Le nature invernali

 

400. Vantaggio della privazione.
Chi vive sempre nel calore e nella pienezza del cuore e per così dire nell’aria estiva dell’anima, non può immaginarsi il misterioso rapimento che afferra le nature più invernali, che vengono eccezionalmente toccate dai raggi dell’amore e dal tiepido soffio di un solatio giorno di febbraio.

(Friedrich Nietzsche, da “Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, II”)

 

Pattinaggio su ghiaccio

 

“Qui corre voce che siate il miglior pattinatore — disse lei, scotendo con la piccola mano inguantata gli aghi di brina che si erano posati sul manicotto.
— Già, una volta pattinavo con passione; volevo raggiungere la perfezione.
— Voi fate tutto con passione, a quanto pare — disse lei sorridendo. — Ho tanta voglia di vedere come pattinate. Mettetevi i pattini e andiamo a pattinare insieme.
“Pattinare insieme? È mai possibile?” pensò Levin guardandola.
— Me li infilo subito — disse.
E andò a mettersi i pattini.”

(Lev Tolstoi, da “Anna Karenina”)

 

Inverno: scivolare sul ghiaccio disegnando sinuosi arabeschi, imprimere la propria danza sulla lastra cristallina, squarciare con il rosso il bianco imperante. Il corpo piroetta, volteggia con flessuosità acrobatica, si muove con leggiadra soavità. In un bosco ammantato di neve fresca, solo i sempreverdi assistono al valzer armonico che intrecciano l’uomo e la natura. Mentre le lame dei pattini incidono la loro dichiarazione d’amore sul suolo congelato di Gennaio.

 

Foto: Cottonbro Studio via Pexels

 

“Il grande libro delle storie di Natale”: la splendida antologia che fa vivere il Natale 12 mesi all’anno

 

“Questo è appunto quanto vorrebbero propiziare le novelle – sempre favolose, quale che ne sia l’assunto di base – e le vignette poetiche raccolte in questa antologia. Abbiamo tentato di racchiudervi l’essenza, il fascino, la magia – se non sembri parola abusata – di una ricorrenza alla quale probabilmente ci sentiamo più legati di quanto siamo soliti ammettere; (…) Convocati così al nostro Christmas Party, fantasisti e realisti, ferventi patrocinatori della tradizione e più freddi umoristi si sono dati qui convegno per una celebrazione assai varia, armonizzata unicamente dallo sgranarsi dei giorni secondo il calendario dell’Avvento, o scandita dal rintocco d’una vecchia pendola, echeggiante nel canonico silenzio della Notte Santa.”

(“Variazioni d’Avvento”, di Massimo Scorsone e Silvia Valisone, da “Il grande libro delle storie di Natale”, Oscar Draghi Mondadori Libri 2024)

 

Amate il Natale, e quando le festività finiscono il vostro stato d’animo oscilla tra la tristezza e la nostalgia? Ecco un ottimo modo per far sì che non terminino mai: vi consiglio di procurarvi “Il grande libro delle storie di Natale”, un tomo di ben 756 pagine uscito il 26 Novembre scorso per i tipi di Mondadori. Curato da Massimo Scorsone e Silvia Valisone, questo volume è una magnifica raccolta di oltre 80 tra racconti, fiabe, storie e poesie a tema natalizio. Si comincia con gli auguri in versi di Lewis Carroll per concludere con la poesia “Natale” di Guido Gozzano; tra le due opere, si snodano scritti firmati dai più prestigiosi autori della letteratura moderna e contemporanea: Charles Dickens, Louisa May Alcott, Anton Čechov, Beatrix Potter, Dylan Thomas, Carlo Collodi, Lev Tolstoj, Thomas Hardy, Oscar Wilde, Luigi Pirandello, Nikolaj Gogol’, Hans Christian Andersen, Mark Twain, i fratelli Grimm, Selma Lagerlof, Francis Scott Fitzgerald, Truman Capote e molti, molti altri ancora. Il grande protagonista, come vi ho già detto, è il Natale, che ogni narratore racconta a modo proprio.

 

 

Ad aprire le danze intorno all’albero è una suggestiva triade. “Auguri natalizi (di un folletto a una bimba)” di Lewis Carroll, a metà tra la poesia e la filastrocca, ci introduce nell’atmosfera giocosa dei Natali infantili e assurge un folletto, figura ricorrente nel Natale del Nord Europa, al ruolo di personaggio principale. Subito dopo, Jacob e Wilhelm Green narrano tre brevi fiabe dove sono gli elfi, creature mitiche del folklore germanico, a farla da padrone: in un tripudio variegato di gentilezza, arguzia e dispettosa irriverenza, questi esponenti del piccolo popolo caratterizzano racconti intrisi di grazia. Si procede con “Schiaccianoci e il re dei topi”, che Ernst Theodor Amadeus Hoffmann pubblicò, inizialmente, nella sua raccolta di fiabe “Kinder-Märchen” uscita nel 1816. Il racconto, che ha ispirato il celebre balletto “Lo schiaccianoci” musicato da Pëtr Il’ič Čajkovskij, ci accompagna passo dopo passo nella quintessenza dello spirito natalizio: fantasia e realtà si fondono in un’ambientazione che, a partire da un maestoso albero di Natale circondato da doni e bambini in festa, si fa sempre più magica. Ma evidenzia anche un lato oscuro, una sottile angoscia (basti pensare allo zio-mago Drosselmeier e alle minacce notturne del re dei topi nei confronti di Maria), non estranei alle atmosfere dicembrine.

 

Un’illustrazione di “Schiaccianoci e il re dei topi” ad opera di Vladimir Makovsky (Public Domain via Wikimedia Commons)

Ho ricevuto “Il grande libro delle storie di Natale” in regalo, il 25 Dicembre: un dono graditissimo, che ho già reso lo strumento attraverso il quale il mio Natale durerà tutto l’anno. Se come me adorate l’aroma di cannella e pan di zenzero, lo scintillio delle luminarie, la neve che cade abbondante e il crepitio del focolare, non mancate di perdervi tra le pagine di questa splendida antologia.

 

Foto via Pexels e Unsplash. Secondultima foto (dall’alto verso il basso) di Kārlis Dambrāns via Flickr, CC BY 2.0

 

L’odore dell’inverno

 

“Il cielo era dapprima sereno e calmo. I merli cantavano. Nella palude vicina s’udiva il grido lamentoso di un essere animato; sembrava che qualcuno soffiasse in una bottiglia vuota. Passò una beccaccia, uno sparo rim­bombò attraverso l’aria primaverile e svegliò un’eco gioiosa. Poi il bosco s’oscurò. Un ven­to freddo, frizzante, inopportuno, che veniva da Oriente, fece ammutolire ogni cosa. Sulle pozze d’acqua si formarono dei ghiaccioli; il bosco prese un aspetto triste, tetro, inospita­le. Si sentiva l’odore dell’inverno.”

(Anton Čechov, dal racconto “Lo studente”, in “Tutte le novelle. Lo studente”, Biblioteca Universale Rizzoli, 1956)

 

La forma

 

“L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.”

(Luigi Pirandello, da “Uno, nessuno e centomila”, libro secondo, XI, 1926)

 

Tramonto incendiato d’Ottobre

 

“Il tramonto bruciava come uno di quegli incendi festosi e misteriosi nei quali le cose più comuni evocano, con i loro colori, oggetti preziosi o strani. L’ardesia del tetto splendeva come le penne di un enorme pavone, in ogni misteriosa tonalità di blu e di verde, e i mattoni rossastri del muro ardevano con la stessa forza con cui ottobre tinge di rubino e di bronzo i vini. Il sole sembrava accendere ogni oggetto con una fiamma di colore diversa, come se un uomo accendesse dei fuochi artificiali.”

(Gilbert Keith Chesterton, da “Uomovivo”, Morganti Editori)

L’estate cala sulla Sicilia

 

” L’estate cala sulla Sicilia come un falco giallo sulla gialla distesa del feudo coperta di stoppe. La luce si moltiplica in una continua esplosione e pare riveli e apra le forme bizzarre dei monti e renda compatti e durissimi il cielo, la terra e il mare, un solo muro ininterrotto di metallo colorato. Sotto il peso infinito di quella luce gli uomini e gli animali si muovono in silenzio, attori forse di un dramma remoto, di cui non giungono alle orecchie le parole: ma i gesti stanno nell’aria luminosa come voci mutevoli e pietrificate, come tronchi di fichi d’India, fronde contorte di ulivo, rocce mostruose, nere grotte senza fondo. “

Carlo Levi, da “Le parole sono pietre” (Giulio Einaudi Editore)

 

 

New York ai miei piedi

 

“In teoria, avrei dovuto essere l’invidia di migliaia di ragazze come me di tutti i college d’America, le quali avrebbero dato chissà che cosa per trovarsi nei miei panni, anzi nelle scarpe di vernice numero sette che mi ero comprata da Bloodmingale’s nell’intervallo del pranzo, insieme a una cintura di vernice nera e a una pochette coordinata. E quando avessero visto la mia foto, sulla rivista per la quale noi dodici lavoravamo – bicchiere di Martini in mano, un corpino ridottissimo di lamè imitazione argento che spuntava da una gran nuvola di tulle bianco, su qualche terrazza sotto le stelle, circondata da un assortimento di anonimi giovanotti dalla struttura ossea americana al cento per cento, ingaggiati o presi in prestito per l’occasione – tutti avrebbero pensato: caspita, che vortice di mondanità. Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente. Eravamo dodici in albergo. Tutte quante, con articoli, racconti, versi o pezzi pubblicitari, avevamo vinto il concorso organizzato da una rivista di moda il cui premio consisteva in un mese di praticantato a New York, completamente spesate, con in più montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere, occasioni per incontrare gente che aveva sfondato nel campo dei nostri sogni, nonchè lezioni di trucco personalizzate. (…) Io, a diciannove anni, non avevo mai messo il naso fuori dal New England, a parte quel mese a New York. Era la mia prima grande occasione e io cosa facevo? Stavo a guardare, lasciando che mi sfuggisse tra le dita come acqua. “

Sylvia Plath, da “La campana di vetro” (Mondadori, Oscar Moderni, traduzione di Anna Ravano)

 

La Chunga

 

“E’ una donna snella e senza età, dall’ espressione dura, la pelle liscia e tesa, ossa robuste e modi energici, che guarda la gente dritto negli occhi. Ha i capelli sciolti e scuri, tenuti a posto da un nastro; una bocca fredda, dalle labbra sottili, che parla poco e sorride raramente. (…) A volte è scalza e a volte porta sandali senza tacco. E’ una donna efficiente; amministra il locale con pugno di ferro e sa farsi rispettare. Il suo fisico, la sua severità, la sua laconicità mettono soggezione; è raro che gli ubriachi cerchino di passare la misura con lei. Non accetta confidenze nè galanterie; non le si conoscono fidanzati, amanti, nè amicizie. (…) Nella memoria dei piurani che frequentano il posto, lei sta, sempre seria e immobile, dietro il bancone. Va, qualche volta, al Variedades o al Municipal a vedere un film? Qualche sera di riposo, passeggia per la Plaza de Armas? Va al Malecòn Eguiguren o al Viejo Puente a bagnarsi nelle acque del fiume – se ha piovuto sulla Cordillera – all’inizio di ogni estate? Assiste alla sfilata militare, nelle Fiestas Patrias, fra la moltitudine assiepata ai piedi del monumento a Grau? Non è donna a cui si possa strappare una conversazione; risponde a monosillabi o con cenni del capo e se la domanda è una spiritosaggine la sua risposta è di solito sgarbata o tira subito in ballo la madre dell’ incauto interlocutore. “La Chunguita, – dicono i piurani, – non si fa mettere i piedi sulla testa da nessuno”. Gli inconquistabili – giocano a dadi, brindano e scherzano al tavolo che sta, esattamente, sotto la lampada al cherosene appesa a una trave e intorno alla quale svolazzano gli insetti – lo sanno molto bene. Sono vecchi clienti, dall’epoca in cui il bar era di un certo Doroteo, con cui la Chunga, prima, si associò e che, poi, buttò fuori (i pettegolezzi locali dicono che lo fece a bottigliate). Ma, nonostante che vengano qui due o tre volte alla settimana, neppure gli inconquistabili potrebbero dirsi amici della Chunga. Conoscenti e clienti, niente più. Chi, a Piura, potrebbe vantarsi di conoscere la sua intimità? (…) La Chunga non ha amici. E’ un essere selvatico e solitario, come uno di quei cactus dell’arenile piurano.”

Mario Vargas Llosa, da “La Chunga” (traduzione di Ernesto Franco, Giulio Einaudi editore)

 

Paolo e la Principessa

 

“Allorchè Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio — in quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano belle — avea incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano quel titolo perchè aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma soprattutto perch’era superbiosetta, e la sera, quando le sue compagne irrompevano in Galleria come uno stormo di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca, sino a Porta Garibaldi. Così s’erano incontrati con Paolo, mentre egli girandolava, masticando pensieri musicali, e sogni di giovinezza e di gloria, — una di quelle sere beate in cui si sentiva tanto più leggiero per salire verso le nuvole e le stelle, quanto meno gli pesavano lo stomaco e il borsellino. — Gli piacque di seguire le larve gioconde che aveva in mente in quella graziosa personcina, la quale andava svelta dinanzi a lui, tirando in su il vestitino grigio quand’era costretta a scendere dal marciapiedi sulla punta dei suoi stivalini un po’ infangati. In quel modo istesso la rivide due o tre volte, e finirono per trovarsi accanto. Ella scoppiò a ridere alle prime parole di lui; rideva sempre tutte le volte che lo incontrava, e tirava di lungo. Se gli avesse dato retta alla prima, ei non l’avrebbe cercata mai più. Finalmente, una sera che pioveva — in quel tempo Paolo aveva ancora un ombrello — si trovarono a braccetto, per la via che cominciava a farsi deserta. Gli disse che si chiamava la Principessa, poichè, come spesso avviene, il suo pudore rannicchiavasi ancora nel suo vero nome, ed ei l’accompagnò sino a casa, cinquanta passi lontano dalla porta. Ella non voleva che nessuno, e lui meno d’ogni altro, potesse vedere in qual castello da trenta lire al mese vivessero i genitori della Principessa. “

Giovanni Verga, da “Primavera” (edizione critica a cura di Giorgio Forni e Carla Riccardi. Fondazione Verga, Interlinea.)

 

Foto: Austrian National Library via Unsplash