Hanami: i cibi e le bevande tradizionali dei picnic sotto i ciliegi in fiore

 

“Hanami”, in giapponese “guardare i fiori”: di questa tradizione del paese del Sol Levante, VALIUM ha parlato più di una volta. E’ un rito collettivo antichissimo, un inno alla bellezza del fiore di ciliegio e alla sua simbologia. I giapponesi attendono la fioritura dei ciliegi con trepidazione, spostandosi poi in massa verso i luoghi dove è possibile ammirarli in tutto il loro splendore. Lì, sotto le chiome in fiore dei sakura (il ciliegio o il fiore di ciliegio giapponese), contemplano la meraviglia di quelle spettacolari nuvole rosa e organizzano picnic. Di notte, al chiar di luna e con le luci dei lampioni e delle stelle, l’ Hanami risulta ancora più suggestivo: viene ribattezzato Yozakura, ovvero “ciliegio notturno”, ed è un appuntamento imperdibile di ogni Primavera. Ma quali sono i cibi e le bevande che i giapponesi consumano durante questi picnic? Cominciamo subito col dire che il rosa è il colore che fa rigorosamente da leitmotiv. Celebra il fiore di ciliegio e la sua valenza emblematica, che spazia dalla caducità alla meraviglia della vita.

 

 

Scopriamo quindi quali cibi tradizionali si accompagnano all’Hanami. Bisogna dire innanzitutto che, oltre al colore rosa, esiste un altro elemento che contraddistingue i picnic sotto i sakura in fiore: il sapore di fiore di ciliegio. E’ delicato, inconcondibile, e in Giappone si utilizza per aromatizzare qualsiasi bevanda e cibo, dolci o salati che siano. Molti di voi conosceranno i sakuramochi, dei dolcetti a base di riso, zucchero e pasta di fagioli rossi che vengono serviti avvolti in una foglia di sakura.

 

 

Anche i dango sono piuttosto celebri: nei manga potete ammirarne a volontà, essendo un dolce tipico giapponese. Esistono svariate tipologie di dango, i Mitarashi dango sono i più noti. Si tratta di gnocchi di farina di riso infilzati su un bastoncino (che può contenerne da un minimo di tre a un massimo di cinque), dalla forma sferica e rivestiti di glassa a base di salsa di soia dolce. In occasione dell’Hanami, si prepara una versione chiamata Hanami dango. E’ costituita da tre polpette sferiche (sempre infilzate a mò di spiedino) tinte nei caratteristici colori primaverili: rosa, bianco e verde. Il rosa simbolizza i sakura, il verde le foglie nate di recente, il bianco la neve appena sciolta.

 

 

C’è un proverbio ironico che riguarda gli Hanami dango, ossia “Meglio i dango che i fiori”. Il significato è duplice: può essere un elogio alla sostanza a discapito dell’estetica, oppure indicare qualcuno che approfitta dell’ Hanami per dedicarsi a grandi abbuffate anzichè all’ammirazione dei fiori di ciliegio. Dopotutto, l’Hanami è anche un modo di incontrarsi, di socializzare all’insegna del buon cibo e di deliziose bevande. La cornice di incredibile bellezza dei sakura, tuttavia, si rivela fondamentale. Prima parlavamo del gusto di ciliegio: lo ritroviamo dappertutto, persino nei gelati, nelle birre, nel thè, addirittura nell’acqua. La Coca Cola, in vista dell’Hanami, mette in commercio una speciale edizione al ciliegio della bevanda, il cui packaging è in total pink. Starbucks, dal canto suo, lancia il sakura frappuccino “vestito” di rosa e al gusto di ciliegio per l’occasione; lo stesso avviene per la nota birra Asahi, che in tempo di Hanami rinnova il look e il sapore. Ma torniamo ai cibi. Quelli imprescindibili sono l’onigiri, il tipico spuntino di riso bianco ripieno di tonno e di salmone; è riconoscibile, tra l’altro, dall’alga nori che lo ricopre lateralmente.

 

 

Molto comuni sono anche le tamagoyaki, gustose omelette tradizionali, gli edamame, baccelli di soia lessati tipici anche della cucina cinese, e il dorayaki, un dolce composto da due pancake e ripieno di salsa rossastra ottenuta dai fagioli azuki. Tutti questi cibi, e molti altri ancora, sono di solito racchiusi nel bentō, un vassoio munito di coperchio particolarmente utile per i picnic all’aria aperta. Tra le bevande dell’ Hanami risaltano invece l’Hanami-zake, sakè in coppetta a cui si aggiunge un fiore di ciliegio: dev’essere appena caduto dal ramo per esaltare il fascino e la potenza evocativa del drink. Anche il té verde ai fiori di ciliegio è un must, e in molti lo portano con sè in un thermos (caldo o freddo non importa). Il chuhai lo si trova praticamente in tutti i supermercati, nei bar e nei distributori automatici; è una bevanda alcolica gassata rinfrescante a base di schochu (un distillato tradizionale del Sol Levante) e highball. L’aroma, naturalmente, è al gusto di ciliegio.

 

 

E in questo trionfo del rosa, vi chiederete, che ruolo ha il vino rosè? La buona notizia è che il rosato italiano sta avanzando a grandi passi verso il Giappone, e chissà che un giorno non riesca ad affiancare le bevande tradizionali dell’ Hanami.

 

 

Foto dei dango e sakuramochi (n.4 dall’alto) di crayonmonkey from Manchester, UK, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, da Wikimedia Commons

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Le uova colorate: un’antica tradizione pasquale tra leggenda, simbologia e sacralità

 

L’uovo è il simbolo pasquale per eccellenza. Sin da tempi remotissimi ha rappresentato la vita, il cardine dei quattro elementi, la fertilità, la rinascita. Regalare uova in occasione dell’arrivo della Primavera era una tradizione diffusa tra molti antichi popoli pagani. I Persiani, così come gli Egizi, i Greci e i Cinesi solevano scambiarsi uova di gallina per festeggiare la rinascita della natura, e non era raro che si trattasse di uova decorate manualmente. Con l’avvento del Cristianesimo, questa simbologia venne sostituita da quella prettamente associata alla Resurrezione: in Mesopotamia, tra i cristiani era d’uso donarsi uova tinte di rosso per rievocare il sangue di Cristo Crocifisso. La Chiesa Cattolica considerava l’uovo un emblema perfetto del Cristo che risorge. Esternamente, infatti, l’uovo somiglia alla pietra di un sepolcro, è freddo e inanimato; al suo interno, invece, germoglia la vita. Con questo significato, nel Medioevo, le uova si tramutarono in un tradizionale dono pasquale. Ma come ebbe inizio l’usanza di colorarle? Per tingerle delle tonalità più svariate, era comune farle bollire avvolte in delle foglie o insieme ai petali di certi fiori.

 

 

Tra i ceti aristocratici, nello stesso periodo storico, era molto in voga regalare uova interamente costruite in oro, platino o argento, oppure rivestite di questi metalli preziosi. Il popolo, tuttavia, adottò l’abitudine di colorare le uova anche per ragioni pratiche: durante la Quaresima, infatti, quando era proibito mangiare carne e prodotti di origine animale, le famiglie usavano bollire le uova per conservarle fino alla fine del digiuno; tingerle di vari colori si rivelava utile ai fini di distinguerle dalle uova crude. Tornando alla tradizione pasquale, le tonalità tipiche erano il giallo, il rosso, il marrone, il verde e il nero, che era possibile ottenere tramite coloranti naturali. Nei paesi dei Balcani e ortodossi, la millenaria usanza delle uova colorate è giunta fino ad oggi. Le uova, bollite, sono rosse a simboleggiare la Passione, ma di recente sono state introdotte anche altre cromie. Il pasto viene poi consumato a Pasqua e Pasquetta. Parlando di uova rosse, è interessante sapere che in Primavera, nella Roma antica, era abitudine sotterrarle nei campi affinchè fossero di buon auspicio per il raccolto. Esiste anche una leggenda, riguardante le uova tinte di questo colore.

 

 

Si narra che Maria Maddalena, quando scoprì che Cristo era risorto, corse a dare la bella notizia a tutti i suoi discepoli. Nessuno di loro, però, prestò fede alle parole della donna, e Pietro le disse che l’avrebbe creduta solo se le uova che portava con sè in un cestello si sarebbero tinte di rosso. Così avvenne: come per miracolo, tutte le uova di Maria Maddalena diventarono rosse in un batter d’occhio.

 

 

Oggigiorno, con la supremazia delle uova di cioccolato, la tradizione delle uova di gallina colorate è sempre viva, anche se un po’ in ribasso. Negli stati di fede ortodossa, tuttavia, permane in tutto il suo fulgore originario: le uova sode, tinte con coloranti alimentari, in questi paesi rappresentano un po’ una risposta al boom dell’uovo di cioccolato, che viene generalmente associato a connotazioni più consumistiche.

 

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Equinozio di Primavera

 

Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.”
(Gabriele D’Annunzio)

 

La Primavera è entrata ufficialmente alle 4.06, un’ora a metà tra notte e alba: il cielo è ancora buio, ma il silenzio viene invaso dal cinguettio degli uccellini che annunciano l’imminente nascita di un nuovo giorno. Oggi inizia la stagione del risveglio, la natura si desta dal lungo torpore invernale. I fiori sbocciano, il paesaggio si tinge un tripudio di colori. La terra inaugura il suo periodo di fertilità, l’aria si impregna di frizzante leggerezza. C’è voglia di ricominciare a vivere, di godere appieno delle giornate sempre più lunghe, di trascorrere più tempo all’aperto. La Primavera irrompe come una folata di energia, porta con sè la gioia della rinascita. Ci si riapre al mondo, ai desideri del cuore, alla magia del nuovo inizio. E i fiori diventano l’emblema di questo stato d’animo, di questa atmosfera inebriante: i loro profumi e le loro tonalità ci invitano ad addentrarci nei sentieri della bella stagione e a riscoprirla in tutta la sua meraviglia.

 

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I bignè di San Giuseppe, il dolce tipico delle Marche per la Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, a San Giuseppe, ogni regione d’Italia ha un proprio dolce tradizionale da proporre. Nella mia, le Marche, si usa preparare i bignè di San Giuseppe, comunemente detti “migné”. Di che si tratta? Innanzitutto, di una golosità unica: sono bignè farciti di deliziosa crema pasticcera, cosparsi di zucchero a velo oppure alchermes. Li ritroviamo anche in altre regioni dell’ Italia centrale, ad esempio il Lazio, dove generalmente vengono fritti e riempiti di crema chantilly; una variante della farcitura (ma non in quella zona) può essere costituita dalla ricotta. I bignè di San Giuseppe sono soprattutto noti come dolce per la Festa del Papà di Roma. Nella capitale, in effetti, il 19 Marzo era una ricorrenza molto sentita, soprattutto intorno al 1500: la Confraternita dei Falegnami soleva organizzare svariate celebrazioni in onore del padre putativo di Gesù, concentrandole nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano. Proprio in questa chiesa, costruita sopra il Carcere Mamertino nel 1546, la Confraternita era solita riunirsi durante l’anno.

 

 

Ma che c’entra San Giuseppe con i bignè? Tutto, a quanto pare, nacque con la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. In quel periodo, Giuseppe avrebbe lavorato come friggitore itinerante per provvedere ai bisogni della moglie e del figlio. Non è un caso che il 19 Marzo, a Roma, si festeggiasse in un travolgente connubio di sacro e profano, tra miriadi di bancarelle di dolci fritti e funzioni liturgiche che celebravano la solennità dedicata al falegname di Nazareth. Tornando nelle Marche e al dolce tipico della mia regione, va detto che siamo soliti cuocere in forno gli squisiti “mignè”.

 

 

Per prepararli, è necessario procurarsi un bicchiere pieno d’acqua, 100 g di strutto,  quattro uova, una quantità di farina corrispondente a 300 g, e poi dello zucchero, l’alchermes, un po’ di sale e dell’ ottima crema pasticcera.  L’acqua va portata a ebollizione in una pentola insieme allo strutto, dopodichè l’impasto viene mescolato insieme alla farina per dieci minuti circa. Dopo averlo lasciato raffreddare si aggiungono le uova, che erano state sbattute precedentemente. A questo punto è possibile dar forma ai bignè, modellando tante piccole sfere che verranno riposte in una teglia imburrata. I dolcetti dovranno cuocere in forno per mezz’ora a 180°; appena sfornati, si lasceranno raffreddare e la crema pasticcera potrà essere inserita in dosi massicce attraverso un’apertura praticata nella parte superiore dei dolcetti. Per concludere, l’apertura andrà richiusa e si potrà procedere a cospargere i bignè di zucchero a velo (o di alchermes).

 

 

Vino rosé: ed è subito Primavera

 

Il suo colore va dal rosa delicato al rosa carico, il suo gusto è assai versatile: accenti speziati, fruttati e floreali si alternano, dando origine a sapori che li esaltano a dovere. Per le sue caratteristiche, in effetti, il vino rosé potrebbe simboleggiare la Primavera. La tonalità che lo contraddistingue ricorda quella dei fiori di ciliegio, delle rose, delle azalee. Al palato si presenta dolce e vellutato, eterogeneo proprio come il meteo cangiante della nuova stagione. Ma come nasce questo vino così particolare?

 

 

La produzione, in sintesi, prevede tre diverse tecniche. La vinificazione può coinvolgere uve bianche e rosse simultaneamente, uve rosse a bassa pigmentazione vinificate in rosso e uve rosse vinificate in bianco. Determinanti per ottenere  la sfumatura rosata del vino sono i tempi di macerazione, poichè, durante la fermentazione, il mosto assume una colorazione più o meno intensa a seconda dei pigmenti e dei tannini che rilasciano le bucce. Del rosé esiste anche una versione frizzante, realizzata con un vino rosé di base o un mosto di uve rosse fermentato parzialmente: per donargli la sua tipica effervescenza, la fermentazione viene replicata in bottiglia.

 

 

Il vino rosé, proprio in virtù del suo eclettismo, vanta molti punti di forza. E’ leggero, ha un’acidità poco spiccata e una freschezza inebriante. Il profumo, il sapore, la tonalità inconfondibile, fanno sì che degustarlo si tramuti in una vera e propria esperienza sensoriale. Non è un caso che il rosé si abbini alla perfezione con menù a base di pesce, ma anche con i latticini, i funghi, le verdure grigliate e la carne bianca. Provatelo, anche solo per un aperitivo, con i crostacei o i frutti di mare: sarà un connubio vincente e difficile da dimenticare.

 

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Quando la mimosa diventò il fiore simbolo dell’8 Marzo

 

Andavo a San Jeronimo
verso il porto
quasi addormentato
quando
dall’inverno
una montagna
di luce gialla,
una torre fiorita
spuntò sulla strada e tutto
si riempì di profumo.
Era una mimosa.
(Pablo Neruda, “Mimosa”)
La Giornata Internazionale della Donna e l’ Acacia Dealbata, in Italia, sono un tutt’uno. Questa pianta, meglio conosciuta con il nome di mimosa, appartiene alla famiglia delle Fabaceae e sfoggia una nuvola di fiori gialli, a grappoli e profumatissimi. Ma come è diventata il fiore simbolo dell’8 Marzo? Tutto ebbe origine nel secondo dopoguerra. La Festa della Donna, nel nostro paese, divenne una ricorrenza a partire dal 1946 e si cominciò a cercare un fiore che potesse rappresentarla. Inizialmente fu proposta la violetta, un’icona della sinistra europea. L’idea non incontrò però il favore di diversi dirigenti del Partito Comunista: la violetta, a loro avviso, era un fiore troppo dispendioso e neppure così presente sul territorio italiano. La soluzione arrivò per caso, del tutto all’improvviso. Due donne appartenenti all’UDI, Unione Donne Italiane, un giorno si imbatterono in un albero, l’Acacia Dealbata, che ostentava una chioma di magnifici fiori gialli. Teresa Mattei e Rita Montagnana, questi i nomi delle donne in questione, erano entrambe antifasciste. La prima era stata attivamente coinvolta nella lotta partigiana; la seconda, oltre ad aver fondato l’UDI, militava nel PCI. Insieme a Teresa Noce, annoverata tra i fondatori del partito, Mattei e Montagnana furono le più convinte sostenitrici della scelta della mimosa come simbolo dell’ 8 Marzo. E proprio Teresa Mattei appoggiò fortemente quest’opzione: la mimosa era un fiore modesto ma bellissimo, luminoso, molto diffuso nelle campagne, e i partigiani, durante la guerra, usavano regalarlo alle staffette.
Da allora, in Italia, la Festa della Donna è stata associata indissolubilmente a questo fiore di un giallo brillante. Molti altri elementi contribuirono a motivare la sua scelta: secondo la florigrafia, ovvero il linguaggio dei fiori, la mimosa è un emblema di forza, autonomia e sensibilità femminile; incarna un’idea di libertà ed emancipazione. In più, fiorisce poche settimane prima dell’8 Marzo e cresce spontanea un po’ ovunque, laddove il clima lo permette. E’ estremamente facile, quindi, reperire un mazzo di mimose da regalare a un’amica, una compagna, una madre o una collega (per fare solo qualche esempio) senza spendere troppo. E poi, non va dimenticato che è un fiore solare, particolarissimo, vibrante…molto scenografico.

La torta di mele: origini e varianti nel mondo di un dolce senza tempo

 

La torta di mele è un dolce senza tempo, una delizia consumata principalmente nei mesi freddi. Non ha bisogno di presentazioni.  In Italia la prepariamo includendo dei pezzi di mela a un impasto contenente uova, lievito, burro, olio d’oliva, farina, latte, una buccia grattugiata di limone e un po’ di sale; a volte aggiungiamo delle noci, la cannella e qualche uvetta. Nel caso in cui le mele rappresentino solo una guarnizione, la torta viene definita “crostata” senza nulla da invidiarle in quanto a golosità. Ma come si prepara la torta di mele negli altri paesi del mondo e soprattutto, dove nasce questa intramontabile ricetta? Lo scopriremo subito.

 

 

In Inghilterra

E’ qui che è stata rinvenuta la ricetta di torta di mele più antica del mondo: risale nientemeno che al 1381, quando Geoffrey Chaucer (il padre della letteratura inglese) era ancora vivo e vegeto. L’ “apple pie” inglese era ricoperta di pasta e includeva ingredienti, oltre alle mele, come le pere, i fichi, il ricino, le spezie e lo zafferano per la colorazione del dolce. Oggi, nel Regno Unito è in auge una versione doppiamente golosa della torta: è possibile servirla con il gelato, la panna montata e la crema pasticcera. Generalmente assume la forma di una ciambella spruzzata di zucchero a velo con il buco ripieno di mele a cubetti, oppure somiglia a una crostata.

 

 

In Francia

Ideata dalle sorelle Stéphanie e Caroline Tatin nella seconda metà dell’800, la tarte Tatin è una torta di mele tipicamente francese. Pare che una delle sorelle Tatin, che gestivano un ristorante a Lamotte-Beuvron (nei Paesi della Loira), fece caramellare le mele in burro e zucchero per errore e così le ricoprì con l’impasto prima di capovolgere la torta in un piatto. Il risultato fu un dolce “capovolto” tuttora molto in voga: il suo carattere distintivo sono, appunto, le mele caramellate a parte precedentemente alla cottura.

 

 

In Olanda

La torta di mele nasce nel Medioevo. Le ricette più antiche evidenziano l’utilizzo di numerose spezie: le principali erano costituite dal cardamomo, la noce moscata, i chiodi di garofano, la cannella, lo zenzero. Solitamente, la torta presentava un foro centrale dove venivano inserite le mele. Ai nostri giorni, in Olanda esistono due varianti di torte di mele: una decisamente soffice, l’altra più simile alla crostata. La cannella, il succo di limone, lo zucchero e la pasta di mandorle sono gli ingredienti maggiormente usati per insaporire il dolce, che viene servito con del gelato alla vaniglia; la torta di mele olandese, infatti, può essere degustata calda ma anche fredda.

 

 

Negli Stati Uniti

La torta di mele, oggi un emblema dell’ americanità, tra il 1600 e il 1700 era il dolce “d’importazione” più comune: gli immigrati svedesi, inglesi e olandesi lo preparavano abitualmente nelle rispettive colonie.  All’inizio, essendo la varietà di mele diffusa in America eccessivamente aspra, questo frutto veniva utilizzato sotto forma di sidro. Tempo dopo, tra innesti e meli d’importazione, le varietà cominciarono a moltiplicarsi permettendo la creazione di svariate versioni del famoso dolce. Nel 1700, non a caso, le ricette delle torte di mele “made in USA” erano già numerosissime. Il primo paese in cui la torta divenne celebre fu il Delaware; la possibilità di poter consumare il dessert in ogni stagione dell’ anno costituiva il suo principale punto di forza. Un secolo dopo, a partire dal 1800 e per tutto il 1900, la torta di mele si tramutò in una vera e propria icona, l’incarnazione del benessere a stelle e strisce. Veniva arricchita, e viene tuttora, di ingredienti quali il succo di limone, la noce moscata, la cannella, e servita con il gelato o il cheddar, un tipico formaggio anglosassone dalla consistenza dura e dal colore che spazia dal giallo all’arancio: nel New England, la torta di mele con il cheddar è diventata una specialità nazionale.

 

 

In Svezia

La ricetta si discosta molto da quella della torta di mele classica: nell’ impasto sono inclusi ingredienti come l’avena o pane grattugiato in abbondanza. Il sapore viene esaltato dalla cannella e per servirla si utilizzano il gelato o la crema pasticcera. Esiste poi una variante, la äppelkaka, dalla pasta estremamente soffice che somiglia al pan di Spagna. Insaporita con pasta di mandorle, noci, limone, vaniglia, cardamomo, cannella e pane grattugiato, si accompagna alla panna montata o alla crema alla vaniglia: può essere considerata una versione nordica (ma non meno golosa) dello storico dolce.

 

 

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29 Febbraio, il giorno che “spunta” con l’anno bisestile

 

29 Febbraio: quest’ anno, come per magia, Febbraio ha un giorno in più. Ciò accade perchè il 2024 è un anno bisestile e, in quanto tale, si avvale dell’aggiunta di un giorno affinchè il calendario collimi con il moto della Terra attorno al Sole; il nostro pianeta, infatti, impiega 365,2422 giorni per descrivere la sua orbita attorno all’astro infuocato, e non 365 come erroneamente si pensa. Queste sei ore di differenza vengono colmate sommando un giorno al mese di Febbraio, un evento che si verifica ogni quattro anni. Era il 46 a.C. quando Giulio Cesare introdusse l’anno bisestile, dal latino “bis sextus die” ovvero “due volte sesto giorno”. Nel calendario romano, però, il giorno aggiunto ogni quattro anni coincideva con quello successivo al 24 Febbraio, poichè in questa data l’anno terminava: il giorno in più degli antichi romani veniva chiamato esattamente, quindi, “bis sexto die ante Calendas Martias”,  il sesto giorno “ripetuto” prima delle Calende di Marzo. Il calendario gregoriano, che Papa Gregorio VIII promulgò nel 1582, manteneva il giorno aggiunto pur associandolo ad un calcolo diverso e più complicato. Ma quando e dove nacque la nefasta fama dell’anno bisestile? Fu proprio nell’antica Roma che  ebbe origine il detto “anno bisesto, anno funesto”: i romani dedicavano il mese di Febbraio ai riti in onore dei defunti. Con il passare dei secoli, la negatività che il popolo associava all’anno bisestile non venne mai meno. Nel Medioevo era opinione comune che l’anno 1000 coincidesse con la fine nel mondo, mentre durante il Rinascimento l’anno bisestile veniva considerato foriero di epidemie, sciagure per le greggi e per il raccolto. Tornando alla nostra epoca, nel 2020, molti hanno addirittura congetturato un nesso tra l’anno bisestile e lo scoppio della pandemia di Covid. Nei paesi anglosassoni, invece, il 29 Febbraio ha sempre avuto una valenza positiva: nel Regno Unito e in Irlanda è stato ribattezzato “leap day”, mentre l’anno bisestile è il “leap year”. In Irlanda esiste addirittura una tradizione che prevede che le donne facciano una proposta di matrimonio al proprio compagno, con tutto il corredo romantico ad hoc per l’ occasione.

 

 

Attenzione, però! Secondo l’antica usanza, se l’uomo rifiuta sarà tenuto a donare dodici paia di guanti a colei che si dichiara: dovrà indossarne uno al mese per evitare di mostrarsi priva dell’anello di fidanzamento. Vuole la leggenda che la tradizione del Bachelor’s day, ossia della proposta di matrimonio al femminile, sia stata inaugurata da San Patrizio e Santa Brigida di Kildare; pare che la Santa confidò con rammarico a San Patrizio che le giovani donne rimanevano in attesa per troppo tempo della dichiarazione d’amore dei loro fidanzati. San Patrizio, allora, decretò che ogni 29 Febbraio i ruoli si sarebbero invertiti. Sarebbero state, cioè, le donne a dichiararsi agli uomini. L’idea, decisamente innovativa per l’epoca, fu accolta con entusiasmo da Santa Brigida e da tutta la popolazione femminile dell’Irlanda e della Scozia, dove l’usanza si diffuse.

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Bagliori argentei

 

“In grembo alla notte nevosa, d’argento,
immensa si stende dormendo, ogni cosa.”
(Rainer Maria Rilke)

 

La transizione tra Inverno e Primavera è in pieno svolgimento. L’Equinozio si avvicina a grandi passi, ma non mancano, nel frattempo, piogge, nevicate e venti di bufera. Il make up riflette questo periodo di passaggio in un tripudio di bagliori argentei: paillettes, polveri e finish che si ispirano alle nuance di ghiaccio tipicamente invernali e alla luminosità soffusa della Primavera. Un luccichio lunare accende le labbra, i capelli e il décolleté, che brillano da mattina a sera. La Microluna della Neve si è lasciata alle spalle una magnetica scia di chiarore esaltata dai riflessi siderali. L’argento trionfa, regalando le ultime, preziose postille invernali a chi le sa apprezzare.

 

Foto: Cottonbro Studio via Pexels

 

Il ritorno della luce

 

21 Febbraio: le giornate si sono allungate. Manca ancora un mese all’Equinozio di Primavera, ma il sole tramonta ormai intorno alle 17.44. La luce ritorna a poco a poco, spargendo un chiarore cristallino nel paesaggio invernale. Ed è come se tornasse la vita, un potente desiderio di rinascita che accompagna serate in cui il buio cala sempre più tardi. A questi istanti, alle ore di luminosità che ci regala Febbraio, dedico una photostory incentrata sui tramonti che preannunciano l’arrivo della Primavera.

 

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