Caronte: perchè si chiama così e chi era il terribile traghettatore degli Inferi

 

Caronte: ma chi ha dato, e perchè, questo nome all’anticiclone africano più torrido di sempre? La tradizione di affibbiare determinati nomi ai fenomeni atmosferici, in Europa, ha avuto inizio negli anni Cinquanta all’Istituto di Metereologia dell’Università di Berlino. Nel 1954 fu compilata una lista di dieci nomi di persona da assegnare ai principali eventi meteo; curiosamente, le aree di alta pressione atmosferica (associate al bel tempo) vennero denominate con nomi maschili, mentre quelle di bassa pressione (associate al cattivo tempo) con nomi femminili. Ciò provocò malcontento, in particolare tra le femministe, pochè una simile prassi fu considerata discriminatoria in base al genere. Negli anni Novanta si stabilì quindi che, annualmente, si sarebbero alternati nomi maschili e femminili in ordine alfabetico a prescindere dal fenomeno atmosferico. In conclusione, a battezzare gli eventi metereologici nel Vecchio Continente è l’Istituto berlinese da 70 anni a questa parte. Vale ora la pena di ricordare chi fosse Caronte.

 

Caronte in un’incisione di Gustave Doré, che illustrò la “Divina Commedia” (1861-1868)

Caronte è una figura che ritroviamo sia nella mitologia greca che romana: si occupava di traghettare le anime dal mondo dei vivi all’Ade, il regno dei Morti, attraverso il fiume Stige (come riporta Virgilio nell’Eneide) o Acheronte (come riporta Dante nella Divina Commedia). Caronte, però, svolgeva le proprie mansioni solo a beneficio di chi era stato seppellito con una cerimonia funebre oppure era in grado di pagargli un obolo per il viaggio. Tutti coloro che erano privi di questi requisiti venivano condannati a errare nel Limbo, un bosco spettrale ammantato di nebbia, per l’eternità. Se le anime in questione, invece, potevano permettersi di salire sull’imbarcazione di Caronte, venivano traghettate da una sponda all’altra del fiume Acheronte. Il traghettatore infernale viene descritto da Dante come un uomo spaventoso: un vecchio con barba e capelli lunghi e candidi accompagnati da occhi cerchiati di fuoco. Non a caso Caronte è il figlio di Erebo, la personificazione dell’oscurità degli Inferi, e di Notte, la personificazione della notte della Terra. L’obolo, il pedaggio da pagare per la traghettatura, è un dettaglio molto importante. Sia nell’antica Grecia che nell’antica Roma, infatti, vigeva l’usanza di seppellire i cadaveri con una moneta sotto la lingua o due monete sugli occhi: per evitare che i defunti vagassero nell’Ade come anime in pena, i loro familiari li dotavano dell’obolo da versare a Caronte. In Grecia, questa tradizione è stata abolita solo in tempi recenti. Il demoniaco traghettatore dell’Ade, tuttavia, non ha trasportato sull’altra sponda del fiume soltanto morti; tra i vivi saliti sulla sua barca figurano personaggi mitologici del calibro di Enea, Persefone, Teseo, Ercole, Orfeo, Psyche. L’elenco si allunga, in seguito, con San Paolo e Dante Alighieri.

 

Caronte in un dipinto di Joachim Patinir (1520-1524 circa) conservato nel Museo del Prado

Caronte appare in due pietre miliari della letteratura quali l’Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante Alighieri, dove entra in scena nel Canto III dell’Inferno. Anche il commediografo greco Aristofane, intorno al V secolo a.C., lo incluse nella sua pièce Le Rane, facendogli fare una breve comparsa. Se Caronte è una figura mitologica, i Caronti sono realmente esistiti.  Ma chi erano, esattamente? Nell’antica Roma, veniva chiamato Caronte colui che dava il colpo di grazia al gladiatore in fin di vita che aveva perso il combattimento. Il Caronte aveva un aspetto inquietante: celava il volto con una maschera che raffigurava il suo omonimo mitologico, e per portare a termine il suo compito si serviva di una mazza. Dopo essersi accertato che il gladiatore avesse esalato l’ultimo respiro, il Caronte caricava il suo corpo su un carro e lo trasportava nel cosiddetto “spoliarum”. In questa macabra stanza dell’anfiteatro, il gladiatore veniva spogliato  e i Caronti procedevano a impossessarsi del suo sangue. Costoro, infatti, avevano una sorta di seconda attività: vendevano il sangue dei gladiatori, reputato un potente amuleto e un antidoto a mali come l’astenia e la mancanza di virilità. Nella vita quotidiana, per rendere ancora più lugubre la loro figura, i Caronti usavano tingersi la pelle di verdognolo per rievocare la caratteristica tonalità della decomposizione cadaverica. Ma non voglio concludere questo articolo con racconti così funerei. Passiamo allora al motivo per cui l’anticiclone africano è stato battezzato con il nome del terribile nocchiero degli Inferi. La ragione è molto semplice: al Caronte sub-tropicale spetta il compito di “traghettarci” nelle infuocate estati del cambiamento climatico.

Immagini di Caronte: Public Domain via Wikimedia Commons

 

Tre fiori primaverili e le loro leggende

 

La Primavera è la stagione dei fiori, uno dei supremi emblemi del risveglio. Di quelli che sbocciano in questo periodo conosciamo più o meno ogni cosa: i loro nomi, i loro colori, i loro profumi, le loro caratteristiche…li utilizziamo in cucina, quando è possibile (rileggi qui l’articolo sui fiori edibili). Non tutti sanno, però, che a molti fiori si associano delle magnifiche leggende. Ve ne racconto tre.

 

Il lillà e la leggenda di Siringa e del dio Pan

 

 

La prima leggenda riguarda il Syringa Vulgaris, nome botanico del lillà. Si narra che Pan, il dio dei monti e della vita agreste, un giorno si imbattè in Siringa, una splendida ninfa delle acque dell’Arcadia. Per Pan fu un colpo di fulmine: con l’intento di sedurla, la riempì subito di mille complimenti. L’aspetto del dio, per metà uomo e per metà con sembianze caprine, fece però inorridire Siringa, che fuggì spaventata. Temendo che Pan potesse raggiungerla, Siringa chiese aiuto a suo padre Ladone, il dio dei fiumi. Ladone, quindi, la trasformò in un arbusto di lillà per impedire a Pan di possederla: il dio caprino era noto per il temperamento selvaggio e per i suoi bagordi orgiastici. Pan, in lacrime, non riuscendo più a trovare Siringa si disperò. A questo punto, la leggenda si dirama in due versioni differenti. Secondo la prima, quando Pan passò davanti al cespuglio di lillà udì il melodioso lamento del vento tra le sue fronde; decise dunque di reciderle e con esse costruì un flauto da cui non si separò mai più. La seconda versione, invece, racconta che Siringa si trasformò nella canna di un canneto per sfuggire a Pan. Il dio se ne accorse ed estrasse dal canneto sette canne che accorciò e unì tra loro realizzando uno strumento musicale. Nacque così il suo celebre flauto, che non a caso porta anche il nome di “siringa”. E il lillà? Da allora, venne per sempre chiamato Syringa Vulgaris.

 

La pratolina e la leggenda di Bellis e del dio della Primavera

 

 

La pratolina è una di quelle margheritine che in Primavera invadono i prati. Scientificamente si chiama Bellis Perennis: un nome che, come nel caso della Syringa Vulgaris, ebbe origine da una leggenda molto antica. Bellis era la bellissima figlia di Belus, il dio celtico della luce. La leggenda vuole che, un bel giorno, Bellis iniziasse a danzare su un prato con il suo fidanzato. Il dio della Primavera la notò immediatamente: perse la testa per lei e si fiondò sulla coppia per strapparla dalle braccia dell’amato. Quest’ultimo, infuriato, reagì all’assalto del dio con estrema violenza. Spaventatissima, Bellis decise quindi di fuggire da entrambi; chiuse gli occhi, si estraniò da quel contesto e si trasformò in una leggiadra margherita. La pratolina, anticamente, era un fiore che riscuoteva grande apprezzamento sia presso i reali che la gente comune. Tra i suoi estimatori annoverava Margherita di Valois, prima moglie di Enrico IV di Francia, San Luigi dei Francesi e Margherita D’Angiò, la consorte di Enrico VI di Lancaster. In inglese, il nome della pratolina è intriso di suggestività: “daisy“, infatti, deriva da “day’s eye”, ovvero “occhio del giorno”.

 

Il giacinto e la leggenda di Giacinto e di Apollo

 

 

Veniamo ora alla leggenda che riguarda lo Hyacintus, una pianta bulbosa dalle infiorescenze coloratissime. Il suo nome deriva da Giacinto, un prestante giovane della mitologia greca. Principe di Sparta, Giacinto era amato dal dio Apollo, ma ad essere affascinati da lui erano anche Zefiro (personificazione del vento dell’ ovest), Borea (personificazione del vento del nord) e Tamiri. La gelosia di Zefiro nei confronti di Apollo, purtroppo, fu fatale al bel principe di Sparta. Apollo era innamoratissimo di Giacinto; un giorno, in previsione delle Olimpiadi a cui quest’ultimo avrebbe preso parte, i due amanti iniziarono una gara di lancio del disco. Apollo lanciò il disco, e osservando quella scena Zefiro impazzì di gelosia: soffiò una forte folata di vento sulla coppia, ma la raffica cambiò la traiettoria del disco. Giacinto fu colpito violentemente dall’attrezzo, che si scagliò contro la sua tempia uccidendolo. Apollo, disperato, tentò in tutti i modi di salvare il suo amante; non ci riuscì, però non permise ad Ade, il dio dell’ oltretomba, di portarlo con sè: trasformò il sangue versato da Giacinto in un fiore profumatissimo e dal colore intenso a cui diede il suo stesso nome. Per celebrare Giacinto, a Sparta tra Maggio e Giugno si tenevano le Giacinzie, una tre giorni composta da riti simboleggianti la morte e la rinascita.

 

Le Fave dei Morti, il tradizionale dolce marchigiano per i defunti: origini, storia, simbologia e ricette

 

In occasione delle ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, celebrate rispettivamente l’1 e il 2 Novembre, in Italia si usa preparare i cosiddetti “dolci dei morti”. Si tratta di dolcetti tradizionali preparati con ingredienti semplici e frugali, spesso a base di mandorle, diffusi in tutte le regioni della penisola: possono essere dei biscotti, la cui forma rimanda di frequente alle ossa umane (le “Ossa dei Morti” sono popolarissime in Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia, nel senese e nelle Marche),  delle specifiche tipologie di pane e di panini (rintracciabili in Trentino, Maremma, Sicilia e Lombardia), dei prodotti di pasticceria a base di marzapane (per esempio le “Dita di Apostolo” e la “Frutta di Martorana” della tradizione calabrese e siciliana), oppure varianti del torrone come il tipico “Torrone dei Morti” napoletano. Voglio soffermarmi, però, su un dolce caratteristico della mia regione, le Marche, oltre che di regioni del centro Italia quali il Lazio, l’Umbria e l’ Emilia Romagna: le “Fave dei Morti”.

 

 

Sono dei biscotti dalla forma generalmente ovale o tondeggiante, simili agli amaretti ma solo nell’ aspetto. Il denominatore comune di tutte le versioni, che differiscono a seconda della zona di provenienza, sono le mandorle tra gli ingredienti principali. Ma perchè il nome “Fave dei Morti”, e come è nata questa tradizione? Pare che l’usanza abbia avuto origine dall’antichissima credenza secondo cui i defunti, tra l’1 e il 2 Novembre, tornassero nel mondo dei vivi. In quell’occasione, veniva organizzata per loro un’accoglienza all’insegna della dolcezza. Ogni famiglia, all’epoca, manteneva ben saldo il legame con i propri antenati e ne onorava il ricordo costantemente. I dolci preparati durante le festività dei Morti, dunque, venivano offerti a questi ultimi (oltre che a tutti i familiari) per celebrare il loro ritorno dall’ aldilà. Bisogna innanzitutto precisare che la ricetta delle “Fave dei Morti” non ha niente a che vedere con le fave: in tempi remotissimi, questo legume era considerato un tramite tra l’Ade, il regno dei morti, e il mondo tangibile.  La fava veniva associata all’ oltretomba in tutta l’area del Mediterraneo. Gli antichi Romani, ad esempio, erano soliti omaggiare con delle fave il dio dei Morti e le consideravano un emblema delle anime dei defunti. Secondo alcuni studiosi, la fava assunse questa valenza simbolica in virtù del suo fiore: i petali candidi esibiscono una macchia nera che fu paragonata alla T di “Thanatos”, dal greco θάνατος ovvero “Morte”; lo stelo, inoltre, è lineare e ha radici che si sviluppano in profondità nel terreno. Entrambi i dettagli vennero interpretati come l’indizio di un collegamento tra la fava e l’aldilà, poichè si pensava che l’Ade fosse collocato nelle viscere del suolo.

 

 

Per certi popoli, l’anima dei defunti si celava proprio all’ interno della fava, e calpestarne qualcuna in un campo rappresentava un autentico sacrilegio; mangiare fave, al contrario, significava stabilire una connessione con una persona passata a miglior vita. Erano molti i rituali che rinsaldavano il nesso tra le fave e il regno dei Morti. Si usava, ad esempio, offrirle in dono a un defunto depositandole sulla sua tomba. Queste pratiche, non di rado, erano impregnate di superstizione. Per far sì che i trapassati riposassero in pace, si cospargevano di fave i loro sepolcri. Lanciare fave dietro le proprie spalle recitando litanie propiziatorie aveva, invece, una funzione redentrice. Durante i banchetti funebri, le fave costituivano la pietanza principale: quelle cotte erano riservate ai benestanti, mentre i poveri dovevano accontentarsi delle fave crude. Con l’avvento del Cristianesimo, il legame che associava la fava all’Ade non venne mai meno. Tra il 900 e l’anno 1000, l’abate benedettino Odilone di Cluny promulgò una riforma atta a far coincidere la Commemorazione dei Defunti con il lasso di tempo compreso tra i vespri del 1 Novembre e l’eucarestia del giorno seguente. Per permettere ai monaci di pregare tutta la notte, l’abate lasciava loro un gran numero di fave con cui sfamarsi. In occasione delle solennità dei Morti, inoltre, i poveri potevano usufruire di ciotole di fave poste ad ogni angolo di strada. Con Odilone di Cluny questo legume divenne cibo di precetto, ma diversi secoli dopo fu sostituito dai golosi dolcetti battezzati “Fave dei Morti”. I biscotti a base di mandorle, con la loro forma tondeggiante, simboleggiavano alla perfezione il viaggio di sola andata che l’anima compie verso il sonno eterno. In Umbria, non a caso, le Fave dei Morti venivano vendute nelle bancarelle che il 2 Novembre si posizionavano proprio accanto ai cimiteri.

 

 

La preparazione delle Fave dei Morti è piuttosto semplice: gli ingredienti principali sono le mandorle (pelate) e lo zucchero bianco, a cui si aggiungono la farina, il burro, la scorza di limone, i tuorli d’uovo e la cannella in polvere. Per l’impasto esistono diverse versioni; una di queste prevede che le mandorle e lo zucchero vengano pestati a parte, insieme, per poi essere uniti agli altri ingredienti. Un’altra ricetta suggerisce di mescolare la farina, le mandorle tritate, lo zucchero e il burro tagliato a pezzetti aggiungendo subito dopo la scorza di limone grattugiata, la cannella e le uova sbattute. A questo punto si ottiene un impasto morbido che va suddiviso in palline da cuocere in forno, a 180 gradi, per un quarto d’ora. Se le versioni delle Fave dei Morti sono molteplici, comunque, il risultato è unico: una delizia garantita.

Foto via Unsplash

 

Buon Equinozio di Autunno

 

Prendi un filare di aceri in questa luce leggera e vedrai l’autunno incandescente attraverso le foglie …. La promessa di oro e cremisi è tra i rami, anche se per adesso si è realizzata solo su un ramo solitario, un cespuglio impaziente o un timido piccolo albero che non ha ancora imparato a cronometrare i suoi cambiamenti.

(Hal Borland)

Benvenuto, Autunno. Oggi, con l’Equinozio (dal latino “aequa nox” perchè le ore di luce e buio sono equivalenti), la nuova stagione fa il suo ingresso ufficiale. Ma perchè il 23 Settembre e non il 21, come si pensa comunemente? E’ presto detto. La durata dell’ anno siderale – il tempo che la Terra impiega, cioè, per compiere il suo giro attorno al Sole –  non combacia alla perfezione con quella dell’anno solare: quest’ ultimo conta 365 giorni, mentre l’anno siderale vanta circa sei ore in più. Si è cercato di ovviare alla disparità introducendo gli anni bisestili; le date in cui cadono gli Equinozi, tuttavia, non risultano sempre le stesse. Di conseguenza, quest’ anno l’ Autunno arriva con “due giorni di ritardo” rispetto alla data stabilita convenzionalmente. Il semestre oscuro ha avuto inizio alle 3.03 di stamattina. La natura si prepara al riposo invernale: il ciclo produttivo è giunto al termine, il fogliame si tinge di splendidi colori prima di staccarsi dai rami, gli animali cominciano ad accumulare provviste per sopravvivere al grande freddo. Nella mitologia greca, al principio dell’ Autunno Persefone scendeva nell’ Ade per ricongiungersi con il re degli Inferi. La terra iniziava ad assopirsi in attesa di rifiorire in Primavera, quando la dea riabbracciava la madre Demetra nel mondo dei vivi. I Misteri Eleusini, riti mistici segreti celebrati nella Grecia antica, erano incentrati proprio sul mito di Persefone e sul suo rapimento a opera di Ade. L’ Equinozio d’Autunno è un’ importante data di transizione. Secoli orsono, fu battezzato Mabon dai popoli pagani: così viene chiamato anche il Sabbat che lo rappresenta nella Ruota dell’ Anno.

 

 

Mabon è un condottiero della mitologia gallese; impersonifica il dio della caccia, della giovinezza e del raccolto. Secondo un’ antica leggenda, sua madre Modron lo rapì tre giorni dopo averlo partorito e lo racchiuse nel suo grembo: a causa di ciò, Mabon rimase eternamente giovane e fu soggetto a una costante rinascita. Riguardo a chi lo salvò dalla “clausura”,  le voci sono discordanti. Vengono citati di volta in volta Re Artù o suo cugino Cuhlwch, un’ aquila, un gufo e un salmone. Quando fu liberato, il figlio di Modron diffuse il suo alone di luce nel mondo. Mabon è il seme che feconda, che dà origine a una nuova vita. Durante l’ Equinozio d’Autunno, gli antichi popoli ringraziavano il dio per i doni della terra: non a caso,  i frutti del tardo raccolto costituivano le pietanze tradizionali di quella data. Esprimere gratitudine a Mabon e invocare la sua clemenza in vista del gelido Inverno erano azioni che implicavano una rigorosa condivisione del cibo.

 

 

Le caratteristiche dell’ Equinozio di Autunno si rispecchiano anche nel modo ideale di celebrarlo spiritualmente. Giorno e notte hanno la stessa durata: ciò ci sprona a ricercare un’armonia, a bilanciare gli opposti che convivono in noi.  L’ ultimo raccolto è appena stato effettuato, è il momento di fare bilanci. Analizziamo il nostro raccolto personale, valutiamone i frutti, formuliamo su di essi opinioni e considerazioni. Inizia un nuovo ciclo stagionale, la natura che si assopisce è un invito a fermarci a meditare. L’ Autunno è introspezione, un viaggio all’ interno di noi stessi; l’acquisizione di una consapevolezza scaturita dalle nostre riflessioni. E’ il periodo più adatto per porre fine a situazioni sterili voltando pagina con entusiasmo e propositività. Le vibrazioni cosmiche emanate dall’ Equinozio sono molto intense. Andrebbero assaporate immergendosi nella natura, approfittando di lunghe passeggiate nei boschi per inebriarsi davanti all’ oro e al rosso porpora del fogliame.

 

 

Ma potreste dare il benvenuto all’ Autunno anche tra le vostre quattro mura: adornate le stanze e la tavola con piante secche decorative, castagne, frutta secca, petali essiccati, foglie morte dalle incredibili cromie. Degustate alimenti tipici come i cereali, i legumi, le patate e le zucchine cotte al forno, le mandorle, le mele e le zucche, annaffiandoli con un buon vino; il pane più indicato è quello di semola o di frumento. Bruciate incenso ai petali di rosa, alla salvia, all’ ibisco, e organizzate una cena a lume di candela optando per un décor in tonalità autunnali come il il vinaccia, l’arancio e il marrone.

 

 

 

 

Equinozio di Primavera

 

Buon Equinozio di Primavera! Oggi, la Primavera fa il suo ingresso ufficiale. Giorno e notte avranno una durata identica – Equinozio deriva dal latino “aequus nox”, ovvero “notte uguale” – e il Sole, giunto allo Zenit dell’ Equatore, irradierà i suoi raggi perpendicolarmente rispetto all’ asse di rotazione terrestre. In sintesi, l’Equinozio rappresenta il preciso istante in cui il movimento della Terra attorno al Sole coincide con il posizionamento di quest’ ultimo allo Zenit. Ma l’ Equinozio non è solo astronomia: l’ arrivo della bella stagione è associato a miti, rituali e leggende che risalgono alla notte dei tempi. Non è difficile immaginare, infatti, che il trionfo della luce sul buio e il risveglio della natura abbiano assunto delle forti connotazioni simboliche presso le civiltà più antiche. In Mesopotamia, secoli e secoli orsono, l’ Equinozio di Primavera e il Capodanno combaciavano: rappresentavano entrambi un nuovo inizio. Nel mondo occidentale, dove un numero incalcolabile di popoli celebrava  i cicli della Natura con feste e rituali, il mito della Dea Persefone riveste un’ importanza fondamentale. Racconta la leggenda che Persefone, figlia di Demetra (la Dea della Madre Terra), venne rapita da Ade, il signore dell’ Oltretomba, che la portò con sè negli Inferi. Demetra ne fu così addolorata che minacciò di condannare la Terra alla distruzione, se sua figlia non avesse fatto ritorno.  Zeus ordinò quindi che fosse liberata. Ma quando Persefone riabbracciò sua madre, Demetra si accorse che era ormai una donna, non più la sua bambina. Allora, Zeus stabilì che Persefone avrebbe trascorso metà dell’ anno nel Regno dei Vivi, con Demetra, e l’ altra metà con Ade nelle profonde viscere della terra. Fu così che la natura divenne ciclica e che ebbero inizio le quattro stagioni. La Primavera celebrava, al tempo stesso, la natura che rifiorisce e il ritorno di Persefone, che riportava la vita e ripristinava il rinnovamento. In onore di Demetra e di sua figlia, nella Grecia antica si istituirono i Misteri Eleusini: si svolgevano da metà Febbraio a metà Marzo ed erano riti misterici di tipo iniziatico che accompagnavano gli adepti alla scoperta della Conoscenza, della Verità e dell’ Immortalità. Le due Dee, emblemi di fertilità e rinascita, si identificarono per sempre con la bella stagione. L’ Equinozio era una data cruciale anche per gli antichi romani, che proprio a Marzo (il mese dedicato al dio Marte, padre di Romolo e Remo) facevano iniziare l’ anno,  mentre i nordici Celti preferivano festeggiare la rinascita a Beltane, il 1 Maggio.

 

 

Al di là dei resoconti storici, comunque, ciò che conta è la valenza simbolica dell’ Equinozio di Primavera, chiamato Ostara dai popoli germanici (dal nome di Eostar, Dea della fertilità) e Alban Eiler, “Luce della Terra”, in lingua gallese. Alle connotazioni di rinascita e ritorno della luce si affianca quella di un’ unione cosmica tra divinità maschile e femminile: il Dio Sole e la Dea Terra si accoppiano, la loro fusione è sinonimo di vita. Un’ antica tradizione equinoziale prevedeva che si accendesserò dei falò in collina, la cui durata sarebbe stata direttamente proporzionale alla fecondità del terreno. L’ Equinozio rappresenta anche una svolta che ci riguarda personalmente, che coinvolge la nostra esistenza e la nostra interiorità. A Alban Eiler rinasciamo a nuova vita: è il momento di fare progetti, di concretizzare i sogni, di andare incontro ai sentimenti senza remore. Dovremmo sentirci un tutt’ uno con la natura che germoglia, sbocciare a nostra volta per seguire questo flusso rigoglioso e inarrestabile. L’ Universo è in armonia perfetta. Le ore diurne e notturne si equivalgono, il sole torna a splendere e la terra a rinverdirsi.

 

 

Ostara, inoltre, è il nome da cui deriva il termine Pasqua nelle lingue germaniche: in tedesco Ostern, in inglese Easter. Ciò rimanda all’ opera di sostituzione e di “riassorbimento” adottata dalla chiesa cristiana nei confronti delle ricorrenze pagane. Nel 325 d.C., il Concilio di Nicea stabilì di contrapporre le celebrazioni per la risurrezione di Cristo ai rituali in onore del riveglio della natura; la Pasqua, di conseguenza, fu fissata alla domenica successiva al primo plenilunio dopo l’ Equinozio di Primavera. A Ostara i popoli germanici inneggiavano alla Dea della fertilità con l’ accensione di un cero, emblema della fiamma dell’ esistenza, che veniva fatto ardere nei templi fino all’ alba. A proposito di Ostara, sapete quali sono i suoi colori? Tonalità pastello come il rosa, il celeste, il giallo, il verde. Suoi caratteristici simboli sono invece le uova, i nidi delle lepri, la luna nuova e le farfalle. Non vi ricordano un po’ le cromie e l’ iconografia tipicamente pasquali? Per concludere, alcuni elementi collegati al significato spirituale dell’ Equinozio: un’ audacia, un entusiasmo, una gioia di vivere rinnovati che portano al desiderio di abbracciare nuove svolte e nuovi progetti. La positività, l’ apertura nei confronti degli altri, l’ evoluzione, l’ incremento della consapevolezza di sè. Vi auguro di far vostri questi input, e che possiate trascorrere un Equinozio di Primavera assolutamente speciale.

 

John William Waterhouse, “Gather ye rosebuds while we may”, 1909

John William Waterhouse, “A song of Springtime”

John William Waterhouse, “Spring spreads one green lap of flowers”, 1910

John William Waterhouse, “Persephone”, 1912

 

 

 

Foto: quinta immagine dall’ alto via Sofi, “Ida Rentoul Outhwaite, “Spring””, from Flickr, CC BY-NC 2.0