Le Frasi

 

“Quando da Ragazzina stavo molto nei Boschi, mi dicevano che il Serpente mi avrebbe morso, che avrei potuto cogliere un fiore velenoso, o che i Folletti mi avrebbero rapita, ma io andavo avanti e non incontravo nessuno tranne Angeli, che erano molto più timidi con me, di quanto io fossi con loro, così non ho quella confidenza con l’inganno che hanno tanti.”

(Emily Dickinson)

 

 

Buon Natale

 

” E così il pastore vide che l’uomo non aveva nemmeno una capanna: la donna e il bambino erano in una grotta, dove non c’era nient’altro che le nude e freddi pareti di roccia. Pensò che quel povero bambino innocente poteva morire congelato in quella grotta e, per quanto fosse un uomo duro, si commosse e gli venne voglia di aiutarlo. Si sciolse il sacco dalla spalla, tirò fuori una morbida e candida pelle di pecora e la diede al forestiero perchè ci facesse dormire dentro il bambino. Ma proprio nel momento in cui mostrò che anche lui poteva provare compassione, vide ciò che non aveva potuto vedere e sentì quel che non aveva potuto sentire prima. Vide che intorno a lui c’era un fitto cerchio di piccoli angeli dalle ali d’argento. Ognuno teneva in mano uno strumento a corda e tutti cantavano a voce spiegata che quella notte era nato il salvatore, che avrebbe redento il mondo dalle sue colpe. Allora capì che tutte le cose erano così felici quella notte che non volevano fare alcun male. E non era solo intorno a lui che c’erano angeli, li vide ovunque: seduti sulla grotta e sulla montagna e in volo sotto il cielo. Arrivavano a frotte e, passando, si fermavano a gettare un’ occhiata al bambino. C’era un tale giubilo, e gioia e canti e giochi, e tutto questo il pastore lo vide nella notte buia, dove prima non poteva distinguere nulla. Ed era così felice che i suoi occhi si fossero aperti che cadde in ginocchio e ringraziò Dio. “

Selma Lagerlof, da “La notte di Natale”

 

 

Il pupazzo di neve: storia di uno dei più giocosi simboli del Natale

 

«Fa così freddo che scricchiolo tutto» disse l’uomo di neve. «Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!» e intendeva il sole, che stava per tramontare. «Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte.» Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti. Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte. Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro. «Eccolo che arriva dall’altra parte!» disse l’uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo. «Gli ho tolto l’abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un’altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre.»

(Hans Christian Andersen, da “L’Uomo di Neve”)

 

E’ buffo, giocoso, e soprattutto…completamente bianco. Il che non sorprende, dal momento che è la neve a dargli forma. Emblema del Natale, ma anche dell’ Inverno, il pupazzo di neve rimanda alla gioia e alla spensieratezza. Esiste da tempi immemorabili, e definirlo solo un “pupazzo” sarebbe riduttivo: nel corso dei secoli, infatti, ha rivestito valenze molteplici e molto interessanti. Le sue radici risalgono al folklore del Nord Europa, dove i pagani lo assursero a simbolo della ciclicità naturale. Così come il seme, durante l’Inverno, riposa in attesa del risveglio primaverile, il pupazzo di neve “prende vita” con il freddo e si scioglie con il primo sole. Sappiamo tutti come sia fatto: il suo aspetto antropomorfo viene ottenuto collocando due o tre grandi palle di neve una sopra l’altra. Ma a quando risale, esattamente, la comparsa di questo personaggio? Lo scrittore, illustratore e cartoonist Bob Eckstein ne descrive le origini nel libro “La Storia del Pupazzo di Neve”. Secondo le sue ricerche, il candido emblema natalizio appariva già nel Medioevo.  In un manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale dell’ Aia, il “Libro delle Ore” (data di pubblicazione 1380), spicca infatti un disegno – un pupazzo di neve accovacciato davanti al fuoco – che lo vede protagonista. Nel 1494, persino Michelangelo ebbe a che fare con l’ “omino immacolato”. Dopo la morte di Lorenzo Il Magnifico, il suo mecenate, accettò una commissione di Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo) che gli chiese di realizzare una statua di neve. La scultura che Michelangelo creò per lui fu talmente strabiliante da farlo rientrare subito alla corte medicea. In alcune stampe del 1500, un pupazzo di neve viene attorniato da un girotondo di fanciulli. Nel XVI secolo, inoltre, l’ “uomo di neve” fu protagonista di un rilevante evento sociopolitico: il cosiddetto “Miracolo del 1511” di Bruxelles. L’ Inverno di quell’ anno fu particolarmente rigido, e il popolo, sfinito dal gelo e dall’ indigenza, ideò un metodo originale per scagliarsi contro l’aristocrazia e la Casa Reale. Creò oltre 100 pupazzi di neve con le loro fattezze, deformandole in un modo a metà tra il grottesco e il licenzioso. Fu una sorta di satira politica a base di neve. La popolarità dello “snowman”, come lo chiamano gli anglosassoni, raggiunse un vero e proprio boom durante l’ epoca vittoriana. Il Principe Alberto, che era un grande appassionato di tradizioni natalizie tedesche, importò l’ usanza del pupazzo di neve direttamente dalla Germania. Dal Regno Unito al resto del mondo il passo fu breve; l’ uomo di neve divenne una vera e propria icona del Natale, emblema di  speranza e dei piccoli piaceri che ci regala l’ Inverno. Libro di Eckstein a parte, una delle più suggestive testimonianze storiche che riguardano il pupazzo viene associata a San Francesco di Assisi.

 

 

Pare che il Santo – così, almeno, viene affermato in una parabola – adorasse i pupazzi di neve e ne incoraggiasse la realizzazione. Il fatto che la neve scendesse dal cielo la equiparava a un dono divino, come divino era il suo candore. Per San Francesco i pupazzi di neve erano degli autentici angeli, creature celesti che tenevano lontane le forze demoniache. Ma erano anche gli intermediari tra gli uomini e Dio, a cui trasmettevano le loro richieste. Vigeva l’ uso di ritrovarsi attorno a un pupazzo di neve per formulare desideri; si attendeva, poi, che si concretizzassero quando la neve si sarebbe sciolta con i primi tepori. Un’ antica leggenda narra invece che il pupazzo di neve sia un aiutante di Babbo Natale: è lui che si impegna affinchè la notte di vigilia nevichi, per creare un’atmosfera adeguatamente magica quando Santa Klaus va a consegnare doni con la sua slitta.

 

Oltre ad apparire in note pellicole americane (una su tutte “Jack Frost”, datato 1998, di Troy Miller), il pupazzo di neve è il protagonista principale di una celebre fiaba di Hans Christian Andersen, “L’uomo di neve”. Pubblicato nel 1861, il racconto è incentrato sul dialogo tra un pupazzo di neve e un vecchio cane. Tema principale è la condizione precaria sperimentata dal primo dei due, che diventa quasi una metafora della caducità della vita: ” Il sole ti insegnerà senz’altro a correre!”, dice il cane al pupazzo. ” L’ho già visto con il tuo predecessore dell’anno scorso, e con quello dell’anno prima. Via, via! e tutti ve ne andrete!”. Gli “uomini di neve” sono accomunati dalla stessa sorte, vivere d’Inverno per poi sparire sotto i raggi del sole. Ogni anno, nei mesi freddi, vengono creati pupazzi di neve destinati a sciogliersi e ad essere dimenticati. La situazione si ripete tutti gli Inverni, originando un ciclo perenne che presenta non poche similitudini con quello dell’ esistenza.

 

Immagini: seconda illustrazione dall’ alto, “A Merry Christmas” (1903), from the Miriam and Ira D.Wallach Division of Arts, Prints and Photographs. Picture collection by an unknown artist, original from The New York Public Library, digitally enhanced by Rawpixel. Terza immagine dall’ alto via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0 . Quarta immagine dell’ alto via snap713 from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

 

Lucia Bosè, nel blu degli Angeli

Lucia Bosè in “Accadde al Commissariato” (1954) di Giorgio Simonelli

Stento ancora a crederci, ma pare che il Coronavirus abbia stroncato anche la vita di una delle più amate attrici italiane: Lucia Bosè. La notizia, scioccante, purtroppo è assolutamente vera. Lucia Borloni – questo il suo nome all’ anagrafe – è scomparsa ieri a Segovia, in Spagna, a causa di una polmonite aggravata dal COVID-19. Aveva 89 anni. Recentemente ho letto la biografia che le ha dedicato Roberto Liberatori, scritta in stretta collaborazione con la diva, e devo dire che l’ho trovata appassionante. Della Bosè, lo confesso, conoscevo l’ essenziale: il celebre incontro con Luchino Visconti quando, giovanissima, lavorava in una pasticceria di Milano, la vittoria a Miss Italia nel 1947,  qualche film in bianco e nero dei suoi esordi (come “Le ragazze di Piazza di Spagna” di Luciano Emmer, datato 1952, che è stato oggetto di un remake televisivo per RAI 2), il matrimonio nel 1955 con Luis Miguel Dominguin, che chiamava “il torero” e che amò per tutta la vita nonostante la burrascosa separazione. Se in Italia era la musa di Visconti e lavorava con registi – Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Francesco Maselli – poi entrati negli annali della settima arte, in Spagna frequentava abitualmente Pablo Picasso, Ernest Hemingway e Jean Cocteau, assidui dell’ entourage del marito. Di Lucia Bosè mi rimane impresso il volto, intenso e luminoso: era un volto malleabile, che le permetteva di incarnare i più disparati ruoli nonostante la sua raffinatezza. Quando Luchino Visconti la vide per la prima volta alla Pasticceria Galli di Milano, dove la Bosè era stata assunta come commessa, ne rimase talmente colpito da dirle che in futuro avrebbe fatto del cinema. Lucia aveva solo 16 anni, ma la profezia del Maestro si avverò con tutti i crismi.

 

Con Ivan Desny ne “La signora senza camelie” (1953) di Michelangelo Antonioni

Quel volto fotogenico, su cui la luce si posava creando affascinanti giochi di bagliori e ombre, non può essere scordato. Sposando Dominguin Lucia Bosè scelse l’amore, privilegiò la famiglia e accantonò la carriera, ma dopo la separazione  – fu la prima donna a chiederla, nella Spagna ancora iper tradizionalista del 1967 – si accorse che non riusciva a rimanere lontana dal cinema. Tornò dunque sul set e lavorò fino al 2014, diretta da registi prestigiosi (Luis Bunuel, i fratelli Taviani, Federico Fellini, Mauro Bolognini, Liliana Cavani, Francesco Rosi, Ferzan Ozpetek…) e non necessariamente in ruoli da protagonista; l’ importante, era che un personaggio la conquistasse. Non aveva paura di imbruttirsi per esigenze di copione e si affidava volentieri a cineasti esordienti, se rimaneva intrigata da una sceneggiatura. Lucia era una donna forte, ribelle nel profondo e volitiva: nel 2000 realizzò il sogno di creare un Museo degli Angeli, all’ interno del quale ospitava opere d’arte a tema angelico. Lo allestì in Spagna, nel piccolo comune di Turégano, dove rimase attivo fino al 2007. Credeva nell’ Angelo Custode e persino il look che sfoggiava di recente, connotato dall’ immancabile chioma blu, aveva qualcosa di soprannaturale. Come Pablo Picasso, padrino di battesimo del suo primogenito Miguel (oggi popstar planetaria), anche Lucia Bosè ha avuto un “periodo blu”. Ma se per Picasso fu una fase decadente, inquieta e malinconica, la Bosè l’ha vissuto certamente come una rinascita, una riappropriazione di sè attraverso il trascendente. Adesso che è scomparsa, non ho dubbi su dove si trovi in questo momento: tra i suoi amati Angeli, le figure celesti di cui ha subito il fascino per una vita intera.

 

 

Merry Vintage Christmas

 

Natale non è Natale, senza un tocco vintage. La stessa iconografia di questa festa rimanda ad un passato divenuto mitico: il focolare acceso, Babbo Natale e la sua slitta di renne, le fiabe lette davanti al camino…quell’ atmosfera magica che tra luci, addobbi e pacchi regalo trasporta in una dimensione dove realtà e fantasia si intrecciano e le tradizioni si fondono con leggende che, in questo periodo, potrebbero persino risultare veritiere. Oggi, tra social e tecnologia padroneggiata a menadito, i bambini subiscono sempre di meno la fascinazione del Natale. Lo spirito a cui si associava un tempo, intriso di meraviglia e di stupore, però non è andato perso: lo testimoniano le cartoline di auguri d’antan ormai tramutatesi in preziosi oggetti da collezione. La prima ad uso commerciale apparve nel 1843, quando il businessman inglese Henry Cole commissionò ad un disegnatore 1000 Christmas Card da far stampare e da inviare ai propri cari.

 

 

Fu proprio durante l’età vittoriana che le cartoline natalizie conobbero un vero e proprio boom, propagatosi ulteriormente con lo sviluppo dell’ industrializzazione. All’ epoca soggetti come Babbo Natale, gli angeli, l’albero di Natale, i paesaggi innevati e soprattutto un’ infanzia felice, unita nell’ incantata attesa della vigilia, predominano, ma le illustrazioni variano anche a seconda delle tradizioni locali. Nel mondo anglossasone, dove i cardini delle festività natalizie si intersecano più marcatamente con la leggenda, prevalgono immagini e personaggi fantasiosi, come usciti da una fiaba. Ma in generale la gioia, la sorpresa e un pizzico di enigmaticità, probabilmente scaturita dal mistero che aleggia sul Natale, la fanno da padrone. Nella seconda metà dell’ Ottocento, la voga delle Christmas Card approda oltreoceano e spedire i propri auguri diventa un must al punto tale che i postini faticano a recapitare la copiosa corrispondenza. La Germania detiene allora la supremazia nella produzione di cartoline natalizie, che esporta negli States in quantità industriali. Solo nel 1915, con l’avvento sul mercato della Hallmark, le Christmas Card diventano una realtà in tutto e per tutto Made in USA.

 

 

Oltre un secolo dopo, il panorama degli auguri natalizi è completamente cambiato. L’ era di Internet e delle comunicazioni via e-mail o messaggistica, tuttavia, non ha relegato nel dimenticatoio le cartoline: saranno antichi reperti, testimonianze di un’ epoca ormai lontana, però non cesseranno mai di affascinare. Perchè possiedono lo straordinario atout di rappresentare la quintessenza del Natale, ovvero quel mood, quello stato d’animo che poco ha a che fare con la tecnologia ma molto, moltissimo, con la fiaba.

 

 

 

Cartoline, dall’ alto verso il basso: eccetto le nn. 3, 7, 8, 9, 11, 14, 16, 18, 22, tutte via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

Cartolina n. 17 via Rawpixel from Flickr, CC BY 2.0