“La vita ricomincia daccapo quando l’autunno la rende croccante.”
(Francis Scott Fitzgerald)
Il blog di Silvia Ragni
Il giorno e la notte si incontrano, stringendosi in un abbraccio. Il silenzio fluttua nell’ atmosfera sospesa. L’aria si impregna di magia, il cosmo emana vibrazioni di armonia potente: è l’ora blu, il momento immediatamente successivo al tramonto e antecedente all’ alba. Ora blu perchè, in quegli istanti, il cielo si tinge di un blu azzurrognolo inconfondibile e molto intenso. E’ un blu che esalta la penombra, che avvolge il paesaggio in un alone onirico dove gli unici bagliori distinguibili provengono dalla luce artificiale. In italiano, la fase del giorno a cui corrisponde si definisce “crepuscolo”; il termine “ora blu” è però più suggestivo e denso di evocatività. Basti pensare che, nel 1912, Guerlain ha dedicato una suo leggendaria Eau de Parfum proprio al “tempo sospeso” che precede la notte e l’alba. Il nome? Heure Bleue, naturalmente. Ed è un omaggio all’ ora blu anche la photostory che oggi vi propongo: per godere appieno di quei momenti inebrianti e mistici che rigenerano l’anima.
” C’è una persona che fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia marina, alle rive d’un fiume o d’un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie una manciata d’arena e se la porta con sé. Al ritorno, l’attendono allineati in lunghi scaffali centinaia di flaconi di vetro entro i quali la fine sabbia grigia del Balaton, quella bianchissima del Golfo del Siam, quella rossa che il corso del Gambia deposita giù per il Senegal, dispiegano la loro non vasta gamma di colori sfumati, rivelano un’uniformità da superficie lunare, pur attraverso le differenze di granulosità e consistenza, dal ghiaino bianco e nero del Caspio che sembra ancora inzuppato d’acqua salata, ai minutissimi sassolini di Maratea, bianchi e neri anch’essi, alla sottile farina bianca punteggiata di chiocciole viola di Turtle Bay, vicino a Malindi nel Kenia. (…) Passando in rivista questo florilegio di sabbie, l’occhio dapprima coglie soltanto i campioni che fanno più spicco, il color ruggine d’ un letto secco di fiume del Marocco, il bianco e nero carbonifero delle isole Aran, o una mescolanza cangiante di rosso bianco nero grigio che sull’ etichetta porta un nome ancor più policromo: isola dei Pappagalli, Messico. Poi le differenze minime tra sabbia e sabbia obbligano a un’ attenzione sempre più assorta, e così a poco a poco s’entra in un’ altra dimensione, in un mondo che non ha altri orizzonti che queste dune in miniatura, dove una spiaggia di sassolini rosa non è mai uguale a un’altra spiaggia di sassolini rosa (mescolati coi bianchi in Sardegna e nelle isole Grenadine dei Caraibi; mescolati coi grigi a Solenzara in Corsica), e una distesa di minuscola ghiaia nera a Port Antonio in Giamaica non è uguale a una dell’ isola Lanzarote nelle Canarie, nè a un’altra che viene dall’ Algeria, forse in mezzo al deserto. Si ha l’ impressione che questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa d’importante: una descrizione del mondo? un diario segreto del collezionista? o un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Tutto questo insieme, forse. “
Italo Calvino, da “Collezione di sabbia”
La colazione di oggi è avvolta in un fascino intenso, esotico e misterioso: prenderemo un tè con i Tuareg, i leggendari “uomini blu” del deserto del Sahara. Sicuramente, di loro avete sentito parlare: sono un antichissimo popolo nomade, di origini berbere, che si sposta tra l’ Algeria, la Libia, il Mali, la Nigeria, il Ciad e il Burkina Faso. Allestiscono le proprie tende tra le dune e la sera si riuniscono sotto un tetto di stelle. Se chiedete ai Tuareg di definirsi, vi risponderanno di essere “Kel Tamahaq”, ossia dei parlanti della lingua Tamahaq. Per trasferirsi da un luogo all’altro si servono di cammelli o dromedari. Il turbante è un autentico segno distintivo di questo popolo; il suo nome è tagelmust e copre il capo e il viso, lasciando intravedere solo gli occhi. Turbante e velo al tempo stesso, viene realizzato arrotolando dai tre ai dieci metri di stoffa. I Tuareg usano tingere la tagelmust immergendola nella polvere d’indaco. Non è raro, di conseguenza, che la colorazione si fissi permanentemente sulla loro pelle: da qui l’ appellativo di “uomini blu”. Per alcuni il soprannome deriva invece dal burnus, un ampio abito tra il blu e l’azzurro che, al pari della tagelmust, li protegge dal sole, dalle tempeste di sabbia e dal freddo notturno. Le donne indossano il velo, ma lasciano il viso scoperto. Tengono molto al loro aspetto; si ornano copiosamente di bracciali, orecchini e collane. La caratteristica principale che identifica una donna Tuareg, tuttavia, sono le decorazioni all’ henné: danno vita a dei magnifici arabeschi sul volto e sulle mani, mentre gli occhi appaiono straordinariamente intensi grazie al kajal. La polvere di kohl viene utilizzata anche dagli uomini, che affidano alla barba il compito di rivelare la propria età; i giovani hanno la testa rasata e una barba voluminosa priva di baffi, gli adulti ne sfoggiano una lunghissima abbinata a una chioma fluente.
Passiamo ora al tradizionale rito del tè nel deserto. Per i Tuareg ha una valenza conviviale, è un modo di ritrovarsi e rilassarsi dopo il lavoro quotidiano (la sussistenza degli “uomini blu” è essenzialmente legata alla pastorizia, al commercio delle spezie e di materie prime quali l’ avorio e il sale), ma non solo: bevendo tè si cementano amicizie, si dà il benvenuto agli ospiti, si inaugurano alleanze, si instaura un trait d’union tra la cultura nomade e le altre culture. Il rituale del tè, insomma, è una vera e propria cerimonia che si celebra al tramonto o nelle notti stellate. La teiera e il Tuareg sono un tutt’uno: l’ “uomo blu” la porta con sè ovunque. Una leggenda vuole che, quando il tè gorgoglia nel barad (la teiera, appunto), la mente si distenda e il cuore sintonizzi i propri battiti con il borbottio della bollitura. Il particolare più suggestivo del cerimoniale del tè è che non ne viene servito uno, bensì tre. Se ne bevono tre tazze, ognuna delle quali riveste un significato ben preciso. Il primo tè, un tè verde contraddistinto da un aroma pungente e assai amaro, viene chiamato “tè della morte”; il secondo, molto più dolce ma leggermente aspro, è il “tè della vita”; il terzo, dal gusto delizioso ed estasiante, è il “té dell’amore”. A quest’ ultimo solitamente si aggiungono foglie di menta nanah, una menta selvatica diffusa nei paesi del Maghreb.
Il denominatore comune dei tre tè del cerimoniale è la schiuma che galleggia sulla bevanda. Per i Tuareg, che il tè sia spumoso è estremamente importante. Sono soliti versarlo con un gesto deciso, mantenendo alta la teiera, proprio per ottenere molta schiuma: come recita un antico proverbio Tuareg, infatti, “un tè senza schiuma è come un Tuareg senza turbante”. Finora vi ho parlato di “tazze” di tè per convenzione, in realtà si tratta di bicchieri di vetro di dimensioni medio-piccole. Il tè va sorseggiato lentamente, assaporato con calma, in segno di gratitudine e stima nei confronti di chi l’ha appena offerto.
Ma come si prepara, il tè dei Tuareg? Ecco – in sintesi – il procedimento. Il primo tè è un tè verde. L’acqua e le foglie di tè vanno fatte ebollire rapidamente; una volta tolto dal fuoco, l’ infuso viene zuccherato in abbondanza. Per areare la bevanda, bisogna travasarla a più riprese. Infine, il tè si versa nei bicchieri con il caratteristico gesto che lo rende spumoso. Il secondo tè va preparato nella stessa teiera, e con le stesse foglie di tè, del primo. Si aggiunge l’acqua, che tuttavia deve raggiungere l’ ebollizione molto più lentamente. Il tè viene lasciato bollire sul fuoco per almeno quattro minuti, dopodichè si zucchera e si travasa varie volte. La preparazione del terzo bicchiere avviene sulla falsariga del secondo, con un paio di differenze: durante la bollitura si aggiungono foglie di menta nanah e, per dolcificare il tè, va utilizzata una minore quantità di zucchero (pari all’incirca a un cucchiaino). La bevanda dei Tuareg ha un gusto particolarissimo, del tutto speciale. Si beve calda e zuccherata, ma il suo aroma è molto fresco. Disseta, riduce la sensibilità al calore, reidrata e reintegra le energie perse a causa delle alte temperature. Last but not least, il suo profumo risulta inebriante e irresistibile.
Per concludere, un cenno alle proprietà innumerevoli delle foglie di tè verde e della menta nanah. Il tè verde è un potente antiossidante che combatte i nefasti effetti dei radicali liberi; in più, diminuisce i livelli di colesterolo LDL e dei trigliceridi prevenendo le patologie cardiovascolari. Altre virtù associate al tè verde: favorisce la perdita di peso, aumenta il metabolismo, contrasta la ritenzione idrica e contiene circa il 50% di caffeina in meno rispetto al tè nero. La menta nanah, una menta di origini egiziane, è utilizzatissima in tutti i paesi arabi per la preparazione del tè verde alla menta. E’ un toccasana per la digestione, un efficace antibatterico e antinfiammatorio. Svolge un’azione rilassante, rigenerante e energizzante in caso di ansia e stress. Ha inoltre la preziosa facoltà di abbassare la temperatura corporea, rinfrescando tutto l’organismo.
” Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. E’ incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi – un’ esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata. Chris e io stiamo andando nel Montana con due amici; forse ci spingeremo ancora più lontano. I programmi sono volutamente vaghi, abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito. Siamo in vacanza. Diamo la preferenza alle strade secondarie: il meglio sono le strade provinciali asfaltate, poi le statali, e ultime le autostrade. Ci preoccupiamo più di come passiamo il tempo che non di quanto ne impieghiamo per arrivare: l’ approccio cambia completamente. (…) Le strade con poco traffico sono più gradevoli, oltre che più sicure, e anche quelle senza autogrill e cartelloni, strade dove boschetti e pascoli e frutteti si possono quasi toccare, dove i bambini ti fanno ciao con la mano e la gente guarda dalla veranda per vedere chi arriva; quando ti fermi per chiedere informazioni la risposta tende ad essere più lunga del dovuto invece che più corta, e tutti ti domandano da dove vieni e da quanto tempo sei in viaggio. “
Robert M. Pirsig, da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”
Avete presente l’ incredibile colore che il cielo assume poco prima del tramonto e dell’ alba? E’ una luce fuori dal comune, il paesaggio viene invaso da bagliori giallo-arancio: non è un caso che il momento in cui si verifica questo fenomeno sia chiamato “golden hour”, ora d’oro. La sua luminosità soffusa la rende l’ideale per scattare foto memorabili, straordinariamente affascinanti e suggestive. Quando il sole è basso all’ orizzonte, i raggi filtrano attraverso una coltre atmosferica più densa; ecco il perchè di quella luce avvolgente, quasi ipnotica. La golden hour tinge lo scenario di calde nuance che mozzano il fiato; ciò avviene perchè gli spessi strati di atmosfera tendono a disperdere le radiazioni solari che virano al blu e al viola, accentuando invece tonalità come il rosso. “Magic hour” è un altro appellativo attribuito agli istanti di cui vi sto parlando: il lasso di tempo che ha inizio cinque minuti prima dell’ alba e del tramonto e si prolunga, successivamente, per un’ ora intera. Ma al di là dei calcoli, la golden (o magic) hour va goduta appieno. Anche senza una macchina fotografica. La nuova photostory di VALIUM nasce proprio con questo intento. Addentratevi nei suoi paesaggi inondati d’oro, lasciatevi lambire dal fulgore emanato dalla particolare condizione del sole. Sono attimi magici, sospesi, che vanno ammirati con lo sguardo e vissuti con il cuore.
L’ Italia è stata invasa dall’ ennesima ondata di calore. Di giorno e di notte le temperature sono bollenti, afose, impregnate di umidità. In una parola, tropicali. Perchè non provare, quindi, ad applicare questo aggettivo anche alla prima colazione? E’ un’ ottima chance per stuzzicare il palato e sperimentare nuovi sapori. La frutta tropicale, ad esempio, rappresenta un must irresistibile. Ci inebria con i suoi colori, ci travolge con il suo gusto insolito, ma non solo: è un’ autentica miniera di benessere ed energia. Anni fa ho viaggiato in America Latina e sono tornata con la mente a quegli aromi dolcissimi, inebrianti al punto tale da sedurti all’ istante. La frutta tropicale, tutta, abbonda di proprietà salutari. E non è difficile reperirla, possiamo trovarla in qualsiasi supermercato. Pensiamo solo all’ ananas, al cocco, all’ avocado, al kiwi, al mango, al platano, alla papaya, al maracujà, al passion fruit e così via. Come gustarli a colazione, oltre che nel ruolo abituale? In innumerevoli modi: sotto forma di macedonie, succhi e frullati, mousse, deliziose marmellate…Oppure tagliati a fettine con cui farcire i toast. C’è solo l’ imbarazzo della scelta. Per darvi un’idea dei benefici dei frutti esotici, mi soffermerò su tre di loro in particolare.
Cominciamo con l’ avocado. Originario del Messico e del Guatemala, ha la polpa verde o gialla e una forma allungata simile a quella della pera. Al centro risalta un grande seme che può raggiungere anche i 5 cm di diametro. Una curiosità. Gli Aztechi battezzarono l’avocado “ahuacatl”, ossia “testicolo”, proprio per la sua conformazione. L’ avocado è ipercalorico, a 100 grammi di frutto corrispondono 160 calorie, ma contiene una quantità esigua di zuccheri. In compenso è un ottimo antidoto per combattere il colesterolo: abbonda di acidi grassi monoinsaturi, i cosiddetti “grassi buoni”, nello specifico di acido linoleico e di omega 3; riducendo i livelli di colesterolo, contrasta le patologie cardiache e si rivela un toccasana per l’intero organismo. L’ avocado, grazie a potenti antiossidanti come la vitamina A e la vitamina E, neutralizza l’azione dei radicali liberi e ritarda l’ invecchiamento cellulare; la pelle si mantiene liscia, levigata e ben nutrita. Questo frutto tropicale, inoltre, tiene sotto controllo il metabolismo: è sufficiente gustarne uno per sentirsi sazi e allontanare la fame. Last but not least, all’ avocado vengono attribuite delle speciali doti afrodisiache. Provare per credere!
La papaya, che in Venezuela chiamano “lechosa”, è un frutto dalla forma oblunga e dalla polpa di un inconfondibile color arancio; in una cavità centrale racchiude semi grandi quanto chicchi di caffè. La polpa, ultra soffice, vanta un sapore delizioso e ricco di dolcezza. Originaria del Messico e del Brasile, la papaya è diffusissima negli habitat tropicali: in America Latina, nell’ America Centrale e nell’Asia del Pacifico viene massicciamente coltivata, ma è ormai reperibile in moltissimi paesi del mondo. In Europa, piantagioni di papaya sono presenti in Spagna – soprattutto nelle Isole Canarie – in Sicilia e sulle coste calabre, dove generalmente si coltiva in serra. Per sondarne i benefici basta citare i suoi componenti: acqua in dosi massicce, vitamina C, A, E e K, flavonoidi, fibre, carotenoidi, sali minerali…I vantaggi che apporta questo frutto sono incalcolabili, perciò non mi resta che sintetizzarli. E’ un potente antinfiammatorio e antibiotico naturale, in particolare un ottimo mucolitico. La papaina, un enzima che si estrae dalla papaya, possiede una spiccata azione digestiva, antimicrobica e antiossidante: favorisce (tra l’altro) il processo di cicatrizzazione, rallenta la ricrescita dei peli e regolarizza il ciclo mestruale. La vitamina C e le fibre sono degli efficaci antidoti contro il colesterolo “cattivo”; contenendo poi arginina, un aminoacido essenziale, la papaya contribuisce a mantenere in salute l’apparato cardiovascolare, stimola l’ ormone della crescita e svolge una funzione immunomodulante. Le maschere a base di papaya combattono l’acne e levigano il viso. Gli impacchi alla papaya sui capelli, invece, li rendono splendenti eliminando ogni traccia di forfora. In questa stagione dell’ anno, da questo miracoloso frutto esotico si ricavano anche dei validi doposole.
Il mango è un frutto succosissimo, dal gusto dolce e ammaliante. Lo caratterizza un sapore simile a quelli dell’arancia, dell’ ananas e della pesca mixati insieme. Originario dell’ Asia meridionale, è diventato il frutto dei Tropici per eccellenza; la forma ovale, la buccia rossa e il giallo oro della polpa sono i suoi tratti distintivi. Riassumendo i benefici del mango (proclamato frutto nazionale dell’ India, del Pakistan e delle Filippine), possono essere adoperate due definizioni: è nutriente e super energizzante. Approfondendo le sue proprietà, notiamo che è una bomba di vitamine. Contiene vitamina C, A, B, D, E, K, e possiede, quindi, spiccate doti antiossidanti; gli oligominerali di cui abbonda neutralizzano la stanchezza, reintegrando anche i sali minerali che perdiamo con l’ afa estiva; il mango è ricco di lupeolo, una sostanza che svolge una potente azione antinfiammatoria e, in primis, antitumorale; favorisce il benessere del cuore, della cute, dei denti e delle ossa; incentiva la memoria e contrasta l’ anemia, poichè contiene un’ elevata quantità di ferro; è un efficace antidoto contro l’ insonnia; regolarizza l’ intestino grazie alle sue proprietà lassative e diuretiche. Come l’avocado, ha la capacità di saziare immediatamente e di annullare lo stimolo della fame. Alla buccia del mango, dulcis in fundo, vengono attribuite virtù dimagranti e anticellulite.
” Adoro i gelati: crema gelida satura di latte, grasso, aromi artificiali, pezzi di frutta, chicchi di caffè, rum; gelati italiani di consistenza vellutata che formano monumentali scale di vaniglia, fragola o cioccolato; coppe gelato che crollano sotto il peso della panna, della pesca, delle mandorle e di ogni sorta di sciroppo; semplici stecchi dal rivestimento croccante, delicati e tenaci insieme, che si gustano per strada tra un appuntamento e l’altro, o le sere d’estate, davanti alla televisione, quando siamo sicuri che solo così avremo un po’ meno caldo, un po’ meno sete; e infine i sorbetti, sintesi riuscita di ghiaccio e frutta, che rinfrescano con vigore e si sciolgono in bocca come una colata gelida. E infatti, nel piatto che mi era stato poggiato di fronte ce n’erano alcuni preparati da Marquet: uno al pomodoro, l’altro, molto classico, ai frutti e bacche di bosco, e l’ ultimo all’ arancia. Nella semplice parola “sorbetto” si incarna un mondo intero. Provate a pronunciare ad alta voce: “Vuoi un gelato?” e poi in rapida successione: “Vuoi un sorbetto?” e apprezzate la differenza. E’ un po’ come quando, aprendo la porta, si butta là un distratto: “Vado a prendere un dolce”, mentre senza ostentazione ci saremmo potuti offrire un piccolo e nient’affatto banale: “Vado a comperare dei pasticcini” (scandire bene le sillabe: non “pstccini” ma “pas-tic-ci-ni”) e , con la magia di un’ espressione appena un po’ antiquata e preziosa, creare con poco un mondo di armonie desuete. (…) il sorbetto è aereo, quasi immateriale, fa appena un po’ di schiuma a contatto con il nostro calore, poi, vinto, schiacciato, liquefatto, evapora in gola, lasciando alla lingua solo l’affascinante reminiscenza del frutto e dell’ acqua che sono scivolati via. “
Muriel Barbery, da “Estasi culinarie”
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