 

 

Le Frasi

 

“Beato chi dimentica la ragione del viaggio e nella stella, nel fiore, nelle nuvole, lascia la sua anima.”

(Antonio Machado)