I vini dealcolati, la nuova frontiera del beverage

 

Siete dei fan del rito dell’aperitivo ma bere alcolici tutte le sere vi ha stancato? Questa è la notizia che fa per voi: dal 18 Dicembre scorso, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha autorizzato ufficialmente la produzione di vino dealcolato, ossia privato (in modo totale o parziale) di alcol. E’ importante sapere che la dealcolazione a cui sono sottoposti i vini consta di un procedimento chimico che non ne intacca in alcun modo il sapore. Il gusto rimane lo stesso, come pure l’aroma. Ciò che viene ridotto è il tenore alcolico: il tasso alcolico dei vini dealcolati deve essere inferiore allo 0,5%, e non deve superare l’8,5% per i vini parzialmente dealcolati.

 

 

Ma quali tipologie di vino possono essere soggette al processo di dealcolazione? Nel decreto si escludono tre categorie, i vini IGT (Indicazione Geografica Tipica), DOC (Denominazione di Origine Controllata), e DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita). Via libera invece ai vini senza Denominazione di Origine e Indicazione Geografica, al vino frizzante e frizzante gassificato, allo spumante, allo spumante aromatico, gassificato e di qualità. Già si parla, comunque, di una futura dealcolazione che interesserà anche i vini che, al momento, non vengono sottoposti a questo procedimento. Il focus sul benessere oggi è sempre più importante, e non poteva non coinvolgere anche il consumo del vino.

 

 

Inizialmente diffusasi negli Stati Uniti, la tendenza dei vini dealcolati ha già incontrato il favore degli italiani. L’Unione Italiana Vini, associazione che riunisce le imprese italiane del vino dal 1895, ha di recente svolto un’indagine per sondare il parere dei nostri connazionali sul vino privato, o parzialmente privato, di alcol: la ricerca ha evidenziato che un italiano su tre si è dichiarato interessato a provarlo.

 

 

Sono trascorsi appena tre mesi dal decreto del Ministero dell’Agricoltura, ma la produzione dei dealcolati ha già preso il via. L’azienda vitivinicola Schenk, sorta nel 1952 a Reggio Emilia, immetterà sul mercato una quantità di bottiglie pari al milione prima della fine del 2026, e anche Mionetto, marchio pioniere del Prosecco, Argea e Italian Wine Brands si dedicheranno alla dealcolazione dei vini, oltre a un gran numero di altre imprese. E’una scelta dettata dall’ attenzione alla salute del consumatore e, al tempo stesso, dalla volontà di superare la fase critica attualmente affrontata dal mercato del vino.

 

Con i fiori tra i capelli

 

Fiori tra i capelli per dare il benvenuto alla Primavera: tanti, fitti, oppure radi e in ordine sparso. Candidi o colorati. L’importante è che rimandino alla stagione della rinascita e che la accolgano degnamente, con lo sfarzo che merita. Uno sfarzo che inneggia alla natura in fiore, declinato in uno stile un po’ hippie e un po’ bohémien. E’ il Flower Power del terzo millennio, contemporaneità che si nutre di reminiscenze lontane ma che hanno ispirato tutta un’epoca, un movimento, una generazione. “If you’re going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair”, cantava Scott McKenzie nel 1967. E se siete sulla stessa lunghezza d’onda di questo articolo, quella canzone l’avrete già riconosciuta…

 

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Giallo, il colore di Marzo

 

Personalmente non associo il mese di Marzo al giallo, ma dai più viene considerato il suo colore ufficiale. Sicuramente per la luminosità, la vivacità che rievoca il ritorno della luce, perchè emana energia e vitalità. Secondo la psicologia del colore, il giallo simboleggia l’aprirsi alla vita e il dissolvimento di ogni tensione. Questa tonalità viene da sempre connessa alle emozioni positive e alla positività. Nel caso del mese di Marzo, il riferimento al sole è ovvio; ma non dimentichiamo che anche la mimosa, il fiore della Festa della Donna, sfoggia un giallo brillante. Il giallo è un colore che non passa inosservato. Tecnicamente viene annoverato tra i colori primari sottrattivi accanto al magenta e al ciano, e sommato al blu (il suo colore complementare) dà origine a un bianco abbagliante. In natura è molto presente: oltre alla mimosa, fiori come il narciso, il girasole, il narciso e il tarassaco esibiscono petali di un giallo intenso. I frutti gialli sono numerosissimi: basti pensare alla banana, al limone, alla papaya, alla carambola, all’ananas e alle susine gialle, solo per citarne alcuni. Il legame tra Marzo e il giallo si ispira alla potenza della rinascita, all’inizio di un nuovo ciclo generalmente vissuto con ottimismo e speranza. Non va trascurato, tuttavia, che il giallo viene anche associato a connotazioni negative: l’abito che indossa Giuda Iscariota è giallo; la teoria umorale di Ippocrate di Coo, che attribuisce il benessere fisico a una perfetta armonia tra i quattro fluidi corporei, collega il giallo alla bile e quindi alla collera, alla rabbia e all’invidia.

 

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La colazione di oggi: il crumble, una croccante delizia

 

Quale colazione scegliere, per il periodo di passaggio tra Inverno e Primavera? Il crumble, ad esempio: è energetico, sostanzioso e può essere preparato in due versioni, sia salata che dolce. Proviene dal Regno Unito e dalla verde Irlanda, e il suo nome deriva dal verbo “to crumble”, “sbriciolare” in inglese. A comporre il crumble, infatti, è un impasto a base di burro, zucchero e farina che viene completamente sbriciolato; la superficie risulta crocccante grazie a una cottura in forno ad hoc. La versione dolce di questo pasto si ottiene utilizzando ingredienti come la frutta cotta, a cui può essere aggiunta una buona dose di uvetta. Se invece si preferisce un crumble salato, è necessario sostituire alla frutta la verdura, un po’ di carne e del formaggio spalmabile. Spezie come la vaniglia e la cannella, insieme alla granella di mandorle o nocciole, accomunano la ricetta delle due varianti. Il crumble dolce è molto goloso: prova ne è il fatto che, non di rado, viene guarnito con la crema pasticcera o la panna montata. Il crumble salato, invece, solitamente si accompagna a una dose extra di verdure.

 

 

Ma qual è la frutta maggiormente utilizzata per realizzare la variante dolce? Solitamente si prediligono le mele, il rabarbaro, le prugne, il cocco e l’uva, ma anche le pesche e le more. Vengono spesso abbinati diversi frutti, come le mele e il rabarbaro o, in estate, le pesche, le albicocche, i mirtilli e i ribes rossi.

 

 

La copertura del crumble, come abbiamo già detto, dev’essere croccante. A questo scopo ci si avvale della frutta secca (mandorle, noci e nocciole in particolare) tritata o di cereali, fiocchi di avena, biscotti spezzettati. Per rendere ancora più fragrante la superficie si usa dello zucchero di canna: caramellizza dopo la cottura ed ha un gusto inconfondibile. Consumato a colazione, il crumble dona il vigore necessario per affrontare la giornata. E’ “ricco”, altamente nutriente. E pensare che nacque come pasto povero, nel Regno Unito, per sopperire al razionamento del cibo durante il secondo conflitto mondiale.

 

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Il semla, uno dei dolci più golosi del Grande Nord

 

Oggi torniamo nel Grande Nord, precisamente in Svezia, per assaggiare un dolce del tutto speciale: il semla. Si tratta di un dolce, in realtà, non solo svedese, bensì ampiamente diffuso negli Stati Baltici e in Scandinavia, dove ha assunto differenti nomi; gli islandesi l’hanno battezzato bolla, gli estoni vastlakukkel, i danesi e i norvegesi fastelavnsbolle, i finlandesi laskiaispulla. La tradizione vuole che il semla si prepari il lunedì che precede Martedì Grasso, ma i popoli nordici non disdegnano di consumarlo anche durante la Quaresima. E non stupisce: questo dolce, un delizioso pain brioche al cardamomo, è una sorta di mini-panino che, una volta tagliato a metà, viene riempito di crema di mandorle  e abbondante panna montata. Una spolverata di zucchero a velo, e il gioco è fatto. Ma il semla, oltre ad essere goloso, è anche un dolce dalle origini antichissime e dalla storia molto particolare.

 

 

Risale, infatti, nientemeno che al XVI secolo. La versione originaria del semla era molto più rudimentale: si trattava di una tazza di latte caldo che conteneva un boccone di pane di segale. Eppure questo dolce, che prendeva il nome di hetvägg, era adorato dai reali e dalle classi altolocate nonostante la sua semplicità. L’usanza voleva che fosse preparato tutti i martedì di Quaresima. Ancora oggi, in diversi paesi nordici, è comune servire il semla con il caffè o una bevanda calda; in Svezia, ad esempio, viene intinto nel latte in onore dei vecchi tempi. Ma da dove deriva il nome di questo dolce? La provenienza è tedesca: il termine “semmel” corrispondeva a “semilia”, in latino “semola” e successivamente “pane”.

 

 

Le varianti del semla, in Scandinavia, non si limitano al nome. Qualche esempio? In Danimarca, ma anche in Islanda, il fastelavnsbolle e il bolla sono composti interamente di pasta sfoglia e farciti con marmellata e panna montata. Non è raro, inoltre, che vengano rivestiti di glassa al cioccolato. In Finlandia, il laskiaispulla contiene confettura di lamponi anzichè crema di mandorle.

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March Mood

 

Marzo, aria di Primavera. Gli alberi fioriscono, i prati si riempiono di margherite. La natura rinasce, la sera arriva sempre più tardi. Aleggia un’atmosfera eterea, onirica e sognante. Un idillio bucolico tesse le lodi della vita campestre mentre, a piedi nudi, assapori un nuovo senso di libertà.

(Foto di Tatiana Zayceva via Pexels)

 

Squarci di sole

 

Approfittare degli squarci di sole di Febbraio per ripristinare uno degli accessori più amati ed esibiti della bella stagione: gli occhiali da sole, meglio ancora se fuori dagli schemi e stravaganti quanto basta. Il Carnevale, d’altronde, impregna l’atmosfera di giocosità. E se, come dice un noto detto latino, “semel in anno licet insanire”…è consentito folleggiare un po’.

 

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Gli arancini, il delizioso dolce carnascialesco delle Marche

 

Sapevate che, a Carnevale, anche l’Italia ha i suoi kanelbullar? Non sono propriamente alla cannella come le note girelle svedesi, che riproducono però nella forma: sto parlando degli arancini, dei dolcetti carnascialeschi tipici delle Marche (la mia regione). Sono facili da preparare, e a Carnevale impazzano. La tradizione vuole che si realizzino in casa, sebbene sia ormai possibile comprarli in panetteria, in pasticceria e al supermercato. Ma che cos’hanno, gli arancini, di tanto speciale? Innanzitutto, ingolosiscono al primo sguardo: si tratta di girelle fritte a base di arancia e di limone; non c’è bisogno di aggiungere che siano irresistibili.

 

 

La loro preparazione richiede, complessivamente, poco più di mezz’ora. Secondo l’antica ricetta marchigiana, friggerli è fondamentale. Di recente, tuttavia, si è imposta anche la cottura al forno: rispetto a quelli fritti, soffici e gustosi, gli arancini al forno risultano molto più croccanti. Gli ingredienti essenziali per la preparazione dei dolcetti sono il latte, la farina, il burro, le uova, lo zucchero, il sale, il lievito di birra e la vanillina. Serviranno, poi, la scorza di due arance e quella di un limone. L’impasto viene steso creando un rettagolo, successivamente farcito con lo zucchero e le scorze di arancia e di limone. Dopo averlo tagliato a rondelle, il tutto va lasciato cuocere fritto oppure al forno. Spesso gli arancini fritti si imbevono nel miele affinchè  acquistino un tocco di delizia in più. La lievitazione dura 30 minuti circa. Il burro andrebbe preferibilmente estratto dal frigo qualche minuto prima di iniziare a preparare il dolce, per permettergli di ammorbidirsi. Anzichè essere passati nel miele, gli arancini possono essere spolverati con lo zucchero a velo dopo la cottura.

 

 

Queste girelle agli agrumi e allo zucchero fuso sono davvero irresistibili, qualcosa di unico nel panorama dei dolci  carnascialeschi italiani. Vi consiglio di provarli: potete trovare qui la ricetta completa.

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La maschera carnevalesca: storia, origini e tradizione marchigiana

 

Della maschera, elemento fondante del Carnevale e di tutti i riti alla sua origine, MyVALIUM ha già parlato; soffermandosi, però, sulle maschere del Carnevale veneziano (rileggi qui l’articolo). In questo post, invece, focalizzeremo la nostra attenzione sull’utilizzo della maschera nelle celebrazioni “carnascialesche” e nella tradizione marchigiana. Come nasce, innanzitutto, la maschera? Partiamo dall’etimologia: il  nome “maschera” contiene una radice indoeuropea, “masca”, la cui traduzione riconduce a “fuliggine” o a (in senso figurato) “fantasma nero”. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, “masca” deriverebbe dal latino medievale e significherebbe “strega”: esistono svariate testimonianze scritte al riguardo, come l’editto di Rotari, dove quel termine viene citato. Non è un caso, inoltre, che nel dialetto ligure e piemontese il sostantivo “masca” identifichi proprio la strega (rileggi qui l’articolo che ho dedicato alle streghe delle regioni italiane). L’associazione tra maschera e magia, d’altronde, ha radici che affondano nella notte dei tempi; i riti che connettevano il mondo dei vivi con quello dei morti venivano eseguiti con il volto celato da una maschera sin dall’epoca preistorica. La maschera aveva la funzione di annullare l’identità di colui che la indossava, doveva riprodurre i lineamenti dello spirito evocato. Intorno al I secolo a.C., nell’antico Egitto e nell’antica Grecia apparvero le prime maschere funerarie: quella di Tutankhamon, interamente in oro e smalto, rimane celebre. Il teatro greco utilizzò le maschere sin dagli albori, affinchè i personaggi fossero caratterizzati, ben visibili e ben udibili durante le rappresentazioni. Nei culti misterici del mondo ellenico, la maschera divenne anche l’emblema della “morte iniziatica”; la Roma dell’età imperiale, al contrario, conferiva alla maschera un’accezione più che mai giocosa e caricaturiale.

 

 

Secoli orsono, le prime maschere di Carnevale erano a dir poco spaventose: nel periodo dell’anno dedicato al caos e all’inversione dei ruoli, raffiguravano gli spiriti che emergevano dagli Inferi per catapultarsi nel mondo dei vivi. C’erano quindi i demoni, che avevano la funzione di importunare e sbeffeggiare chiunque capitasse loro a tiro. Tra balli, baldorie e fustigazioni, l’atmosfera che aleggiava era assai angosciante. Nell’antica tradizione marchigiana ritroviamo la maschera del diavolo, spesso affiancata da quella della morte; sono figure esorcizzanti, dalla valenza apotropaica, alle quali si affiancavano altre maschere tipiche: la sposa, il dottore, il sacerdote, il gobbo e personaggi riferiti alla realtà locale. Si racconta che a Carnevale, nella valle del Metauro, un folto gruppo di maschere si spostasse di casa in casa per esibirsi al suon di fisarmonica in divertenti sketch. Subito dopo, partiva la questua di uova e carne di maiale. Esistono diverse testimonianze, inoltre, di maschere svanite nei meandri del tempo, come “lu Zaravaju” dei Monti Sibillini: chiassoso, simpatico, ribelle e spirito libero per definizione, si ispirava a una persona realmente esistita. I suoi segni distintivi erano i campanacci e le cravatte coloratissime che abbinava ad abiti molto a buon mercato. Ancora una volta ritornano il baccano, lo sberleffo e l’“anarchia”, probabilmente retaggi di riti arcaici dalla profonda valenza simbolica.

 

 

Nel XVI secolo, con la nascita della Commedia dell’Arte (da notare che la maschera che gli Zanni indossano si ispira, non a caso, al volto del demonio così com’era rappresentato tra il 1400 e il 1500), ogni maschera ha una sua connotazione ben precisa. C’è Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduja, Colombina, Gioppino, Pantalone, Rosaura, Giangurgolo…e ognuno vanta le proprie peculiarità estetiche e caratteriali. Anche nelle Marche, nel corso dei secoli, hanno preso vita personaggi che caratterizzano determinate province o città. A Pesaro abbiamo Rabachén (baccano) e Cagnèra (litigio), una coppia di coniugi apparsa per la prima volta nel 1874. Rabachén è il re del Carnevale: indossa un cappotto a coda di rondine rosso sgargiante, una tuba nera dall’altezza vertiginosa e una fusciacca bianca e rossa, i colori di Pesaro. Cagnèra è una donna tarchiata agghindata con nastri, pizzi, fiori e fiocchi. L’antichissimo Carnevale di Fano ha come protagonista El Vulòn, una maschera inventata nel 1951 da Rino Fucci (artista e dirigente della Società Carnevalesca cittadina). Il nome El Vulòn si riferisce probabilmente al “Nous voulons” con cui esordiva il banditore di editti durante la dominazione napoleonica, e inizialmente si associava a una maschera saccente, arrogante e con la puzza sotto il naso. Con il tempo, poi, El Vulòn passò ad impersonare in modo satirico le celebrità del momento.

 

 

Anche Ancona ha le sue maschere: Papagnoco e Burlandoto risalgono alla metà del 1800. Le creò un burattinaio locale rendendole protagoniste del suo teatrino, ma agli anconetani piacquero talmente tanto da diventare delle maschere del cosiddetto “Carnevalò”. Papagnoco è un campagnolo gretto e rissoso approdato in città, Burlandoto una guardia papalina che non brilla per sagacia. Nel 1999 è stato introdotto Mosciolino, inventato dal grafico Andrea Goroni. Il suo nome si ispira al “mosciolo”, le cozze selvatiche che abbondano lungo la Riviera del Conero, mentre il suo aspetto è quello di una sorta di elfo dei mari. A Macerata la maschera più popolare è Ciafrì, un contadino astuto e irruente che parla solo nel dialetto del suo villaggio. Nel fermano, invece, si è imposto Mengone Torcicolli: marionetta ideata da Andrea Longino Cardinali nel 1816, si tramutò in una maschera dopo mezzo secolo di esibizioni teatrali. Mengone è un personaggio bonario, astuto e dall’aspetto sgradevole a dir poco. Il suo punto di forza è la schiettezza, ed è probabilmente questa stessa dote ad avergli permesso di prender moglie: Lisetta, la sua sposa, lo conosce dopo una vita avventurosa e accetta subito di farsi impalmare. Mengone è ritornato a far parte del Carnevale fermano nel 2019, e non ha mancato di portare con sé la sua Lisetta.

 

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La via del cuore

 

Come una candela ne accende un’altra e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori.
                                                                  (Lev Tolstoj)

Oggi è San Valentino: è lecito vedere cuori ovunque e seguire la via del cuore. Perchè è proprio il cuore, da sempre, ad indicarci la strada per la felicità. E noi lo celebriamo con questa nuova photostory, il racconto per immagini che dedichiamo al giorno della Festa degli Innamorati.

 

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