Lumere, Lumazze e Morte Secche: le Jack O’lantern della tradizione italiana

 

Ad Halloween le ombre sono diverse dal solito, gli spaventi ti prendono all’improvviso, le zucche sorridono e i pensieri trasgrediscono ogni regola.
(Fabrizio Caramagna)

 

Sapevate che la tradizione della zucca intagliata di Halloween (“Jack O’lantern”) non appartiene esclusivamente ai paesi anglosassoni? Il simbolo per eccellenza della notte del 31 Ottobre, in realtà, ricorre anche nel folklore italiano: la ritroviamo in Liguria, in Toscana, nel Lazio del nord e in tutta la Padania, dal Piemonte all’Emilia passando per il Veneto e la Lombardia. Non dimentichiamo che la festa di Samhain (poi sostituita dalla Chiesa cattolica con le solennità di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti) rappresentava il Capodanno celtico, e quando i Celti migrarono nella penisola italica si stanziarono nelle suddette regioni prima di spingersi fino a Roma. Riguardo a Samhain, che in Italia prese il nome di Samonio, su VALIUM trovate un gran numero di articoli. Oggi, invece, accenderemo i riflettori sulla zucca intagliata. Emblema della connessione tra il mondo visibile e invisibile che si instaurava nella notte di Samhain, la Jack O’lantern giunse addirittura ad avere un suo corrispettivo italiano, la lümera della Padania. Non sono pochi gli studi che hanno rinvenuto similitudini tra la zucca intagliata, illuminata da una candela, e un teschio. Gli occhi enormi, il naso appena accennato e la bocca sdentata ne replicavano le fattezze per farsi scherno della morte: era un modo per esorcizzarla mettendola in ridicolo.

 

 

Il rapporto che i Celti avevano con la morte era privo di qualsiasi indizio di drammaticità. Alla fine della vita si guardava con serenità, paura e tristezza erano emozioni che non avevano nulla a che fare con il sonno eterno. Samhain, infatti, nonostante i defunti avessero libero transito nel mondo dei vivi, era una festa giocosa. I Celti conferivano una forte valenza simbolica al teschio: ritenevano che la testa fosse la sede dell’anima e conservavano il capo reciso del nemico più ardito che avevano affrontato in battaglia, poichè pensavano che avesse la capacità di infondere in loro i suoi pregi e il suo valore. Ai teschi e alle teste tagliate veniva tributato un enorme rispetto, una sorta di adorazione; in questo modo, avrebbero irradiato un’energia benefica e incrementato le loro attitudini divinatorie. L’utilizzo ironico e gioioso che a Samonio veniva fatto dei teschi, di conseguenza, implicava l’utilizzo obbligato delle zucche, che ne erano la rappresentazione.

 

 

La Lümera padana

Le zucche intagliate a mò di teschio, illuminate dall’interno con una candela, nelle aree padane vengono chiamate Lümere. Il loro utilizzo era legato prevalentemente alla festa dei Morti e alla vigilia di Ognissanti, ma in determinate zone la tradizione anticipava o prolungava di diverse giorni il rito delle Lümere: sono noti casi in cui le zucche illuminate si preparavano già alla fine di Settembre e rimanevano in uso fino all’Epifania. A realizzarle erano i bambini, guidati dai nonni o comunque dagli anziani della famiglia. Ma a cosa servivano, di preciso, le Lümere? Innanzitutto a spaventare, a fare scherzi. I giovani erano soliti collocarle nei cimiteri, ai bordi dei sentieri, sempre e solo nei luoghi più bui. Oppure le infilzavano a dei bastoni e bussavano di casa in casa, dando vita a burle che oggi chiameremmo “prank”. Altrimenti, organizzavano vere e proprie processioni, avvolti in spettrali mantelli bianchi e reggendo la Lümera tra le mani.

 

 

Delle Lümere, però, non veniva fatto solo un uso goliardico: nelle notti del 31 Ottobre e del 1 Novembre, venivano poste in prossimità delle chiese e dei cimiteri per far luce alle anime dei defunti che transitavano tra l’aldilà e il mondo terreno. Avevano anche una funzione ornamentale, la stessa che hanno oggi. La vigilia di Ognissanti decoravano davanzali, muretti, portoni e balconi; ogni famiglia sceglieva le zucche accuratamente, anche in base alle dimensioni, perchè le più grandi erano riservate alle porte d’ingresso. Nel bresciano e nel canavese, la tradizione prevedeva che pendessero dai rami degli alberi. Nel Friuli si utilizzavano tante zucche quanti erano i morti che si desiderava omaggiare, e le candele al loro interno dovevano ardere tutta la notte affinchè la polpa del frutto si ammorbidisse e potesse nutrire il defunto. Oppure, in ogni zucca si inseriva una lettera per i defunti della famiglia; la mattina dopo era d’obbligo verificare se le anime erano effettivamente entrate in casa.

 

 

I nomi

I nomi delle zucche intagliate variano di zona in zona. Se in Piemonte, Lombardia e Emilia sono state battezzate Lümere, i veneti le chiamano Lumere o Suche Baruche. In provincia di Rovigo e in Romagna vengono denominate Lumazze, a Biella Teste da Mort, in Toscana le Morte Secche: l’antica simbologia celtica relativa alle zucche di Samonio riaffiora prepotentemente.

 

 

La Morte Secca toscana

Il cosiddetto “gioco dello zozzo” era tipico della cultura agreste toscana: tra il mese di Agosto e il mese di Ottobre si usava intagliare una zucca dotandola di occhi, naso e bocca, poi la si illuminava accendendo una candela al suo interno. La zucca veniva posizionata all’esterno della casa, in giardino oppure su un muretto, dove era più facile darle l’aspetto della testa di un mostro. A questo scopo venivano aggiunti degli abiti, o qualche straccio, per simulare l’esistenza di un corpo. Non restava che aspettare che calassero le tenebre per organizzare qualche scherzo, spaventando a morte chiunque si trovasse a passare di lì. Nel Lazio settentrionale vigeva un gioco simile che pare risalisse all’ Ottocento: la zucca intagliata, in questo caso, veniva chiamata La Morte; un nome a dir poco significativo, in virtù di quanto abbiamo appreso finora. Felice Halloween a tutti!

 

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Le Frasi

 

“Beato chi dimentica la ragione del viaggio e nella stella, nel fiore, nelle nuvole, lascia la sua anima.”

(Antonio Machado)

 

 

Le Fave dei Morti, il tradizionale dolce marchigiano per i defunti: origini, storia, simbologia e ricette

 

In occasione delle ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, celebrate rispettivamente l’1 e il 2 Novembre, in Italia si usa preparare i cosiddetti “dolci dei morti”. Si tratta di dolcetti tradizionali preparati con ingredienti semplici e frugali, spesso a base di mandorle, diffusi in tutte le regioni della penisola: possono essere dei biscotti, la cui forma rimanda di frequente alle ossa umane (le “Ossa dei Morti” sono popolarissime in Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia, nel senese e nelle Marche),  delle specifiche tipologie di pane e di panini (rintracciabili in Trentino, Maremma, Sicilia e Lombardia), dei prodotti di pasticceria a base di marzapane (per esempio le “Dita di Apostolo” e la “Frutta di Martorana” della tradizione calabrese e siciliana), oppure varianti del torrone come il tipico “Torrone dei Morti” napoletano. Voglio soffermarmi, però, su un dolce caratteristico della mia regione, le Marche, oltre che di regioni del centro Italia quali il Lazio, l’Umbria e l’ Emilia Romagna: le “Fave dei Morti”.

 

 

Sono dei biscotti dalla forma generalmente ovale o tondeggiante, simili agli amaretti ma solo nell’ aspetto. Il denominatore comune di tutte le versioni, che differiscono a seconda della zona di provenienza, sono le mandorle tra gli ingredienti principali. Ma perchè il nome “Fave dei Morti”, e come è nata questa tradizione? Pare che l’usanza abbia avuto origine dall’antichissima credenza secondo cui i defunti, tra l’1 e il 2 Novembre, tornassero nel mondo dei vivi. In quell’occasione, veniva organizzata per loro un’accoglienza all’insegna della dolcezza. Ogni famiglia, all’epoca, manteneva ben saldo il legame con i propri antenati e ne onorava il ricordo costantemente. I dolci preparati durante le festività dei Morti, dunque, venivano offerti a questi ultimi (oltre che a tutti i familiari) per celebrare il loro ritorno dall’ aldilà. Bisogna innanzitutto precisare che la ricetta delle “Fave dei Morti” non ha niente a che vedere con le fave: in tempi remotissimi, questo legume era considerato un tramite tra l’Ade, il regno dei morti, e il mondo tangibile.  La fava veniva associata all’ oltretomba in tutta l’area del Mediterraneo. Gli antichi Romani, ad esempio, erano soliti omaggiare con delle fave il dio dei Morti e le consideravano un emblema delle anime dei defunti. Secondo alcuni studiosi, la fava assunse questa valenza simbolica in virtù del suo fiore: i petali candidi esibiscono una macchia nera che fu paragonata alla T di “Thanatos”, dal greco θάνατος ovvero “Morte”; lo stelo, inoltre, è lineare e ha radici che si sviluppano in profondità nel terreno. Entrambi i dettagli vennero interpretati come l’indizio di un collegamento tra la fava e l’aldilà, poichè si pensava che l’Ade fosse collocato nelle viscere del suolo.

 

 

Per certi popoli, l’anima dei defunti si celava proprio all’ interno della fava, e calpestarne qualcuna in un campo rappresentava un autentico sacrilegio; mangiare fave, al contrario, significava stabilire una connessione con una persona passata a miglior vita. Erano molti i rituali che rinsaldavano il nesso tra le fave e il regno dei Morti. Si usava, ad esempio, offrirle in dono a un defunto depositandole sulla sua tomba. Queste pratiche, non di rado, erano impregnate di superstizione. Per far sì che i trapassati riposassero in pace, si cospargevano di fave i loro sepolcri. Lanciare fave dietro le proprie spalle recitando litanie propiziatorie aveva, invece, una funzione redentrice. Durante i banchetti funebri, le fave costituivano la pietanza principale: quelle cotte erano riservate ai benestanti, mentre i poveri dovevano accontentarsi delle fave crude. Con l’avvento del Cristianesimo, il legame che associava la fava all’Ade non venne mai meno. Tra il 900 e l’anno 1000, l’abate benedettino Odilone di Cluny promulgò una riforma atta a far coincidere la Commemorazione dei Defunti con il lasso di tempo compreso tra i vespri del 1 Novembre e l’eucarestia del giorno seguente. Per permettere ai monaci di pregare tutta la notte, l’abate lasciava loro un gran numero di fave con cui sfamarsi. In occasione delle solennità dei Morti, inoltre, i poveri potevano usufruire di ciotole di fave poste ad ogni angolo di strada. Con Odilone di Cluny questo legume divenne cibo di precetto, ma diversi secoli dopo fu sostituito dai golosi dolcetti battezzati “Fave dei Morti”. I biscotti a base di mandorle, con la loro forma tondeggiante, simboleggiavano alla perfezione il viaggio di sola andata che l’anima compie verso il sonno eterno. In Umbria, non a caso, le Fave dei Morti venivano vendute nelle bancarelle che il 2 Novembre si posizionavano proprio accanto ai cimiteri.

 

 

La preparazione delle Fave dei Morti è piuttosto semplice: gli ingredienti principali sono le mandorle (pelate) e lo zucchero bianco, a cui si aggiungono la farina, il burro, la scorza di limone, i tuorli d’uovo e la cannella in polvere. Per l’impasto esistono diverse versioni; una di queste prevede che le mandorle e lo zucchero vengano pestati a parte, insieme, per poi essere uniti agli altri ingredienti. Un’altra ricetta suggerisce di mescolare la farina, le mandorle tritate, lo zucchero e il burro tagliato a pezzetti aggiungendo subito dopo la scorza di limone grattugiata, la cannella e le uova sbattute. A questo punto si ottiene un impasto morbido che va suddiviso in palline da cuocere in forno, a 180 gradi, per un quarto d’ora. Se le versioni delle Fave dei Morti sono molteplici, comunque, il risultato è unico: una delizia garantita.

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Halloween e le sue tradizioni: dalle torte dell’anima al “Trick or Treat”

 

Il conto alla rovescia per Halloween è già iniziato: tutti ne parlano, gli eventi si moltiplicano, negozi e supermercati strabordano di zucche intagliate o da intagliare. Ma le tradizioni associate all’antico Capodanno Celtico non si limitano alla famosissima Jack-o’-lantern. Sapevate, ad esempio, dell’esistenza della soul cake? Questa “torta dell’ anima”, tondeggiante e ricca di spezie, ha le sembianze di un grande biscotto. Una croce la suddivide in quattro parti: può essere incisa sul dolce con il coltello oppure creata con una manciata di uvette, e in entrambi i casi simbolizza la sua valenza mistica. Le soul cakes sono nate nel Medioevo in Gran Bretagna e in Irlanda. Inizialmente le si preparava per i defunti, giacchè si credeva che sarebbero tornati a far visita ai vivi alla vigilia di Ognissanti (quindi ad Halloween o, come lo chiamavano gli antichi Celti, Samhain). Poi, però, prese piede una nuova consuetudine. Le soul cakes vennero destinate ai soulers, i questuanti che a Samhain bussavano di porta in porta cantando e dichiarando che, in cambio di un “dolce dei morti”, avrebbero recitato preghiere per i defunti. I soulers, in genere bambini o persone indigenti, venivano ricompensati con le torte dell’anima: si pensava che ogni torta mangiata avrebbe liberato un’anima dal Purgatorio.

 

 

L’a-souling era una tradizione molto simile al wassailing e ai Christmas Carols, due cardini del folclore britannico. Queste usanze si basavano sui canti natalizi porta a porta: la prima contemplava che i cantori portassero con sè una coppa beneaugurale di wassail (sidro di mele con spezie); la seconda, sorta in età vittoriana, vedeva protagonisti soprattutto i benestanti impegnati nel sociale, che grazie ai loro canti raccoglievano denaro per i poveri. I soulers, invece, in cambio delle torte dell’ anima recitavano preghiere. Ma come si preparavano, le soul cakes? Le loro varianti erano innumerevoli, accomunate però da un abbondante ripieno di spezie: non mancavano la noce moscata, lo zenzero, la cannella, il pimento, lo zafferano, mentre l’uvetta veniva utilizzata per le guarnizioni. La croce che le contraddistingueva era fondamentale, stava ad indicare che i dolci erano opere di bene. Le torte dell’ anima venivano impastate il giorno di Halloween e il 2 Novembre, solennità della commemorazione dei defunti. Il souling, invece, si praticava sia in occasione di queste date che nel periodo natalizio. E’ molto probabile che dall’usanza derivi il contemporaneo “Trick or Treat”, “dolcetto o scherzetto”, la frase pronunciata dai bambini ad Halloween nel corso della loro questa di caramelle. Verso la fine del XIX secolo, la tradizione del souling e delle torte dell’anima andò scemando. Alle porte delle case, ormai, bussavano perlopiù fanciulli ai quali si regalavano delle mele o qualche scellino.

 

 

I canti dei soulers, le cosiddette souling songs, per la loro particolarità e bellezza furono accuratamente trascritti nel corso dei secoli, mantenendo viva una tradizione di spicco del folklore inglese. E le soul cakes? Ho una buona notizia per voi: continuano ad essere preparate. Non sono destinate a una questua, ma con la loro valenza simbolica rendono Halloween ancora più speciale.

 

 

Foto: Yaroslav Shuraev via Pexels

Foto delle Soul Cakes: Samantha from Haarlem, Netherlands, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 

Il fatato santuario dei libri

 

“Per strada si udivano solo i passi di qualche guardia notturna. I lampioni delle ramblas impallidivano accompagnando il pigro risveglio della città, pronta a disfarsi dalla sua maschera di colori slavati. All’altezza di calle Arco del Teatro svoltammo in direzione del Raval, allora Barrio Chino, passando sotto l’arcata avvolta nella foschia, e percorremmo quella stradina simile a una cicatrice, allontanandoci dalle luci delle ramblas mentre il chiarore dell’alba cominciava a disegnare i contorni dei balconi e dei cornicioni delle case. Mio padre si fermò davanti a un grande portone di legno intagliato, annerito dal tempo e dall’umidità. Di fronte a noi si ergeva quello che a me parve il cadavere abbandonato di un palazzo, un mausoleo di echi e di ombre. “Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno. Neppure al tuo amico Tomàs. A nessuno.” Ci aprì un ometto con la faccia da uccello rapace e i capelli d’argento. Il suo sguardo si posò su di me, impenetrabile. “Buongiorno, Isaac. Questo è mio figlio Daniel” disse mio padre. “Presto compirà undici anni, e un giorno manderà avanti il negozio. Ha l’età giusta per conoscere questo posto.” Isaac ci invitò a entrare con un lieve cenno del capo. Dall’atrio, immerso in una penombra azzurrina, si intravedevano uno scalone di marmo e un corridoio affrescato con figure di angeli e di creature fantastiche. Seguimmo il guardiano fino a un ampio salone circolare sovrastato da una cupola da cui scendevano lame di luce. Era un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalla geometria impossibile. Guardai mio padre a bocca aperta e lui mi sorrise ammiccando. “Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.” Sui ballatoi e sulle piattaforme della biblioteca scorsi una dozzina di persone. Alcune si voltarono per salutarci: riconobbi alcuni colleghi di mio padre, librai antiquari come lui. Mio padre si chinò su di me e, guardandomi negli occhi, mi parlò con il tono pacato riservato alle promesse e alle confidenze. “Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e chi ha sognato grazie ad esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l’ha creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’ oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?” Il mio sguardo si smarrì nell’immensità di quel luogo, nella sua luce fatata. Annuii e mio padre sorrise.”

Carlos Ruiz Zafòn, da “L’ombra del vento” (Mondadori)

 

Le Frasi

 

Quando ammiro le meraviglie di un tramonto o la bellezza della Luna, la mia anima si espande nel culto del Creatore. “
(Mahatma Gandhi)

 

 

Le Frasi

 

“Beato chi dimentica la ragione del viaggio e nella stella, nel fiore, nelle nuvole, lascia la sua anima.”

(Antonio Machado)

 

 

Lo spirito del duende

 

“Chi si trova sulla pelle di toro che si stende tra lo Jùcar, il Guadalfeo, il Sil o il Pisuerga (non voglio menzionare grossi corsi d’acqua vicino alle onde color criniera di leone agitate dal Plata), sente dire con relativa frequenza: “Questo ha molto duende”. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: “Hai voce, conosci gli stili, ma non avrai mai successo perchè non hai duende“. In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén o conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo riconosce con istinto efficace non appena compare. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “I giorni in cui canto con duende, non mi supera nessuno”; un giorno sentendo Brailowsky che suonava un frammento di Bach, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò “Olé! Questo sì che ha duende“, e si annoiò con Gluck e con Brahams e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l’uomo con più cultura nel sangue che io abbia mai conosciuto, quando ascoltò Falla in persona che eseguiva il suo Nocturno de Generalife, disse questa splendida frase: “Tutto quel che ha suoni neri ha duende”. E non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse l’uomo popolare di Spagna, e si trovò d’accordo con Goethe, che offre una definizione del duende quando parla di Paganini, e dice: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Ebbene, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi”. Vale a dire, non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura e, al contempo, di creazione in atto. Questo “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega è, in definitiva, lo spirito della Terra, lo stesso duende che infiammò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende che egli inseguiva aveva spiccato un salto dai misteri greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido sgozzato della siguiriya di Silverio. Ebbene, non voglio che nessuno confonda il duende con il demone teologico del dubbio, contro il quale Lutero, con sentimento bacchico, scagliò una boccetta di inchiostro a Norimberga, nè con il diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, nè con la scimmia parlante che porta con sè il Malgesì di Cervantes nella Comedia de los celos y la selva de Ardenia. No. Il duende di cui parlo, oscuro e trepidante, è un discendente di quell’ allegrissimo demone di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno in cui bevve la cicuta, e dell’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come una mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e linee, andava sui canali per sentir cantare i grandi marinai indistinti.”

Federico Garcìa Lorca, da “Gioco e teoria del duende”

 

 

Che cos’è il “duende”, un termine che riecheggia costantemente nella cultura andalusa? Ho lasciato ampio spazio alla definizione di Federico Garcìa Lorca, esauriente e significativa. Perchè spiegare il duende a parole non è facile. Lo si associa di frequente al flamenco: un ballo che è puro pathos, una potente quanto autentica espressione di emozioni; in grado di suscitare stati d’animo molto intensi e una vibrante partecipazione. Il duende cattura lo spettatore con una travolgente miscela di passione, evocatività, carisma, feeling in dosi massicce. Un artista che ha duende tocca le corde della tua anima ed è capace di darti i brividi, di trascinarti nel vortice della sua straordinaria, innata abilità espressiva.

 

 

Il duende, per Garcìa Lorca, è lo spirito della terra: un potere misterioso e profondo che parte dalle viscere. E’ amore e morte, tragedia e commedia, scorre nel sangue ed ha radici antichissime. Il suo legame con il folklore andaluso è inscindibile. Basti pensare che se ne rinvengono le prime tracce nel “Cante Jondo”, lo straziante canto di matrice gitana accompagnato dalla chitarra. Le influenze arabe e persiane sono molteplici, affiancate a vocalizzi ancestrali e della tradizione liturgica bizantina. D’altronde, nel corso dei secoli, in Andalusia si sono avvicendate e fuse innumerevoli culture. “Tener duende” non ha nulla a che fare con i virtuosismi, con un’ esecuzione perfetta. E’ una passione che arde dentro, una dote quasi sacrale.

 

 

Ma perchè oggi pubblico queste riflessioni sul duende? E’ molto semplice: sono l’introduzione ad un articolo che vedrà protagonista l’Andalusia, in particolare un tema specifico inerente questa affascinante regione della Spagna del Sud. Stay tuned su VALIUM per saperne di più…

 

 

Foto della “bailaora” sotto il testo di Federico Garcia Lorca: Imbi24, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Ricordi

 

” Questo luogo non ha mai avuto alcun rapporto né con me né con i miei antenati, ma chissà che un giorno non nasca fra noi uno stretto legame, un legame che si manterrà vivo per tutta la mia discendenza. Pensavo a ciò mentre salivo gli stretti scalini di pietra ricoperti di muschio sul retro della casa. Quella scalinata conduceva a uno spiazzo di circa sedici metri quadrati che non poteva essere sfruttato in altra maniera se non come punto panoramico. Ogni volta che venivo qui in cerca di solitudine, il silenzio a poco a poco mi penetrava nell’anima, liberava la mia mente da ogni pensiero, lasciando spazio solo alla bruciante nostalgia del passato. Di lassù era possibile cogliere con un solo sguardo la baia stretta dalla catena di montagne che accoglieva nel suo seno il villaggio sottostante. Al mattino e alla sera, dal molo situato ai margini partiva un piroscafo che collegava il paese con una grande città, l’irritante fischio del vapore si sentiva distintamente anche da qui. La sera il battello illuminato, piccolo quanto un ditale, puntava tenacemente al mare aperto. Osservando il tremolio delle sue luci, minuscole come la punta accesa di una bacchetta d’incenso, non potevo fare a meno di innervosirmi per la sua lentezza. Riflettevo spesso sui ricordi. Essi mi apparivano come oggetti insignificanti, di nessuna utilità, non altro che il guscio tolto alla vita trascorsa. A volte li scambiavo per gustosi frutti protesi verso il futuro, ma in realtà non erano altro che l’effimero conforto di esseri senza vigore, smarriti nel presente. Queste affermazioni così avventate, tipiche di una febbrile giovinezza, risalgono ad alcuni anni fa, quando molti pregiudizi influenzavano ancora i miei pensieri. Presto passai a riflessioni del tutto diverse. I ricordi diventarono per me la prova più essenziale del “presente”. Sentimenti come l’amore, la devozione, erano troppo duri perché riuscissi a individuarli nella realtà quotidiana, così avevo bisogno dei ricordi per riconoscerli, per capirne il giusto significato. I ricordi erano una sorgente che avevo trovato spostando mucchi di foglie, una sorgente che finalmente rispecchiava la volta celeste. “

Yukio Mishima, da “La foresta in fiore”