La colazione di oggi: l’amarena, il frutto “luculliano”dell’ Estate

 

A prima vista sembrano ciliegie, ma ciliegie non sono. Delle ciliegie potrebbero essere sorelle, perchè appartengono alla stessa famiglia: quella delle Rosacee. Ma mentre le ciliegie sono i frutti del Prunus avium, le amarene (perchè è di loro che sto parlando) maturano dai fiori del Prunus cerasus. Si suppone che l’ amareno, anche detto ciliegio aspro, provenga dall’ Asia o dal Medio Oriente.  Quel che è certo è che il Prunus cerarus si adatta alla perfezione a qualsiasi clima e tipo di terreno, resistendo a lunghi periodi di siccità. Tornando alle differenze tra ciliegie e amarene, la più evidente riguarda il sapore: le ciliegie sono soffici, dolcissime, succose. Le amarene hanno una polpa più “tosta” e un gusto più aspro, tendente all’ amarognolo. Entrambe sfoggiano un bel rosso acceso e una forma tondeggiante, ma anche questi aspetti presentano delle diversità. La tonalità delle amarene è meno intensa rispetto a quella delle ciliegie, che vantano dimensioni maggiori rispetto alle loro “sorelle”. Il gusto leggermente amaro dei frutti del Prunus cerasus si deve all’ acido ossalico, contenuto in svariati alimenti. Lungi dal renderle sgradevoli, quel sapore è un punto di forza: non è un caso che il maraschino, liquore dall’ aroma inconfondibile, sia interamente ricavato dalla distillazione delle amarene. La versatilità di questi frutti, inoltre, fa sì che vengano inclusi in moltissime ricette. Sciroppate, danno vita a degli ottimi dessert; alcuni esempi? Torte come la celebre Foresta Nera, e poi cheesecake, panna cotta, biscotti, dolcetti, yogurt…Anche uno dei più acclamati gusti di gelato, l’amarena, si avvale di amarene sciroppate. Denocciolati, i frutti del Prunus cerasus possono essere utilizzati per guarnire un buon numero di dolci e di spuntini. Mangiati crudi (e preferibilmente freschissimi, perchè si seccano a tempo di record) non sono meno invitanti, magari – date le loro virtù energizzanti – per ritrovare un po’ di sprint. Con le amarene si preparano dei ghiotti sciroppi, liquori e marmellate. In alcuni paesi dell’ Europa dell’ Est si suole addirittura friggerle prima di inserirle in delizie quali un tipico strudel locale.

 

 

Veniamo ora alle proprietà delle amarene. Che sono molte! Innanzitutto, hanno il potere di sconfiggere l’ insonnia. Berle ogni notte sotto forma di succo (tassativamente da non zuccherare) incrementa la produzione di melatonina, regolarizzando il ciclo sonno-veglia con benefici istantanei per l’umore. Le amarene sono dei potenti antiossidanti naturali: i flavonoidi in esse contenuti combattono l’ invecchiamento delle cellule e rappresentano un toccasana per la circolazione del sangue. Essendo dei frutti diuretici, contrastano la ritenzione idrica favorendo l’ eliminazione delle tossine e il drenaggio dei liquidi in eccesso. Anche la stipsi può essere sconfitta grazie alle amarene: sono ricche di fibre, che purificano l’ intestino e ne garantiscono la regolarità. Questi frutti, vere e proprie miniere di potassio, rinvigoriscono la muscolatura e restituiscono energia; le vitamine A, B e C che racchiudono in dosi massicce accrescono i livelli di collagene con effetti benefici per la pelle e per la vista. Le amarene, infine, ottimizzano la formazione di acido urico nell’ organismo rimuovendone gli eccessi: ciò permette di scongiurare patologie come la gotta.

 

 

Per concludere, una teoria incentrata sulla misteriosa origine del ciliegio aspro. Si narra che l’ amareno giunse in Italia per merito di Lucio Licinio Lucullo, un generale romano che condusse campagne in Oriente tra il 70 e il 65 a.C. Grande stratega militare, raffinatissimo e amante del bello, Lucullo adorava i pasti sfarzosi (i celebri banchetti “luculliani”), e in Asia rimase colpito dal gusto amarognolo e dalle proprietà dei frutti del Prunus cerasus. In particolare, pare che apprezzasse le vitamine e le virtù energizzanti delle amarene: le fece quindi includere nel rancio dell’ esercito romano per rinvigorire i soldati. Secondo vari scritti dell’ epoca, Lucullo si impossessò di un esemplare di amareno a Cerasunte, colonia greca affacciata sul Mar Nero, e dopo averlo portato con sè a Roma lo trapiantò in uno dei suoi sontuosissimi giardini. Era il 65 a.C. circa. Attualmente non è raro che il Prunus cerasus cresca spontaneamente nella boscaglia; può farlo fino a 1000 metri di altezza. Una curiosità: il suo legno supera quello del ciliegio in quanto a pregiatezza e longevità.

 

 

Foto del gelato all’ amarena: Dirk Vorderstraße, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

La colazione di oggi: il caffè, “bevanda stimolante” dalle portentose virtù

 

Una rubrica incentrata sulla prima colazione non può certo tralasciare il caffè, delizia e “motore” di ogni mattina. In Italia degustare un espresso è un rito, un piacere da assaporare – da soli o in compagnia – a tutte le ore del giorno. In questo articolo, però, verrà preso in considerazione il caffè del risveglio: quello che prepariamo ancora assonnati, che sentiamo borbottare nella caffettiera mentre la cucina si riempie del suo invitante aroma. Perchè berlo è come compiere un autentico incantesimo; il sonno se ne va lasciando il posto a un’ energia travolgente. Ma quali sono, esattamente, le proprietà del caffè, e quali benefici comporta il consumarlo? Lo scopriremo subito. Non è un caso, innanzitutto, che in arabo “caffè” significhi “bevanda stimolante”. I celebri chicchi non sono altro che i semi di una pianta tropicale del genere Coffea, appartenente alla famiglia delle Rubiaceae. Le specie più note sono l’ arabica e la robusta, anche se la prima vanta origini più remote. Prodotto anticamente a Caffa, in Etiopia, il caffè si è fatto a poco a poco conoscere in Medio Oriente e poi in tutto il mondo. Il suo punto di forza è senz’altro la caffeina, una componente nutrizionale dal potente effetto energizzante: quando viene assorbita, nel cervello rilascia neurotrasmettitori quali la dopamina e la noradrenalina, che stimolano i neuroni attivamente; ne conseguono benefici per la memoria, l’ umore e le funzioni cognitive. La caffeina ha proprietà digestive, poichè potenzia la secrezione gastrica. Svolge un’azione tonica sul cuore e sul sistema nervoso, e favorisce persino il dimagrimento: brucia infatti grassi e calorie per tramutarli in fonti di energia. Se consumato in quantità elevate, inoltre, il caffè riduce l’appetito drasticamente. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la caffeina possieda spiccate virtù antiossidanti e antinfiammatorie, ma le ricerche sono tuttora in corso.

 

 

Gli effetti collaterali della caffeina sono essenzialmente legati a un consumo massiccio di caffè. Nervosismo, eccitabilità e insonnia sono i rischi più noti associati all’ abuso della bevanda, a cui possono aggiungersi l’ ipertensione, la tachicardia e i disturbi all’ apparato digerente causati da un’ eccessiva stimolazione della secrezione gastrica. La funzione “dimagrante” del caffè, poi, viene completamente azzerata quando aggiungiamo lo zucchero o del latte, giacchè sono entrambi apportatori di calorie. La caffeina è controindicata per chi è affetto da osteoporosi o da anemia: riduce l’assorbimento del calcio e del ferro determinando un peggioramento di queste due patologie. Se bevuto nella giusta quantità, comunque, il caffè è una bevanda benefica che pare protegga anche dai disturbi cardiovascolari e dal diabete mellito di tipo 2. Ma a quante tazzine ammonterebbe un consumo moderato di caffè? Chi è in buona salute non dovrebbe oltrepassare i tre, massimo quattro, caffè al giorno.

 

 

In Europa il caffè apparve per la prima volta nel 1565, durante il Grande Assedio di Malta. I musulmani turchi, fatti prigionieri dai Cavalieri di San Giovanni, erano soliti preparare la bevanda più amata nel loro paese: a Istanbul il caffè veniva consumato in dei locali appositi, a mò di rito conviviale, e il Capo Caffettiere rivestiva un ruolo di spicco presso la Corte ottomana. A Malta, dove la bevanda divenne celebre soprattutto tra le classi abbienti, le caffetterie cominciarono a proliferare. Sempre nel XVI secolo, il caffè arrivò in Italia: Venezia, che intratteneva molti rapporti commerciali con l’ Oriente, fu la prima città a diffondere il suo consumo. Pare che alcuni religiosi fecero pressioni su Papa Clemente VIII affinchè bandisse “la bevanda del diavolo”, che così avevano ribattezzato per le sue proprietà eccitanti. Il Papa, però, dopo averlo assaggiato di persona, espresse un giudizio positivo sul caffè, che definì invece “bevanda cristiana”. Nel 1645, di conseguenza, la Serenissima ospitava più di una “bottega del caffè”.  Alla storia del caffè e all’ espansione della caffeicoltura, argomenti vastissimi e complessi, si affiancano numerose leggende.

 

 

Una di queste, ad esempio, racconta di un pastore etiope chiamato Kaldi. Costui si accorse che le sue capre, dopo aver mangiato le bacche di una pianta e averne masticato le foglie, erano rimaste sveglie e vivacissime tutta la notte. Il pastore attribuì la causa di ciò alle bacche, così raccolse i semi della pianta, li abbrustolì e macinò per sperimentare il loro effetto personalmente. Ottenne un infuso altamente energizzante, il caffè. Una differente versione della leggenda colloca il pastore in Arabia e cambia il suo nome in Kaddi: l’uomo sottopose le bacche che tanto avevano animato le sue capre all’ attenzione dell’ abate Yahia. Con quelle bacche, dunque, l’ abate preparò una bevanda scura che rinvigoriva il corpo e teneva lontano il sonno. Non c’è bisogno di specificare che fosse il caffè. Un’ altra leggenda ha come protagonisti Maometto e l’ Arcangelo Gabriele. Un giorno Maometto si ammalò gravemente e l’ Arcangelo accorse in suo aiuto; gli portò una bevanda dal colore della Sacra Pietra Nera della Mecca, consegnatagli da Allah personalmente, e quando Maometto la bevve guarì all’ istante. Secondo un’ ulteriore leggenda, invece, il monaco arabo Ali ben Omar si recò nella città di Mokha per curare, con l’ intercessione di Allah, i contagiati dalla peste che imperversava in zona. Riuscì a ridare la salute a un gran numero di malati, persino alla figlia del Re (della quale si era innamorato). Il Re, però, lo allontanò dalla città obbligandolo a vivere isolato sulle montagne. Sfinito dalla fame e dalla sete, un giorno Ali invocò il suo maestro deceduto poco tempo prima. Questi inviò da lui un meraviglioso uccello, canterino e dalle piume multicolori. Quando Ali si diresse verso il volatile,  si trovò davanti una pianta ricolma di bacche rosse. Era una Coffea. Con quelle bacche preparò un decotto per i pellegrini che erano soliti fargli visita, e quando nel Regno si sparse la voce delle portentose virtù della bevanda il monaco vi fu riammesso con tutti gli onori.

 

La colazione di oggi: il cheesecake, a qualcuno piace freddo

 

Le fragole sono, senza dubbio, uno dei frutti più golosi della Primavera. Per rievocare le loro proprietà e i loro benefici cliccate qui. Se invece volete saperne di più sul cheescake alle fragole, continuate a leggere: oggi scopriremo questo delizioso dolce che sembra creato apposta per la stagione calda. Non va tuttavia tralasciato che la succosissima “Fragaria vesca” (questo il suo nome botanico) possiede una versatilità tale da venire utilizzata per preparare, o per guarnire, innumerevoli alimenti. Con le fragole si realizzano sciroppi, marmellate, frullati, gelati, yogurt…inoltre, arricchiscono dessert a dir poco deliziosi. Qualche esempio? Il tiramisù, il soufflé, la crema, la bavarese…per non parlare poi di torte e di dolcetti di ogni genere. Tornando al cheesecake, essendo un dolce freddo è estremamente veloce da preparare. Dall’ aspetto inconfondibile, è composto da due strati: una base di pasta frolla o pan di Spagna sormontata da circa 4 cm di panna e crema di formaggio aromatizzati. La base si ottiene grazie ad una serie di biscotti sbriciolati e amalgamati con il burro, oppure intinti nel liquore o nel caffè; lo strato superiore si avvale, invece, di formaggi estremamente soffici e soprattutto spalmabili, tipo il mascarpone e la ricotta. Per realizzare il topping non c’è che l’ imbarazzo della scelta: via libera alla marmellata, alla salsa di frutta (nel nostro caso, di fragole), alla crema di cioccolato, ai canditi e via dicendo.

 

 

Il cheesecake ha origini molto antiche. Il poeta e filologo greco Callimaco rinvenne riferimenti al dolce in un testo dell’ età ellenistica, il “Plakountopoiikón sýngramma” di Egimio, che eleva la preparazione delle torte al formaggio ad una vera e propria arte. In “De agri cultura”, Marco Porcio Catone descrisse diversi dolci simili al cheesecake nel 160 a. C.. Il Savillum è quello che lo ricorda di più: tra i suoi ingredienti, non a caso, spiccavano la farina, il formaggio, il miele e i semi di papavero. Esistono poi testimonianze relative a un dolce che, nel 776 a.C., in Grecia veniva offerto agli atleti dei Giochi Olimpici; il dessert, preparato combinando il miele con il formaggio pecorino, era noto anche nella Roma antica. A Roma, all’ epoca, si soleva servire inoltre un dolce a forma di pagnotta che conteneva miele, farina e ricotta. Dalle leccornie sopracitate derivano i moderni cheesecake italici, caratterizzati da ingredienti quali la ricotta (o in alternativa il mascarpone), l’ estratto di vaniglia e lo zucchero.

 

 

Come ben saprete, il cheesecake è diffuso in svariati paesi del mondo. E non sempre si tratta di un dolce crudo: negli Stati Uniti, per esempio, la variante cotta è predominante. I cheesecake cotti prodotti a Chicago, in particolare, esibiscono un sontuoso mix di pasta frolla, formaggio cremoso, zucchero e burro. Il cheesecake alla fragola, invece, è tipico soprattutto dell’ Irlanda e del Regno Unito, dove i topping a base di frutti di bosco e di “Fragaria vesca” spopolano letteralmente. 

 

La colazione di oggi: ciambelle e ciambelline pasquali

 

Un dolce per Pasqua in alternativa alla Colomba? Ciambelle e ciambelline. Fanno parte delle tradizioni dolciarie di molte regioni italiane, soprattutto dell’ Italia centrale (nelle Marche, dove vivo, sono tipiche le “ciambelle strozzose“), e risultano una vera delizia anche per gli occhi: si usa ricoprirle di glassa e cospargerle di confettini multicolori. Ne esistono diverse varianti. Al posto della glassa, ad esempio, può essere utilizzato il classico zucchero a velo, mentre il ciambellone può essere sostituito da un tripudio di fragranti ciambelline. Un’ unica costante rimane inviariata, la golosità. Preparare la ciambella di Pasqua è molto semplice. Va detto, innanzitutto, che è un dolce privo di burro tra i cui ingredienti troviamo il latte, le uova, la farina, lo zucchero, l’olio extravergine d’oliva, il lievito per dolci vanigliato e la scorza grattugiata di un limone. Il composto, a cottura in forno ultimata, viene ammantato di glassa bianca (un mix di zucchero a velo, succo di limone e albume) e decorato con dei coloratissimi confettini. Il risultato? Un dolce soffice, in cui affondare i denti con voluttà assoluta. Ghiotto dentro e fuori. Trovate la ricetta a questo link.

 

 

Gli ingredienti delle ciambelle strozzose, una specialità marchigiana, più o meno rimangono gli stessi. Il burro non è incluso, ma è presente il liquore all’ anice (oppure il mistrà) che le aromatizza egregiamente. Manca anche il lievito per dolci, e c’è un perchè: queste particolarissime ciambelle, dalla forma a clessidra e molto asciutte, vanno cotte in forno ben due volte e lievitano spontaneamente. La tradizione vuole che l’ impasto si prepari il Venerdì Santo e che solo la domenica di Pasqua si proceda alla cottura; la lievitazione naturale delle ciambelle, infatti, è direttamente proporzionale all’ attesa che intercorre tra le due infornate. Dopo la prima, bisognerebbe lasciarle raffreddare per almeno una notte. Le ciambelle vengono poi plasmate nella loro forma caratteristica; a quel punto si può procedere con la seconda cottura. Durante questo lasso di tempo, le strozzose si gonfieranno a dovere assumendo un aspetto simile a quello di due ciambelle sovrapposte. Il tocco finale consiste nel ricoprirle di glassa al limone, o di ghiaccia reale, prima di cospargerle di miriadi di confettini. Le ciambelle strozzose vantano un notevole punto di forza: sono leggerissime e possono essere degustate – pur non essendo un dolce salato – insieme a del buon vino. Se avete già l’acquolina in bocca, cliccate qui per la ricetta.

 

 

Preferite sperimentare sapori internazionali? Provate i donuts (qui la ricetta), le ciambelle fritte e glassate tipicamente americane. Ma attenzione: sono il top della golosità, perciò tenetene conto se siete a dieta. I donuts catturano subito lo sguardo con i colori sgargianti della loro glassa e delle loro decorazioni. E’ un vero e proprio tripudio che spazia tra le più disparate cromie e guarnizioni: i classici confettini assumono la forma di stelle, fiori, cuori, sfere, unicorni, e chi più ne ha più ne metta. Esistono però anche versioni sobrie, che al posto della glassa sfoggiano un’ abbondante spruzzata di zucchero a velo. Allo stesso modo, i donuts possono essere suddivisi tra donuts “semplici”, ossia privi di farcitura, e donuts farciti, riempiti cioè di ogni ben di Dio. Qualche esempio? Panna, crema, cioccolato e marmellata, per citare solo alcune delizie. A Pasqua vengono ornati di frequente con ovetti di zucchero o zuccherini che riproducono tipici emblemi pasquali, come i pulcini e i coniglietti. Ma anche in questo caso, la fantasia non ha limiti! Quel che è certo è che, puntando sui donuts, vi state regalando una ghiottoneria a 360 gradi. Non è un caso che persino Homer Jay Simpson, il capofamiglia della famosissima serie TV cartoon “I Simpson”, li adorasse letteralmente.

 

La colazione di oggi: zeppole napoletane, il dolce più goloso della Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, Festa del Papà, è una data che coincide con la preparazione di prelibatezze dolciarie di ogni tipo. Dal Nord al Sud, ogni regione italiana vanta le sue golosità caratteristiche: in Liguria, Lombardia e Piemonte si usa gustare le frittelle di San Giuseppe, a Bologna le raviole, nel Centro Italia dei bignè fritti farciti, ma è il Meridione ad offrire una vasta panoramica di dolci tradizionali. In Sicilia, in particolare, vengono preparate le sfincie e le zeppole di San Giuseppe, queste ultime a base di riso, mentre in Campania – e soprattutto a Napoli – le zeppole proliferano in una versione assolutamente unica e inconfondibile. E’ la variante che mi accingo ad approfondire in questo articolo, incentrato sulle famose zeppole napoletane di San Giuseppe. Solo a vederle, fanno venire l’acquolina in bocca: sono ciambelle fritte guarnite con un’ abbondante dose di crema pasticciera sormontata da un amarena sciroppata (potremmo definirla una sorta di “ciliegina sulla torta”!).

 

 

Le origini di questo dolce sono affascinanti, ma le esamineremo più avanti; inizio col dirvi che le zeppole hanno radici antichissime e che la loro prima ricetta è datata addirittura 1837, quando fu inclusa in un trattato di cucina di Ippolito Cavalcanti. A Napoli, si usa preparare le zeppole in occasione della Festa di San Giuseppe e quindi della Festa del Papà. Ne esistono due versioni, una fritta e una al forno, ma gli ingredienti sono identici: uova, zucchero, farina, burro, olio d’oliva, crema pasticciera, amarene sciroppate e zucchero a velo per guarnire il dolce. Recentemente sono state aggiunte alcune variazioni alla ricetta principale, che arricchiscono le zeppole di un ripieno di panna o di crema gianduia. La zeppola classica, comunque, è un’autentica delizia anche nella meno elaborata delle varianti.

 

 

Passiamo ora alla storia e alle origini di questo dolce squisito. Le radici delle zeppole risalgono nientemeno che all’ antica Roma. L’ aspetto del dessert di San Giuseppe, tuttavia, era abbastanza diverso da quello attuale: si presentava come una frittella cosparsa di zucchero o di cannella, e veniva preparato con un semplice impasto di acqua, farina e sale.  A Napoli, un paio di secoli orsono, le zeppole si acquistavano dagli ambulanti che le friggevano direttamente per strada. Quando mancava poco a San Giuseppe, le vie del centro storico si riempivano di carrettini che le esponevano accanto ai panzarotti, un’ altra celebre tipologia di street food. Ma quale collegamento esiste tra le zeppole e la festa del padre putativo di Gesù? E’ molto semplice: si diceva che Giuseppe, oltre che un falegname, fosse anche un friggitore. Le prime zeppole nacquero nel ‘700 all’ interno dei conventi napoletani. Non è noto in quale, di preciso, venne elaborata la ricetta; di solito si citano i monasteri di San Gregorio Armeno, quello della Croce di Lucca e quello di Santa Maria dello Splendore. Che siano state le monache ad ideare le zeppole di San Giuseppe, è un dato di fatto. La storia di questo ghiotto dolce si intreccia costantemente alla leggenda: correva voce che, quando Maria e Giuseppe si rifugiarono in Egitto per sfuggire alla strage degli innocenti, Giuseppe divenne un friggitore di frittelle allo scopo di mantenere  la giovane moglie e il figlioletto. La tesi che fa risalire le zeppole all’ antica Roma, invece, fissa le loro origini alle Liberalia, celebrazioni in onore delle divinità del vino e del frumento. Durante quelle feste, tenutesi ogni 17 Marzo, si inneggiava ai Sileni (creature per metà uomini e per metà cavalli che appartenevano al corteo di Dioniso, ovvero Bacco) bevendo vino arricchito di un mix di spezie e miele, ma si preparavano anche frittelle di grano rosolate nello strutto. Quando il Cristianesimo fu assurto a religione di Stato, la tradizione delle frittelle fu posticipata al 19 Marzo in omaggio a San Giuseppe; i dolcetti divennero quindi rappresentativi della devozione nei confronti del Santo

 

 

Per quanto riguarda la ricetta delle zeppole napoletane rinvenuta nel 1837, era inclusa (come vi ho già accennato) nel trattato “La Cucina Teorico Pratica” di Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino. L’ ideazione viene attribuita a un certo Pintauro, che si ispirò alle frittelle di grano dell’ antica Roma e, insieme al Cavalcanti, decise di arricchirle di nuovi ingredienti: all’ impasto essenziale a base di farina, sale e acqua vennero aggiunti lo strutto, le uova e alcuni aromi. La frittura fu suddivisa in due passaggi, utilizzando prima l’olio e poi lo strutto. Il dolce ottenuto venne chiamato “zeppola” perchè la sua forma, che sembra attorcigliarsi su se stessa, rievoca quella di una serpe (“serpula” in latino). Le zeppole tipiche delle altre regioni d’Italia si differenziano da quelle napoletane sia riguardo agli ingredienti che alle modalità di preparazione. Tornando alle zeppole partenopee (senza togliere nulla alle altre, che purtroppo non conosco a sufficienza), un consiglio spassionato: quando siete all’ ombra del Vesuvio, non perdetevele per nulla al mondo.

 

 

Foto (dall’ alto): n. 1 di News21 – National, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons, n. 3 via Ilares Riolfi from Flickr, CC BY 2.0, n. 5 via Pearl Pirie from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

La colazione di oggi: le castagnole, il dolce-simbolo del Carnevale

 

Carnevale è una ricorrenza nota anche per la bontà dei suoi dolci: le castagnole, le frappe, le chiacchiere, le frittelle e la cicerchiata rappresentano il coté goloso della festa più folle dell’ anno. Mi soffermerò sulle prime, le castagnole appunto, in quanto svariate regioni italiane ne rivendicano la paternità e sono ormai il dolce-emblema del periodo che precede la Quaresima. Ne esistono diverse versioni, ma due elementi fanno immancabilmente da leitmotiv: la forma tondeggiante e la frittura in olio bollente. Possono essere con o senza ripieno; nel primo caso, generalmente si farciscono con della crema pasticcera, panna o cioccolata. Nel secondo, vengono ricoperte di miele. Quasi tutte le varianti del dolce, comunque, sono accomunate da una guarnizione a base di zucchero a velo o di alchermes. Anche gli ingredienti restano perlopiù gli stessi. Farina, uova, burro e zucchero si amalgano con il lievito, una scorza di limone, l’ essenza di vaniglia, il liquore (rum, anice o alchermes) o il latte per creare un impasto soffice. Alcune tipologie di castagnole vengono cotte nel forno anzichè in olio bollente. In tutti i casi, il risultato è estremamente invitante: un delizioso dolcetto sferico ricco di squisiti ripieni o guarnizioni. Il nome “castagnola” deriva proprio da questa conformazione; le dimensioni mini e la rotondità, infatti, evidenziano non poche similitudini tra la ghiottoneria carnascialesca e la castagna.

 

 

Le regioni che includono le castagnole tra i propri dolci tradizionali sono molteplici: la Lombardia, il Veneto, la Liguria, l’ Emilia Romagna, le Marche, il Lazio, l’ Umbria e l’ Abruzzo le hanno elette a suprema leccornia del Carnevale, ma la loro presenza è massiccia anche in Campania. Le origini del dolcetto appaiono controverse, tuttavia sembra certo che nacque nel Settentrione; non a caso, la castagnola è stata attestata “De.CO.” (denominazione comunale di origine) del Comune di Ventimiglia. Il periodo storico a cui risale si colloca a cavallo tra il 1600 e il 1700: ricette di castagnole sono state rinvenute nel 1684 e nel 1692 tra i manoscritti dei cuochi Nascia e Latini, rispettivamente al servizio di casa Farnese e della famiglia reale dei D’Angiò. Entrambi citavano gli “struffoli alla romana”, ma di fatto (dati gli ingredienti e la preparazione) si trattava di castagnole vere e proprie. Nel tardo ‘700, un libro conservato nell’ Archivio di Stato di Viterbo conteneva quattro differenti ricette del dolce carnascialesco, compresa la versione cotta al forno. Da antichi manuali ottocenteschi pare invece che derivebbero le ricette utilizzate attualmente. Ma l’ esistenza delle castagnole è stata attestata, in realtà, in epoche ancora più remote di quelle citate finora: un prototipo piuttosto rudimentale veniva preparato già nell’ Antica Roma.

 

 

In questa puntata della rubrica “La colazione di oggi” non sto ad elencarvi nè le proprietà nè i benefici del dolce in questione, come ho fatto anche in occasione dei cupcake di San Valentino. E’ chiaro che, di tanto in tanto, arricchire con delle castagnole il proprio breakfast è altamente benefico: sia per il palato, che in fatto di buonumore. A partire da oggi, che non a caso è Giovedì Grasso

 

 

Foto: la terza dall’ alto via Cleare Garofalo from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0, l’ ultima via Ted Eytan from Flickr, CC BY-SA 2.0

La colazione di oggi: a San Valentino, il cupcake è il dolcetto perfetto

 

Febbraio non è certo un mese che difetta di dolci tipici: a quelli “carnascialeschi” come le castagnole, le frappe, le frittelle, le chiacchiere, le zeppole, la cicerchiata, si affiancano le prelibatezze di San Valentino. Non si tratta di dessert tradizionali o ben precisi, poichè spaziano dai biscotti alle torte a forma di cuore. La colazione di oggi è un’ anticipazione del mood che, ogni 14 Febbraio, coniuga l’amore con le delizie di pasticceria; ma quale dolce scegliere, tra i tanti proposti a San Valentino? I cupcakes mi sembrano perfetti: sono autentiche minitorte, e le guarnizioni che li adornano li tramutano in piccoli capolavori artistici. Il loro punto di forza è la glassatura, detta “frosting”, che viene impreziosita dalle forme, dai colori, dagli elementi più disparati.  In questo articolo, quindi, non mi soffermerò tanto sui benefici dei cupcakes quanto sulla storia e sulle curiosità relative ai dolcetti che gli inglesi e gli irlandesi sono soliti chiamare “fairy cake”, “torte di fata”. Il che è tutto dire…

 

 

Le radici dei cupcakes affondano in terra statunitense, e sono radici antiche. Il termine “cupcake” appare per la prima volta nel 1826, ma il libro “American Cookery” di Amelia Simmons riporta la ricetta di uno speciale dolce cotto in tazza (da qui il nome “cupcake”) già nel 1796. E’ più o meno a quell’ epoca che i cupcakes fanno la loro comparsa. L’ origine del nome si basa su una doppia teoria: non esistendo ancora gli stampini, è probabile che i dolci si lasciassero cuocere in una tazza (“cup”) o in delle scodelle apposite. La seconda teoria prevede invece che la tazza fosse un’ unità di misura per gli ingredienti indicati nella ricetta. La prima ipotesi, tuttavia, appare più credibile. Le piccole dimensioni del dolce e la cottura nelle tazze di coccio, infatti, comportavano dei tempi di cottura velocissimi e permettevano di preparare cupcakes in quantità con il minimo sforzo. A proposito di preparazione, quella del cupcake è molto semplice: la glassatura o “frosting”, la farcitura e la decorazione sono i cardini della sua ricetta. La decorazione, senza dubbio, rappresenta lo step più creativo del processo di realizzazione. Si effettua sulla glassa, essa stessa un prezioso elemento ornamentale: di solito è coloratissima e sfoggia innumerevoli forme e aromi. Le decorazioni spaziano dalla tradizionale ciliegia agli ornamenti in pasta da zucchero, che viene plasmata nelle fogge più disparate: fiori, unicorni, arcobaleni, stelle, fiocchi di neve…e dato che il cupcake è ampiamente servito in occasione delle ricorrenze, abbondano l’ iconografia natalizia, pasquale, halloweeniana e via dicendo.

 

 

Perfettamente glassato e decorato, il cupcake è pronto per essere presentato nel suo pirottino di carta pieghettata. A San Valentino potrete sbizzarrirvi ornandolo con un tripudio di rose e cuori in pasta di zucchero; ho anche notato cupcakes bellissimi su cui troneggiano la scritta “Love”, “I love you” o la più nostrana “Ti amo”. Un assoluto must è il colore, rigorosamente vibrante per potenziare l’ impatto visivo. Il frosting perfetto, invece, viene ottenuto con un mix di mascarpone, panna e zucchero a velo. Dopo averlo realizzato, si passa alla colorazione e all’ aromatizzazione; non esistono limiti alla fantasia, l’ importante è che la glassatura sia profumata e catturi cromaticamente. La diffusione commerciale del cupcake risale al primo dopoguerra. Con il passar del tempo, questo dolcetto ha cominciato ad andare a ruba nelle pasticcerie e sono state aperte addirittura delle “bakeries”, negozi che vendono eclusivamente cupcakes: lì, le golose minitorte diventano opere d’arte vere e proprie. Per iniziare – ma anche concludere – il giorno di San Valentino, gustare dei cupcakes è imprescindibile. Garantisce un alto tasso di dolcezza 24 ore su 24!

 

 

La colazione di oggi: la cioccolata calda, il “cibo degli dei”

 

E’ una delle declinazioni più golose del cioccolato, e già questo funge da garanzia: la cioccolata calda sembra creata apposta per la stagione invernale. Del cioccolato solido possiede i benefici, ma la sua consistenza liquida permette di sorbirla in tutto relax, comodamente, magari a colazione per farsi una coccola a base di dolcezza e di energia. Immaginate di gustarla davanti al camino, oppure in cucina, mentre dalle finestre penetra la luminosità della neve: sorseggiarla rimanda a sensazioni di piacere puro. I suoi ingredienti sono pochi, ma buoni. Latte, zucchero e polvere di cacao si fondono in un mix irresistibile da servire tassativamente caldo. Al momento di scegliere la polvere, puntate su quella che contiene la massima percentuale di cacao ed è scura il più possibile: corrisponde al cioccolato fondente, meno rielaborato e dunque maggiormente salutare. Come saprete, esistono svariati tipi di cioccolato. Il cioccolato fondente viene considerato il più “puro”, il cioccolato al latte è amalgamato al latte condensato mentre il cioccolato bianco, derivando da un impasto di burro di cacao e latte, è del tutto privo di polvere di cacao. Per analizzare i benefici della cioccolata calda, dobbiamo quindi riferirci alle proprietà del cioccolato fondente.

 

 

Affinchè sia sano al massimo, dovrebbe contenere almeno il 70% di cacao. Contenuto nei semi del Theobroma Cacao, una pianta originaria del Sudamerica, il cioccolato abbonda di grassi saturi e monoinsaturi (come l’acido oleico, ricco di proprietà antinfiammatorie), di minerali quali il potassio, il ferro, il magnesio e il rame. Particolarmente rilevanti sono però i polifenoli, dalle spiccate virtù antiossidanti. I flavonoidi, nello specifico, svolgono un ruolo basilare nella neutralizzazione dei radicali liberi, causa dello stress ossidativo e dell’ invecchiamento dell’ organismo. Grazie ai flavonoidi e all’ epicatechina, che mantiene le arterie coronarie ben dilatate, il cioccolato fondente si rivela un toccasana per l’ apparato cardiovascolare; a tutto ciò vanno sommati i benefici che comporta l’ abbassamento della pressione arteriosa. Un’ altra preziosa virtù del cioccolato fondente riguarda l’ ottimizzazione dei valori di colesterolo, con un calo significativo del colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) e un incremento del colesterolo HDL (o colesterolo “buono”). L’ effetto antistress dell’ alimento più goloso di tutti è ben noto: aumentando i livelli di serotonina, l’ “ormone del buonumore”, il cioccolato agisce come un autentico antidepressivo naturale. Questo alimento, inoltre, è particolarmente efficace nel prevenire le malattie neurovegetative. L’ ossido nitrico, del quale stimola il rilascio nel sangue, contrasta infatti la formazione di beta amiloide (la proteina responsabile del morbo di Alzheimer). Le proprietà dei polifenoli sono praticamente infinite: riducono l’ avanzamento delle patologie oncologiche, incentivano la produzione di insulina combattendo il diabete di tipo 2, arricchiscono la flora intestinale di lattobacilli e bifidobatteri. Per chi fa sport, i polifenoli si rivelano preziosi nel tenere a bada i radicali liberi che si attivano con l’ allenamento, mentre gli zuccheri forniscono una bomba di energia prima, durante e dopo l’attività fisica. In più, grazie all’ elevato numero di fibre contenute nel cioccolato, l’ appetito viene tenuto costantemente sotto controllo. Il cioccolato fondente favorisce anche un minor assorbimento dei grassi e dei carboidrati. Il risultato? Al contrario di quanto si possa pensare, non fa ingrassare e contribuisce al mantenimento del peso forma. Certo, va assunto in quantità ragionevoli: considerate che 100 g di cioccolato contengono 545 calorie.

 

 

Come gustare la cioccolata calda? E’ possibile scegliere differenti tipologie di latte, ad esempio quello di soia o di riso, per ottenere una bevanda “vegana” o destinata agli intolleranti al lattosio. Oppure, si può decidere di puntare sul latte parzialmente scremato per renderla meno calorica. Ma aromatizzare la cioccolata calda è davvero il top: cannella, zenzero e peperoncino le doneranno uno squisito sapore speziato, una scorza d’arancia e lo sciroppo d’acero saranno l’ optimum per arricchirla di un delizioso profumo invernale, mentre la panna e il caramello la doteranno di un’ opulenza del tutto speciale.

 

 

Passiamo ora ad uno degli argomenti più affascinanti relativi alla cioccolata calda, la sua storia. Che è una storia remotissima: basti pensare che ha radici presso le antiche civiltà precolombiane. Gli Olmechi, un popolo che si stanziò nel Messico centrale tra il 1400 e il 1500 a.C., erano già soliti coltivare e consumare cacao in modo massiccio. Ai Maya spetta l’ ideazione della cioccolata sotto forma di bevanda: arrostivano una mistura di cacao e fagioli, la insaporivano con un po’ di pepe e aggiungevano dell’ acqua per donarle una consistenza liquida. Il preparato si chiamava “xocoatl”, e rivestiva una valenza mistica tale da essere soprannominato “il cibo degli dei”.  I Maya, d’altronde, ai chicchi di cacao attribuivano un enorme valore: venivano utilizzati persino come valuta. Nel 1517, quando il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés approdò sulla costa messicana, iniziò ad apprendere usi e costumi dell’ Impero Azteco. Fu l’ Imperatore Montezuma a fargli assaggiare la “xocoatl” (o “chocoatl”), una bevanda deliziosa che mescolava cioccolato, spezie e vaniglia risultando soffice come il miele. Montezuma la considerava afrodisiaca e la consumava regolarmente prima degli “incontri galanti”. Con la conquista del Messico e la nomina di Cortés a governatore, quest’ ultimo inviò in Spagna cacao a profusione. Carlo V si innamorò talmente della cioccolata calda da decretarla “bevanda in” delle classi agiate; cominciò ad offrirla come dono di nozze ogni qualvolta un membro della sua casata si univa in matrimonio con un aristocratico europeo. La cioccolata calda si diffuse così in tutto il Vecchio Continente. E dato che l’ Imperatore manteneva rigorosamente segreta la ricetta della bevanda, svariate leggende cominciarono ad aleggiare sulla sua preparazione.

 

 

Nel 1563, anno in cui la capitale sabauda fu trasferita a Torino da Chambéry, il duca Emanuele Filiberto I di Savoia elesse la cioccolata calda a dessert ufficiale dei festeggiamenti. Un secolo dopo, in Inghilterra furono addirittura inaugurate delle “Chocolate House”, dove la cioccolata calda si sorbiva durante confronti e discussioni sui più disparati argomenti. Era il 1657 quando, a Londra, aprì i battenti la prima Chocolate House. Il costo della bevanda, tuttavia, era talmente elevato da destinarla unicamente all’ élite. Ai britannici va anche il merito di aver introdotto il latte al posto dell’ acqua con l’ intento di impreziosirne la ricetta. La prima cioccolata calda prodotta meccanicamente risale al 1828: nei Paesi Bassi fu lanciata un’ apposita macchinetta. Il gusto della bevanda originale, però, risultò alterato e la differenza non passò inosservata. Oggi, la cioccolata calda è diffusa in tutto il mondo, e negli Stati Uniti d’America è celebratissima: viene arricchita di innumerevoli ingredienti, ma la panna – in barba alle calorie! – rappresenta un’ aggiunta pressochè fondamentale.

La colazione di oggi: il torrone, tra storia e leggenda

 

 

Il torrone è un altro cult natalizio che va tassativamente approfondito. Anche perchè pare che il suo consumo, durante le feste, raggiunga la ragguardevole proporzione del 74% rispetto agli altri dolci del periodo. Parlando di torrone, tuttavia, in molti tendono a soffermarsi solo sul suo alto contenuto calorico; ma questo alimento è anche estremamente ricco di proprietà e benefici. Innanzitutto, il torrone è una vera e propria miniera di proteine: basti pensare alle mandorle e alle uova che include tra i suoi ingredienti. Le mandorle sono dei potenti energizzanti e abbondano di minerali quali il potassio, il ferro e il magnesio. Ma non solo. Contribuiscono a diminuire i livelli del colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) incrementando quelli degli antiossidanti, fondamentali nei contrastare i danni dei radicali liberi. La presenza dei carboidrati, degli acidi grassi essenziali e di sette amminoacidi essenziali costituisce un ulteriore punto di forza del torrone. Un gran numero di benefici si associa a tutte le versioni del dolce. Il torrone alle noci o alle nocciole, ad esempio, protegge dalle patologie cardiovascolari; il torrone al cioccolato, grazie alla massiccia presenza di polifenoli antiossidanti, svolge la stessa funzione limitando l’ ossidazione del colesterolo “cattivo”.

 

 

Va ricordato che il torrone viene preparato con uno squisito impasto di mandorle tostate, zucchero, miele e albume d’uovo; le differenti tipologie del dolce includono l’aggiunta di frutta secca come le noci, i pistacchi, le nocciole…Due, invece, sono le sue versioni classiche: il torrone bianco alle mandorle, friabile o duro, e quello alle nocciole, a base di cioccolato o cioccolato gianduia, solitamente dalla consistenza morbida. Esiste poi anche un mix dei due, il torrone bianco completamente ricoperto di cioccolato fondente. Il tasso di golosità, insomma, rimane inviariato. Non variano neppure i due strati di ostia applicati sopra e sotto il prodotto, un’ altra caratteristica di questo amatissimo dolce. Per godere appieno delle sue proprietà, l’ ideale sarebbe gustare un buon torrone artigianale: gli ingredienti naturali e l’assenza di prodotti chimici sono le sue principali virtù, un binomio che esalta le doti nutrienti dell’ alimento senza alterarne il gusto e mantenendolo salutare. Consumare il torrone a colazione è un ottimo modo per affrontare la giornata con una sferzata di energia, ma non esagerare nelle porzioni (una regola applicabile a tutti i dolci) rimane un must fondamentale. 

 

 

Ma qual è la storia del torrone? A quali leggende rimandano le sue origini? Tanto per cominciare, il nome “torrone” proviene dal latino “torrēre”, ovvero “abbrustolire”; questo verbo, com’è facilmente intuibile, si riferisce alla tostatura della frutta secca che troviamo tra i suoi ingredienti. Alcuni ipotizzano anche una derivazione dallo spagnolo “turròn”, da “turrar” che significa “arrostire”. Quel che è certo è che il torrone ha radici antichissime e che molte regioni italiane se lo contendono in qualità di “dolce tipico”. Il fatto che fosse diffuso in tutta la penisola ha dato adito alla tesi secondo cui gli antichi romani ne avessero divulgato la ricetta: in effetti, Marco Terenzio Varrone detto “Il Reatino” citò il “cuppedo” in uno dei suoi scritti  (e “cupeto” è il nome dato al torrone nella zona tra Benevento e Avellino) già nel 116 a.C.. Il letterato sosteneva che i creatori del dolce fossero i Sanniti, e che i Romani avessero appreso proprio durante le guerre sannitiche della sua esistenza; quella leccornia a base di miele, albume e semi oleosi li conquistò immediatamente. Il gastronomo Apicio, non a caso, descrisse un dolce romano chiamato “nucatum” poco tempo dopo. I suoi ingredienti? Miele, albume d’uovo e noci, una delle tipiche ricette del torrone odierno. Ma c’è chi sostiene che il torrone, in realtà, abbia radici arabe. A Baghdad e nella Spagna Islamica medievale, illustri studiosi solevano menzionare un dolce di frutta secca molto simile al torrone. Il celebre torrone siciliano potrebbe derivare da quel tipo di dolce, che senza dubbio approdò sull’ isola ai tempi del dominio arabo. Nei primi anni del 1100, Gherardo da Cremona tradusse il libro “De medicinis et cibis semplicibus” di Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista ismaelita residente a Cordova. Nel libro si parlava del “turun”, un prelibato dessert arabo, e venivano lodate le proprietà del miele da cui era composto. In molti attribuiscono a Gherardo da Cremona il merito di aver reso celebre il torrone nell’ Italia del Nord, mentre secondo altri fu Giambonino da Cremona a scrivere per primo del dolce: quest’ ultimo era infatti descritto in due testi bagadesi che stava traducendo. Verosimilmente, però, colui che divulgò la ricetta del torrone nel settentrione fu Federico II di Svevia. L’ Imperatore aveva assimilato la cultura araba nella sua corte palermitana, e durante le lotte contro i Comuni dell’ Italia del Nord aveva stabilito il suo quartier generale a Cremona. La leggenda, invece, narra che il torrone giunse a Cremona in occasione delle nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Era il 25 Ottobre del 1441, e i cuochi pensarono di omaggiare gli sposi con un delizioso dolce a base di mandorle, albume e miele che raffigurava il Torrazzo cremonese. Il dessert riscosse un successo tale da diventare una tipicità di Cremona; veniva impastato durante le feste e offerto in dono alle autorità che arrivavano in città. Testimonianze varie, tuttavia, fissano la nascita del torrone a una data anteriore al XV secolo: è quasi certo, quindi, che fu Federico II di Svevia a diffondere la ricetta. Tra i torroni più famosi d’Italia rientrano, oltre a quello di Cremona, la “cubbaita” di Caltanisetta, il torrone sardo di Tonara, il torrone prodotto tra Avellino e Benevento, il torrone tenero aquilano, il torrone di Bagnara Calabra IGP e il mandorlato di Cologna Veneta.

 

 

La colazione di oggi: il panettone, ghiottoneria natalizia da Milano al mondo

 

Latte, uova, burro, zucchero, vaniglia, canditi, uva sultanina…Il solo menzionare i suoi ingredienti evoca sentori di pura delizia: non è un caso che il panettone sia il dolce del Natale per eccellenza. Includerlo nella prima colazione è un’ idea perfetta, dato l’ alto apporto calorico che fornisce. Eh già, questo non si può negare: il panettone è una vera e propria bomba di calorie (circa 350 in 100 grammi). Ecco perchè è molto meglio gustarlo di mattina, piuttosto che a fine pasto. Affondare i denti nel suo impasto morbido, assaporando la dolcezza dei canditi e delle uvette, è un piacere che non conosce eguali. Un Natale senza panettone non può considerarsi veramente Natale: i due, insieme, compongono un binomio inscindibile. Ma quali sono le proprietà del tipico dolce milanese? Consumarlo comporta più benefici o controindicazioni? Cominciamo subito con gli alert, che riguardano soprattutto chi soffre di determinate patologie. Il panettone abbonda di lipidi, carboidrati, grassi saturi, peptidi, colesterolo. Di conseguenza, dovrebbe evitarlo chi è affetto da diabete o da ipercolesterolemia. A suo favore va invece detto che è ricco di proteine e di fibre, un elemento nutritivo importantissimo per il nostro organismo. La lunga lievitazione a cui viene sottoposto il dolce determina la presenza del glutine, mentre il burro e le creme che a volte lo farciscono contengono lattosio in quantità. Un altro punto di forza del panettone è costituito dalle vitamine: le molecole idrosolubili del gruppo B prevalgono, seguite dalla vitamina A e dalla vitamina D. Riguardo i sali minerali, il ferro trionfa grazie al tuorlo d’ uovo contenuto nel prodotto. Lo seguono a ruota il calcio e il fosforo.

Iniziare la giornata con una fetta di panettone e un buon caffè è una coccola che facciamo a noi stessi. La consistenza, il profumo, il sapore del “dolce del Natale” sono unici: la presenza del burro li esalta, favorendo inoltre una buona conservazione. Il panettone, se ci fate caso, rimane soffice e invitante per molti giorni. Ovviamente, va consumato con parsimonia. Ma le eccezioni alla regola sono previste, specie durante le feste natalizie. Anche perchè in altri periodi dell’ anno sarebbe improbabile farne incetta!

Le tradizioni e le leggende sul panettone hanno un denominatore comune: la matrice milanese. Tra le leggende che lo circondano, molte risalgono al Medioevo. Una di queste, ambientata a Milano, narra che il falconiere Messer Ulivo degli Atellani fosse innamorato della figlia di un fornaio, la bella Algisa. Per corteggiarla organizzò uno stratagemma: iniziò a lavorare come garzone nella bottega del padre e, con l’ intento di non passare inosservato, si inventò un dolce mai visto prima. L’ impasto era composto da burro, miele, uova e uva sultanina, un’ autentica squisitezza. Il dolce piacque talmente che il forno si affollò di nuovi clienti. Messer Ulivo ottenne la mano di Algisa e potè così coronare il suo sogno. Un’ altra leggenda viene associata alla corte di Ludovico il Moro. Il giorno di Natale, il Duca diede un pranzo a cui invitò numerosi ospiti. Ma dopo aver messo a cuocere il dolce, il cuoco disgraziatamente lo dimenticò nel forno. Quando lo tirò fuori era pressochè carbonizzato. Fu allora che a Toni, un giovane inserviente di cucina, balenò un’ idea: mostrò al cuoco un dessert che aveva preparato con degli ingredienti trovati in dispensa, e gli propose di servirlo in tavola. Il dolce a base di burro, uova, farina, scorza di cedro e uvette riscosse un successo incredibile tra i nobili ospiti di Ludovico Il Moro. Quando questi chiese al cuoco come si chiamasse quella leccornia, costui rispose “L’è ‘l pan del Toni”. Pare che il nome “panettone” derivi proprio da questa frase.

Secondo Pietro Verri, la nascita del panettone sarebbe datata addirittura al IX secolo: in “Storia di Milano” racconta che il giorno di Natale, nella città meneghina,  vigeva l’ usanza di consumare dei “pani grandi”. Al Natale veniva associata un’ ulteriore tradizione, stavolta risalente al XV secolo. I fornai, quel giorno, vendevano al popolo e agli aristocratici lo stesso tipo di pane. Durante l’ anno, infatti, esistevano un “pane dei poveri” e un “pane dei ricchi”. Il pane del Natale, detto “pan de ton” (da notare la somiglianza con il termine “panettone”), conteneva miele, burro e zibibbo, una pregiata varietà di uva. Nel 1599, “grandi pani” preparati con burro, spezie e uvetta comparivano nell’ archivio spese del Collegio Borromeo di Pavia. Il loro consumo era previsto per il pranzo di Natale. Tra il ‘700 e l‘800, a Milano venne incrementata l’ apertura dei forni e delle pasticcerie; nel XIX secolo il panettone era già un dolce pregiato e conosciutissimo. Con l’avvento dell’ industrializzazione, nel 1900 cominciò ad essere prodotto su vasta scala. Tuttavia, a Milano, la tradizione del panettone artigianale non venne mai meno. Fornai e pasticceri hanno sempre utilizzato la ricetta originale del dolce e a tutt’oggi continuano a prenderla come riferimento. Negli anni ’50 del XX secolo il panettone divenne uno dei prodotti di punta dell’ industria dolciaria. Esportato in tutto il mondo, nel 2005 la sua produzione è stata disciplinata da un decreto che determina le caratteristiche di un panettone affinchè possa essere definito tale.