Solstizio d’Estate: rituali e tradizioni in giro per il mondo

 

Solstizio. Il tempo sembra fare una sosta e guardarsi intorno in una sospensione di luce.
(Fabrizio Caramagna)

 

L’estate arriva oggi, un giorno prima rispetto al 21 Giugno, esattamente alle 22.51. E pare che dal lontano 1796 il Solstizio non fosse mai caduto così in anticipo: stiamo parlando di ben 228 anni fa! Nell’emisfero boreale inizia l’estate astronomica, i raggi del sole sono posizionati perpendicolarmente al Tropico del Cancro e l’astro infuocato risplende alla massima altitudine. E’ il giorno più lungo dell’ anno: in Italia avremo dalle 14 e mezzo alle 16 ore di luce consecutive. Il Solstizio d’Estate rappresenta, fin da tempi remotissimi, una delle date più importanti e festeggiate dell’anno. Non è difficile immaginare il perchè: la potenza solare è al suo apice, emana un’energia che ha a che fare con la vita stessa. La natura esplode rigogliosa, è tempo di raccolto, che per gli antichi popoli costituiva il sostentamento quotidiano. Ho parlato con dovizia di particolari, negli anni scorsi, del Solstizio d’Estate e delle sue caratteristiche: per rileggere l’articolo del 2023, cliccate qui. Oggi, invece, andremo alla scoperta di come Litha (così i pagani chiamavano il sabbat che celebravano il 21 Giugno) viene celebrato in alcuni paesi del mondo.

 

 

In tutte le culture, il Solstizio d’Estate è una data fortemente connessa con il Sole, la vita e la natura (che sono infatti un tutt’uno). I festeggiamenti più comuni riguardano l’accensione dei falò, simboli solari che esaltano il vigore dell’astro e hanno una funzione beneaugurante e purificatoria. L’energia del Sole, per gli antichi popoli, si concentrava nelle “ley lines”, le linee temporanee che congiungono luoghi ed elementi dall’importante valenza mistica. Ciò valeva anche per i dolmen, i mehir e i cerchi di pietre, monumenti in cui rientrano i megaliti di Stonehenge: il giorno del Solstizio i cristalli di caricano di energia solare, e le pietre di Stonehenge, ricche di quarzo, sono direttamente coinvolte in questo fenomeno. Ecco perchè miriadi di moderni druidi e persone comuni si ritrovano ogni anno nel sito neolitico dello Weltshire, in Inghilterra, per ammirare l’alba del Solstizio.

 

 

Il Sole sorge sempre sulla Heel Stone, il megalito più massiccio che dista circa 75 metri dal complesso di pietre, e in inverno tramonta nello stesso punto. Nei paesi del Nord Europa si celebra la Mezza Estate (Midsommar), e i festeggiamenti vanno dal 21 al 25 Giugno: un periodo che include sia il Solstizio d’Estate che la ricorrenza di San Giovanni Battista. In Svezia, nelle zone rurali, le celebrazioni raggiungono l’apice tra tavolate all’aperto, bevande e cibo a volontà; tra le pietanze tradizionali troviamo le aringhe, le uova sode, le patate novelle bollite, il knäckebröd (un tipico pane croccante) spalmato di formaggio e fragole in abbondanza come dessert. Il clou della festa sono però i balli intorno al palo adornato di ghirlande floreali, il Midsommarstång , un rito antichissimo (pare che risalga al 1500) finalizzato a propiziare la fertilità della terra.

 

 

Un altro rituale immancabile nei paesi scandinavi è rappresentato dagli enormi falò che vengono accesi alla vigilia dei festeggiamenti. Come in molte altre località, i fuochi tengono a debita distanza le entità malvagie e sono di buon auspicio per il raccolto. La particolarità dei falò scandinavi è quella di ardere in prossimità dei laghi, dei fiumi o del mare, creando un effetto di immensa suggestività. In Finlandia, la Mezza Estate è la festa nazionale di maggior rilevanza. Viene considerata la “notte bianca” per eccellenza e si celebra in campagna: il sole di mezzanotte la dota di un scenario straordinario. Un tempo era comune sposarsi in queste date o compiere incantesimi inneggianti all’amore e alla fecondità. Molto importante era anche (e lo è tuttora) bere e gozzovigliare, poichè si pensava che il rumore spaventasse gli spiriti maligni e aprisse le porte alla fortuna. Oggi, all’ antico rito dei falò si alternano la sauna, le danze, le grigliate all’aria aperta e le gite in barca.

 

 

In Spagna le celebrazioni del Solstizio coincidono con la festa di San Giovanni Battista, e come in Italia le tradizioni della vigilia sono numerosissime: la principale riguarda l’accensione dei falò, che hanno una funzione purificatoria per l’esteriorità e l’interiorità di ognuno. Saltare sopra le fiamme è altamente beneaugurante. Più volte si salta, meglio è; farlo tre volte di seguito garantisce buona sorte fino alla fine dell’anno. Un altro rituale vede invece protagonista l’acqua, nello specifico quella dell’oceano: l’usanza del bagno di mezzanotte mira a scacciare le entità malvagie “annegandole” tra le onde.

 

 

A proposito di oceano, un’interessante cerimonia tradizionale si tiene al di là dell’Atlantico, precisamente in Bolivia: sulla Isla del Sol, collocata nel lago Titicaca, il popolo Quechua organizza festeggiamenti a base di danze e musiche tradizionali. Risuonano i tamburi, si espande l’ipnotica melodia del siku (un tipico strumento a fiato andino simile al “flauto di Pan”), si eseguono riti che omaggiano la Pachamama – in quecha “Madre Terra”,  venerata da tutti gli indigeni delle Ande – e inneggiano alla sua fertilità.

 

 

Ritorniamo dall’altra parte dell’oceano, dove in paesi dell’Est come la Polonia, la Bielorussia, la Russia, la Lituania e l’Ucraina il Solstizio si celebra la notte di Ivan Kupala, San Giovanni Battista, ovvero tra il 23 e il 24 Giugno per chi segue il calendario gregoriano. E’una festa molto sentita che include diversi rituali: tutte le donne indossano una corona di fiori, si accendono falò e ci si approvvigiona di erbe magiche, proprio come da noi. Anche in questo caso, il fuoco e l’acqua rivestono dei ruoli fondamentali. Il primo ha soprattutto una funzione divinatoria: secondo la tradizione, le coppie di fidanzati devono saltare sulle fiamme tenendosi per mano; se dopo il salto le loro mani rimangono unite, sono fatti l’uno per l’altra. Nell’acqua, invece, si gettano le corone di fiori delle donne, che a conclusione della festa vengono lasciate galleggiare lungo il fiume. Ma la notte di Ivan Kupala l’acqua la fa davvero da padrone: molti giovani la utilizzano per fare scherzi o bagnare le persone che passano per strada.

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Le uova colorate: un’antica tradizione pasquale tra leggenda, simbologia e sacralità

 

L’uovo è il simbolo pasquale per eccellenza. Sin da tempi remotissimi ha rappresentato la vita, il cardine dei quattro elementi, la fertilità, la rinascita. Regalare uova in occasione dell’arrivo della Primavera era una tradizione diffusa tra molti antichi popoli pagani. I Persiani, così come gli Egizi, i Greci e i Cinesi solevano scambiarsi uova di gallina per festeggiare la rinascita della natura, e non era raro che si trattasse di uova decorate manualmente. Con l’avvento del Cristianesimo, questa simbologia venne sostituita da quella prettamente associata alla Resurrezione: in Mesopotamia, tra i cristiani era d’uso donarsi uova tinte di rosso per rievocare il sangue di Cristo Crocifisso. La Chiesa Cattolica considerava l’uovo un emblema perfetto del Cristo che risorge. Esternamente, infatti, l’uovo somiglia alla pietra di un sepolcro, è freddo e inanimato; al suo interno, invece, germoglia la vita. Con questo significato, nel Medioevo, le uova si tramutarono in un tradizionale dono pasquale. Ma come ebbe inizio l’usanza di colorarle? Per tingerle delle tonalità più svariate, era comune farle bollire avvolte in delle foglie o insieme ai petali di certi fiori.

 

 

Tra i ceti aristocratici, nello stesso periodo storico, era molto in voga regalare uova interamente costruite in oro, platino o argento, oppure rivestite di questi metalli preziosi. Il popolo, tuttavia, adottò l’abitudine di colorare le uova anche per ragioni pratiche: durante la Quaresima, infatti, quando era proibito mangiare carne e prodotti di origine animale, le famiglie usavano bollire le uova per conservarle fino alla fine del digiuno; tingerle di vari colori si rivelava utile ai fini di distinguerle dalle uova crude. Tornando alla tradizione pasquale, le tonalità tipiche erano il giallo, il rosso, il marrone, il verde e il nero, che era possibile ottenere tramite coloranti naturali. Nei paesi dei Balcani e ortodossi, la millenaria usanza delle uova colorate è giunta fino ad oggi. Le uova, bollite, sono rosse a simboleggiare la Passione, ma di recente sono state introdotte anche altre cromie. Il pasto viene poi consumato a Pasqua e Pasquetta. Parlando di uova rosse, è interessante sapere che in Primavera, nella Roma antica, era abitudine sotterrarle nei campi affinchè fossero di buon auspicio per il raccolto. Esiste anche una leggenda, riguardante le uova tinte di questo colore.

 

 

Si narra che Maria Maddalena, quando scoprì che Cristo era risorto, corse a dare la bella notizia a tutti i suoi discepoli. Nessuno di loro, però, prestò fede alle parole della donna, e Pietro le disse che l’avrebbe creduta solo se le uova che portava con sè in un cestello si sarebbero tinte di rosso. Così avvenne: come per miracolo, tutte le uova di Maria Maddalena diventarono rosse in un batter d’occhio.

 

 

Oggigiorno, con la supremazia delle uova di cioccolato, la tradizione delle uova di gallina colorate è sempre viva, anche se un po’ in ribasso. Negli stati di fede ortodossa, tuttavia, permane in tutto il suo fulgore originario: le uova sode, tinte con coloranti alimentari, in questi paesi rappresentano un po’ una risposta al boom dell’uovo di cioccolato, che viene generalmente associato a connotazioni più consumistiche.

 

Foto di Roman Odintsov via Pexels

 

Torna la Luna del Lupo, un plenilunio dal sapore antico

 

Ogni anno, a Gennaio torna puntuale: è la prima luna piena dell’anno ed è stata ribattezzata, non a caso, “Luna del Lupo”. Anticamente, infatti, l’ululato dei lupi era una costante nelle gelide notti invernali. Rompeva il silenzio delle lande innevate quando, al calar del buio, le famiglie si riunivano intorno al focolare. Il lupo è un animale notturno, che dedica il giorno al riposo e al trastullo e la notte alla caccia insieme al branco; molti popoli lo hanno associato indissolubilmente all’Inverno. Qualche esempio? Per i Celti, il lupo concentrava in sè l’intuizione e il sesto senso donatigli dalla luna. I giapponesi a Gennaio erano soliti celebrare il dio lupo, che preservava i raccolti dai danni provocati dai cinghiali. I Sassoni dedicavano al canide lupino il mese di Gennaio, che chiamavano Wulf-monath (mese del lupo). Ma va ai nativi americani il merito di aver instaurato il nesso più stretto tra il lupo, Gennaio e la luna: se per i Seneca quest’ ultima prese vita dagli ululati, i Sioux coniarono la definizione di “luna in cui i lupi corrono insieme” per il plenilunio del primo mese dell’anno.

 

 

Ma quando sarà visibile, la Luna del Lupo? Apparirà proprio stasera. Grazie al cielo relativamente sereno di questi giorni, potremo ammirarla ad occhio nudo per tutta la notte e anche in quelle successive. Durante la fase di piena, che raggiungerà alle 18.54, la Luna del Lupo risulterà intensamente luminosa con una magnitudine pari a -12,4. Avete già preso nota? Questo spettacolo celeste dal sapore antico è assolutamente da non perdere.

 

 

 

Yule, il Solstizio d’Inverno degli antichi Celti, e le sue tradizioni

 

Le giornate sono brevi
Il sole una scintilla
stesa sottile tra
buio e buio.
(John Updike)

 

E’ arrivato l’Inverno. E l’ha fatto silenziosamente, mentre tutti dormivano: erano le 4,27 di stamattina quando è entrato ufficialmente. Oggi è il giorno più corto dell’anno, quello che i popoli germanici della tradizione pre-cristiana chiamavano Yule. Le vibrazioni cosmiche sono potenti, quasi palpabili, come per renderci partecipi di questo importante momento di trasformazione: l’oscurità è al suo apice, ma già da domani comincerà gradualmente a lasciar spazio alla luce. L’atmosfera sospesa ci invita ad assaporare attimo per attimo l’arrivo dell’Inverno astronomico. Gli antichi popoli hanno sempre celebrato la nascita del “nuovo Sole”: basti pensare ai romani e al Dies Natalis Solis Invicti, “invitto” sulle tenebre imperanti, o alla ricorrenza celtica di Yule, dove si festeggiava il Sole Bambino. Sia il Dies Natalis Solis Invicti che Yule cadevano in un periodo compreso tra il 22 e il 25 Dicembre (il calendario Giuliano fissava il Solstizio proprio in questa data), quando il Sole, nell’emisfero Nord, sembra fermarsi nel bel mezzo del cielo. “Solstizio” deriva infatti dal latino “Solstitium”, un termine che unisce “sol” (sole) e “sistere” (fermarsi). Dal punto di vista astronomico significa che il Sole, nel suo moto apparente lungo l’ellittica, raggiunge il punto di declinazione minima. Ma anche se il Solstizio sancisce la nostra massima distanza dall’astro infuocato, possiamo assaporare la magia di questi momenti nella consapevolezza della sua rinascita. Dopo la notte più lunga dell’anno il Sole tornerà a sorgere e ci regalerà, giorno dopo giorno, dei minuti di luce in più.

 

 

Tornando a Yule, la festa celtica del Solstizio di cui VALIUM ha già parlato tante volte (rileggi qui uno degli articoli), è interessante esaminare alcuni rituali giunti fino ai giorni nostri che, molto spesso, fanno parte delle tradizioni del Natale. L’albero solstiziale, ad esempio, era un abete (sempreverde simbolo di immortalità rispetto al gelo invernale) che veniva decorato con un tripudio di campanelli e mini rappresentazioni del Sole. In cima all’albero, a mò di puntale, svettava una stella a cinque punte, emblema dei cinque elementi della natura. L’albero veniva allestito rigorosamente all’interno delle case per offrire un rifugio agli spiriti che popolavano la foresta. Il ceppo di Yule, anche questo un argomento trattato approfonditamente da VALIUM (rileggi qui l’articolo che gli ho dedicato), veniva acceso a Yule utilizzando un grosso ciocco di quercia. Le famiglie lo bruciavano nel camino della propria casa per allontanare le entità maligne che si nascondevano nell’oscurità. Prima di compiere questo rito, però, al ceppo venivano legati i rametti di alcune piante dalla valenza simbolica: l’edera, associata al dio del Solstizio; l’agrifoglio, che incarnava l’anno che volgeva al termine; il tasso, emblema della morte dell’anno; la betulla, rappresentazione del nuovo inizio e delle nuove vite. I rametti dovevano essere annodati al ceppo con un nastro rigorosamente rosso, e il ceppo si accendeva usando il tizzo che risaliva all’anno prima. Il ceppo di Yule veniva lasciato ardere l’intera notte e si riaccendeva la sera dopo, un rituale che andava compiuto per dodici giorni di seguito. Infine, le ceneri si spargevano in giardino per proteggere le piante (allontanano i parassiti) e scongiurare la negatività.

 

 

Il ramo dei desideri era un’usanza che consisteva nell’appendere un ramo di grandi dimensioni nell’atrio della propria dimora. Ciò veniva fatto nove giorni prima di Yule dopo aver effettuato ulteriori operazioni: il ramo doveva essere tinto di vernice dorata e decorato con nastri di carta rossa. Tutte le persone che avrebbero varcato la soglia di casa potevano esprimere un desiderio trascrivendolo sui nastrini di carta, che poi venivano accuratamente ripiegati e legati al ramo. La sera del Solstizio, una volta acceso il focolare, si lasciava ardere anche il ramo dei desideri: il fumo avrebbe raggiunto gli dei, che forse li avrebbero esauditi.

 

 

I Celti consideravano il vischio di quercia una pianta sacra, tant’è che aveva la facoltà di raccoglierlo solo il Sommo Sacerdote servendosi di un falcetto d’oro. I Druidi, successivamente, lo immergevano in una bacinella dorata ricolma d’acqua che distribuivano al popolo: al vischio, magico in quanto cresceva su rami e tronchi di molti alberi pur essendo privo di radici ed emblema di immortalità in quanto sempreverde, si attribuivano portentose proprietà guaritrici. La quercia, per i Celti, era un simbolo della presenza divina sulla terra. E sulla quercia si scagliava frequentemente la folgore, il che collimava con la credenza che il vischio scendesse dal cielo insieme ai lampi, emblemi  della discesa sul suolo terrestre delle divinità. Alle sue virtù guaritrici si aggiungevano quelle propiziatorie, associate alla fertilità (dato il suo aspetto simile allo sperma) e al buon auspicio. Non è un caso che il vischio sia onnipresente a tutt’oggi tra le decorazioni natalizie: attirerebbe l’abbondanza e la fecondità, prova ne è il fatto che gli innamorati usano baciarsi sotto il vischio in segno beneaugurale.

 

 

L’agrifoglio, per i Celti d’Irlanda, si legava al Solstizio poichè le ghirlande che venivano realizzate con questa pianta erano un’emblema della ruota dell’anno. Nell’ “isola di smeraldo”, a Natale, vige tuttora l’usanza di decorare le case con molteplici ghirlande di agrifoglio; la tradizione vuole che si rompano e si lancino all’esterno della casa dopo le feste per rappresentare il termine delle tenebre e la rinascita della luce.

 

 

Auguro un Buon Solstizio d’Inverno a tutti e mi raccomando, non dimenticate di accendere molte candele in casa: la fiamma che balugina nel buio è un omaggio alla luce che rinasce, a poco a poco, nell’oscurità.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Aurora Borealis

 

“E nella notte giovinetto insonne
vidi la luce postuma, lo spettro
dell’alba: tremole colonne
d’opale, ondanti archi d’elettro.”

(Giovanni Pascoli, da “L’ Aurora Boreale”)

 

E’ meraviglia, stupore, magia pura: colori che danzano e si intrecciano nel cielo notturno, bagliori variopinti che prendono vita dove il suolo, le case e le foreste sono perennemente ricoperti di neve. L’aurora boreale non è che un fenomeno ottico, eppure affascina e ispira l’ uomo sin da tempi remotissimi. Il cielo buio che all’ improvviso si addensa di multiformi scie viola, rosse, gialle e rosa è uno spettacolo straordinario e incomparabile. A prevalere, comunque, sono le tonalità del verde e dell’azzurro: si librano splendenti nell’ oscurità e la squarciano con le loro cromie mozzafiato. Se visitate il Grande Nord, l’aurora boreale è un evento da non perdere per niente al mondo. Gli antichi popoli la consideravano un fenomeno magico, originato dagli spiriti, e su di essa hanno imbastito innumerevoli leggende. Oggi, sappiamo che i cosiddetti “archi aurorali” (le scie fosforescenti che invadono la notte) vengono generati dall’ incontro tra i protoni e gli elettroni del vento solare con la ionosfera terrestre. Quando cessa la stimolazione a cui sono sottoposti, gli atomi atmosferici sprigionano fasci di luce che coinvolgono svariate lunghezze d’onda. Si definisce aurora boreale il fenomeno che si verifica nell’ emisfero Nord, per quanto riguarda quello Sud si parla di aurora astrale.

 

 

Ma dove è visibile l’aurora boreale, esattamente? Senza dubbio in Scandinavia, in particolare nella Lapponia svedese, norvegese e finlandese. Ma anche in Canada, Groenlandia, Islanda, Alaska, negli arcipelagi scozzesi delle Shetland e delle Orcadi, nella Russia del nord. Questa specifica area del mondo, non a caso, è stata ribattezzata “ovale aurorale”. Tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo, le “northern lights” (come le chiamano gli anglosassoni) sono numerosissime. Il periodo migliore per ammirarle è proprio adesso, anche perchè le interminabili notti polari permettono alle luci e ai colori di rifulgere più intensamente. Gli orari preferibili per restare estasiati davanti a questo spettacolo vanno dalle 18 all’ 1. Nell’arco dell’ anno, il fenomeno in genere è visibile da Settembre a fine Marzo.

 

 

Fa eccezione l’Islanda, dove l’aurora boreale appare 12 mesi su 12. In Estate, tuttavia, è scarsamente visibile a causa del chiarore del cielo. Se volete ammirarla è più facile che possiate farlo da Settembre a circa metà Aprile: le luci risplendono in modo tale da renderla distinguibile anche a Reykjavik, la capitale del paese. A pochi chilometri da lì, in mezzo alla natura incontaminata, sorge un osservatorio d’eccezione, l’ Aurora Basecamp. Al suo interno è possibile godere di una visuale del fenomeno in tutto comfort, in un ambiente riscaldato e sorseggiando una cioccolata calda. L’alternativa all’ Aurora Lounge (questo il nome dello spazio) è rappresentata dal Dark Park, una cupola avveniristica collocata all’esterno dove viene simulato, tramite uno sbalorditivo gioco di luci e di effetti speciali, lo spettacolo dell’aurora boreale.

 

 

Per prevedere quando si verificherà il fenomeno reale, invece, basta affidarsi alle notti limpide (quando le luci sono maggiormente visibili) o a siti come il finlandese Auroras Now. C’è un altro aspetto che accresce l’enorme fascino dell’aurora boreale, ovvero le leggende che nei secoli sono sorte attorno ad essa. Non riuscendo a spiegarsi  il perchè di questo evento, gli antichi popoli nordici l’hanno associato di volta in volta a miti, rituali e avvenimenti misteriosi. Secondo una leggenda finlandese, ad esempio, l’aurora boreale fu originata da una volpe: non è un caso che nella terra dei Finni sia chiamata “revontulet”, cioè “fuochi della volpe”. La leggenda racconta che una volpe fatata, dirigendosi al festival d’inverno come ogni anno, si accorse di essere incredibilmente in ritardo. Allungò il passo e prese a correre, ma non riuscì più a mantenere la coda alzata. La coda cominciò così a cozzare sulla neve che ammantava il tragitto. Da ogni urto scaturivano scintille che, raggiungendo la volta celeste, esplodevano in un’aurora boreale.

 

 

Sempre in Finlandia, mentre le luci boreali volteggiavano nel cielo erano severamente proibiti gli applausi o qualsiasi altra manifestazione di giubilo: in caso contrario, gli spiriti sarebbero calati sulla terra per rapire i violatori della norma. A proposito di spiriti, in moltissime tribù eschimesi si credeva che durante l’aurora boreale giocassero a calcio nel firmamento utilizzando un teschio di tricheco. Non di rado, inoltre, le “northern lights” venivano identificate con dei presagi di buona o di cattiva sorte:  si pensava che concepire un bambino nel corso del fenomeno gli avrebbe portato fortuna per tutta la vita. Alle aurore nei toni del rosso, invece, si associavano premonizioni decisamente inquietanti. Nel ‘700, in Scozia e in Inghilterra il fenomeno si presentò tramite luci rosso fuoco; qualche settimana dopo, a Parigi scoppiò la Rivoluzione Francese. Le aurore fiammeggianti divennero quindi un presagio di guerra e di sangue, terrificando il popolo pur essendo eventi molto rari.

 

 

 

Il Ceppo di Yule, un’ antica e suggestiva tradizione del Solstizio d’Inverno

 

” Solstizio d’inverno.
Sembra che il mondo voglia dare le spalle alla luce.
I colori nascondono il loro volto.
La terra coltiva l’ombra
come se fosse l’unica cosa che cresce.”
(Fabrizio Caramagna)

 

21 Dicembre, Solstizio d’Inverno: è il giorno più corto dell’ anno. Le ore di buio trionfano, fagocitando quelle di luce. Il Sole, giunto al punto di declinazione minima nel suo moto apparente lungo l’eclittica, sembra arrestarsi (non è un caso che il termine “Solstizio”, in latino “Solstitium”, derivi da “sol”, sole, e “sistere”, ovvero fermarsi). L’atmosfera è sospesa, la natura e il cosmo partecipano silenziosamente a questo importante momento di transizione. Perchè quando l’oscurità raggiungerà il suo apice, la luce ricomincerà ad avanzare a poco a poco. E il Sole rinascerà, si rinnoverà, tornerà a regnare sulla notte. Nell’ era pre-cristiana, i popoli germanici battezzarono “Yule” il giorno del Solstizio: “Hjòl” designava, in norreno, la ruota dell’ anno, che si trova nel suo punto più basso quando l’ Inverno entra ufficialmente. “Hjòl” si tramutò poi nel norreno Jòl e nel tedesco Jul. Tuttora è possibile rinvenire questi termini nelle lingue scandinave, dove indicano sia il Solstizio d’Inverno che il Natale“Jul” in svedese e danese, “Jol” in norvegese, “Joulu” in finlandese (con il significato, però, esclusivamente di “Natale”).

 

 

In un’ epoca in cui la sopravvivenza era legata a doppio filo ai cicli della natura, è facile intuire l’importanza che rivestiva Yule. La resurrezione della luce era un evento ricco di magia, di rituali associati a una simbologia antichissima. Per approfondire questi aspetti, vi rimando all’ articolo “Yule” che ho pubblicato su VALIUM l’anno scorso (rileggilo qui). Oggi ci concentreremo invece su un particolarissimo cerimoniale associato al Solstizio, il Ceppo di Yule o Yule Log.

 

 

I popoli nordici dell’ età pre-cristiana solevano celebrare il Solstizio d’Inverno con  un grosso tronco beneaugurale. La notte più lunga dell’ anno il ceppo si adornava di nastri, bacche e ramoscelli d’edera, poi veniva benedetto e fatto ardere per i dodici giorni dei festeggiamenti solstiziali. Secondo la tradizione, il fuoco precedente doveva essere spento dal capofamiglia e per riaccenderlo si doveva utilizzare un tizzone del tronco bruciato durante il Solstizio dell’ anno prima. Questo rituale aveva una potente valenza emblematica: il fuoco e il suo calore simboleggiavano la nuova luce, l’ardore del Sole che quella notte rinasceva e sarebbe tornato a splendere progressivamente. Ma il fuoco era anche una metafora della vita stessa. Nelle gelide lande del Nord Europa, i focolari erano sempre accesi; il caminetto riscaldava e risultava essenziale per il nutrimento, dal momento che il fuoco si utilizzava per cucinare. Il Ceppo di Yule, dunque, era un emblema di buon auspicio associato alla luce, alla rinascita della natura, alla prosperità: i fondamenti della sopravvivenza.

 

 

Quando il Cristianesimo sostituì le celebrazioni natalizie a quelle solstiziali, lo Yule Log divenne una costante della vigilia di Natale. Le prime testimonianze relative a questa tradizione risalgono alla Germania del XII secolo: un documento del 1184 cita un ceppo di Natale che, acceso la notte di vigilia, veniva fatto bruciare fino all’ Epifania. Alla ricerca del legno adatto si dedicavano giornate intere. I tronchi dovevano essere di albero secco, idonei alla combustione, e non essere stati eletti a tana da qualche animale. In Scozia, gli antichi Celti erano soliti scolpire una figura femminile nel ceppo: raffigurava la Cailleach Nollag, una dea dell’ Inverno, il cui aspetto sinistro veniva stemperato dalle fiamme. Era un emblema della ciclicità della natura; dopo la notte del Solstizio, ogni ora di luce in più equivaleva a un passo verso la Primavera. Con l’avvento del Cristianesimo, la valenza simbolica dello Yule Log mutò completamente: il ceppo aveva la funzione di scaldare Gesù Bambino, mentre il fuoco incarnava l’emblema della Redenzione.

 

 

Dalla Germania, la tradizione dello Yule Log si diffuse in Gran Bretagna, nella penisola scandinava, in tutta la zona alpina, in Spagna, nei paesi dei Balcani e, last but not least, in regioni italiane quali la Lombardia e la Toscana. Successivamente, l’usanza sbarcò persino negli Stati Uniti. Il cerimoniale era simile ovunque: la vigilia di Natale, il ceppo veniva decorato (bacche, pigne, aghi di pino, vischio e piante rampicanti erano gli elementi più usati) e bruciato nel camino con una solenne cerimonia beneaugurale. Lo Yule Log si lasciava ardere per dodici notti di fila, fino all’ Epifania, e i suoi rimasugli, considerati magici, venivano conservati con cura. Ad essi si attribuivano benefici per la fecondità femminile, il raccolto, gli animali da allevamento, il benessere fisico, ed era d’uso utilizzarli per accendere il ceppo del Natale successivo. Ogni paese ha donato la propria impronta a questo rituale. Anche la pianta scelta per il ceppo variava da nazione a nazione: in Gran Bretagna, dove l’ usanza dello Yule Log venne adottata massicciamente, si preferivano la quercia, il pino, la betulla; i serbi optavano per la quercia, mentre i francesi puntavano sugli alberi da frutto.

 

 

Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la tradizione del Ceppo di Natale scomparve pressochè totalmente. L’ avvento delle stufe e il minor numero di camini presenti nelle case dell’ epoca fece sì che l’usanza, a poco a poco, si perdesse. Lo Yule Log, tuttavia, continua a esistere sotto un’altra forma: il tronchetto di Natale, uno dei dolci più golosi delle feste. Si tratta di un tronchetto di Pan di Spagna ricoperto di cioccolato e farcito con svariate creme. L’ aspetto è quello di un ceppo ornato di molteplici decorazioni: provate a prepararlo in casa per un Solstizio all’ insegna del gusto. Oppure, ripristinate la tradizione dello Yule Log. Procuratevi un ceppo su cui praticherete dei fori per inserirvi alcune candele. I colori di queste ultime potranno essere tipicamente natalizi, come ad esempio il rosso, il verde, l’oro. Decorate il ceppo con piante, fiori e bacche stagionali. Le candele andranno fatte bruciare durante la notte di Yule: è una variante contemporanea del Ceppo di Natale, ma risulta sempre di grand’effetto.

 

 

Foto del Ceppo di Yule con candele di Jeremy Fulton via Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

 

La colazione di oggi: l’ uva, emblema di vita e di prosperità

 

Nella scorsa puntata di questa rubrica abbiamo parlato delle mele (e della torta di mele), stavolta parleremo dell’ uva. Molti frutti autunnali, in effetti, sono miniere inesauribili di salute e di benessere. L’ uva è uno di questi. Oltre a darci l’occasione di dilettarci con la vendemmia (io l’ho fatto da piccola, mia zia aveva un podere in campagna) ci regala il vino, e i suoi acini succosissimi sono ottimi anche per la prima colazione. Ma quali sono le virtù di questo frutto che, più di ogni altro, rappresenta la fine dell’ estate? Innanzitutto, contiene un’ alta quantità di polifenoli: la sostanza che dà il colore all’ uva e la mantiene sana.  Ingerendoli, contrastiamo l’ invecchiamento cellulare poichè agiscono contro i danni causati dai radicali liberi. I polifenoli sono molecole preziose anche per la salute dell’ apparato cardiovascolare; favoriscono infatti un buon funzionamento dell’ endotelio (il tessuto che riveste le pareti interne del cuore), dei vasi linfatici e sanguigni, svolgendo al tempo stesso un’ azione antinfiammatoria e antiaggregante. L’ uva, inoltre, è un ottimo antidoto contro la degenerazione della macula, la parte centrale della retina. Si rivela utile, quindi, a preservare il benessere della nostra vista.

 

 

Se volete mantenervi giovani e attivi a lungo, poi, l’ uva fa al caso vostro: il resveratrolo e l’ acido linoleico di cui è ricca incentivano, rispettivamente, la sopravvivenza delle cellule grazie a potenti proprietà antiossidanti, e il mantenimento dell’ elasticità della pelle. Lo stress ossidativo, drasticamente ridotto dai componenti dell’ uva, viene contrastato e anche la memoria ne risente: ecco perchè i grappoli di questo frutto sono dei veri e propri toccasana contro le malattie degenerative. Ma non è finita qui: la lista dei benefici dell’ uva è ancora molto lunga. La presenza dei polifenoli apporta ulteriori vantaggi, combatte la sindrome metabolica contribuendo a mantenere ottimali, di conseguenza, i valori dei trigliceridi, del colesterolo, della glicemia e della pressione. Avete mai sentito parlare di vitamina K? Bene, l’ uva la contiene. E’ un efficacissimo fluidificante del sangue, che previene il rischio di emorragie. Inoltre, la presenza di fibre solubili nel frutto regolarizza le funzioni intestinali e diminuisce i livelli del colesterolo e degli zuccheri nei vasi sanguigni.

 

 

L’ uva è squisita sia mangiata da sola che in innumerevoli altre versioni: potete utilizzarla per guarnire dessert quali torte, crostate, pancake, includerla tra i frutti della macedonia o tra i componenti di un tagliere, ricavarne un delizioso succo. Avete solo l’ imbarazzo della scelta! Per concludere, come sempre, lascio spazio alle curiosità e alle leggende. Che in questo caso sono numerosissime: basti pensare che l’ uva, in tempi remoti, veniva considerata il Nettare degli Dei. Non è un caso che gli antichi popoli associassero al vino una divinità in carne ed ossa, Bacco nel caso dei Romani e Dioniso in quello dei Greci. Questi Dei donavano l’ uva all’ uomo come atto di generosità, e dall’ uva veniva ricavata una bevanda, il vino, che aveva uno straordinario potere sull’ animo umano; se bevuto in quantità moderate, alimentava il coraggio, l’ euforia e la loquacità. I valori più comunemente attribuiti all’ uva erano molteplici: il vino, ma ancor prima la vendemmia, venivano associati alla condivisione e alla convivialità. Attorno all’ uva ruota un’ antica leggenda. Si raccontava che, agli albori del tempo, la vite non producesse frutti. Un contadino decise così di potarla, per far sì che le altre piante potessero godere della luce solare. Ma quando si vide disadorna e priva delle sue rigogliose fronde, la vite scoppiò in un pianto disperato. Un usignolo che passava da quelle parti, ascoltandolo, si commosse, e cominciò a intonare una canzone per darle conforto. Le stelle furono toccate profondamente da quella scena, e decisero di rianimare la vite con la loro luminosità. All’ improvviso, la pianta ritrovò le forze e ognuna delle sue lacrime si tramutò in un acino dolcissimo: erano nati i grappoli d’uva.

 

 

Una leggenda della mitologia ellenica, invece, ricollega la genesi della vite alla morte di Ampelo, uno splendido giovane di cui Dioniso era innamoratissimo. Quando Ampelo morì incornato da un toro, Dioniso versò lacrime amare. Il dio che non conosceva la sofferenza si rese conto, nel modo più triste, di cosa fosse il dolore. Inconsolabile, Dioniso continuava a piangere quando un giorno le sue lacrime, cadendo sul corpo inanimato di Ampelo, operarono il miracolo: Ampelo si tramutò in una vite e le lacrime di Dioniso, fondendosi con il sangue di colui che tanto aveva amato, diedero origine al vino. Una sostanza, non a caso, in grado di donare ebbrezza e quindi di cancellare i ricordi strazianti tramite la gioia e la spensieratezza. Il vino cominciò a incarnare la vita, l’allegria, un modo per sconfiggere la morte e qualsiasi pena. Ulteriori motivi che favoriscono l’associazione tra uva e vita si rinvengono nella vendemmia: un autentico rituale che coincide con l’ inizio dell’ autunno. La terra sta per assopirsi, inaugura il suo periodo di riposo in attesa del risveglio primaverile. Ma prima di farlo ci fa dono dell’ uva, o per meglio dire del vino, che ci accompagna lungo tutto l’ inverno restituendoci calore e gioia di vivere. L’ uva diventa così l’ emblema della vita stessa, del trionfo della vita sulla morte, dell’ amore, della prosperità. Non stupisce che in Spagna, a Capodanno, si usi ingurgitare 12 chicchi d’uva in concomitanza con i 12 rintocchi della mezzanotte. L’ uva è fertilità e abbondanza; nell’ Eucarestia il vino simboleggia il sangue di Cristo, che diventa anche il nostro affinchè possiamo rinnovarci, rigenerarci in Lui. Esiste poi un detto, “In vino veritas”, che celebra l’ effetto disinibitorio del vino. Il vino “libera”, elimina i freni e le inibizioni. Sconfigge la doppiezza e favorisce l’ affiorare della verità: rappresenta, dunque, una saggezza pura e “senza filtri”.

 

 

 

 

La colazione di oggi: l’uovo, tra benefici e simbolismi primordiali

 

A pochi giorni da Pasqua, non si può prescindere dal mangiare uova: che siano di cioccolato, bollite, convertite in glassa o presenti nell’ impasto di deliziosi dolci tipici, il loro appeal rimane invariato. Ma sapevate che proprio all’ uovo sono associati innumerevoli, e soprattutto antichissimi, significati simbolici? Da sempre emblema di rinascita, l’uovo era un auspicio di fecondità. Rappresentava la potenza generatrice ed incarnava l’ archetipo della Creazione. Non sono pochi i popoli che, molti millenni orsono, credevano che avesse dato origine all’ Universo: il motto “Omne Vivum ex Ovo” (“ogni essere vivente proviene da un uovo”) ribadisce e rinforza questa teoria. La forma dell’uovo non contiene spigoli, perciò rimandava alla perfezione; in più, il tuorlo (giallo come il sole, dunque vessillo di energia e di vigore) veniva collegato al “maschile”, mentre l’ albume (bianco come la luna e dalla consistenza che richiama il liquido amniotico) si associava al “femminile”. L’ unione tra maschile e femminile era inevitabilmente connessa al concetto di procreazione. Nacque così il mito dell’ Uovo Cosmico, generatore di vita per un gran numero di civilità remotissime. A Creta e nella Caldea, su piedistalli appositi posti nelle tombe, si usava posare uova di struzzo come augurio di rinascita. Per il Taoismo l’ uovo è a tutt’oggi il Grande Uno, l’ embrione primordiale, e un significato simile gli conferivano anche le Bahyrivha Upanisad, dei testi indiani a carattere mistico-filosofico dove veniva definito “Embrione d’Oro”. Il Buddhismo lo identifica con l’ Anno, emblema del Tempo Cosmico, mentre nella mitologia giapponese cielo e terra (Izanagi e Izanami) erano uniti in un grande uovo al cui centro risiedeva un germe che originava la vita. Risale invece all’ antica tradizione alchemica il paragone con il mito della Fenice che, ciclicamente, risorgeva dall’ uovo sorto dalle sue ceneri. Gli alchimisti vedevano nella struttura dell’ uovo una rappresentazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), e proprio la schiusa di questo embrione corrispondeva alla nuova dimensione – spirituale ed iniziatica – dell’uomo.

 

 

Anche il Cristianesimo affidò all’ uovo il significato simbolico di “principio di vita”, ricollegandolo alla festività della Resurrezione. L’ uovo, di conseguenza, a Pasqua assume un ruolo centrale. Non è un caso che in alcune località italiane viga l’usanza di benedire le uova durante la messa,  prima di consumarle tutti insieme sul sagrato. Preparato in svariati modi o nella classica versione in cioccolato, l’uovo rientra tra le tradizioni più celebri della domenica di Pasqua. La consuetudine di scambiarsi e regalarsi uova ha radici molto lontane nel tempo; la ritroviamo tra i popoli della Persia, dell’ Egitto e della Grecia antica, dove venivano donate per festeggiare la rinascita primaverile. Con il Cristianesimo, la simbologia pagana che lo associava al risveglio della natura fu soppiantata e l’uovo passò ad emblematizzare la resurrezione di Cristo, la sua transizione dalla morte alla vita. Ma quali sono le  proprietà dell’ uovo dal punto di vista nutrizionale? Potremmo dire che è un alimento pressochè “completo”. Ricco di proteine e di elementi nutritivi, contiene un’ alta quantità di vitamine e minerali: alla vitamina A, E, B6, B12 e D, un toccasana per le ossa, si uniscono il ferro, il potassio, il calcio e il fosforo. Le proteine dell’ uovo immagazzinano l’ intera gamma degli amminoacidi essenziali per l’uomo; sono racchiuse nell’ albume, mentre le vitamine vengono custodite nel tuorlo. Qualunque sia l’uovo che deciderete di gustare a Pasqua, comunque, penso che sia importante tener sempre presente l’ affascinante, suggestiva storia connessa alla sua simbologia primordiale.

 

 

 

Equinozio di Primavera

 

Buon Equinozio di Primavera! Oggi, la Primavera fa il suo ingresso ufficiale. Giorno e notte avranno una durata identica – Equinozio deriva dal latino “aequus nox”, ovvero “notte uguale” – e il Sole, giunto allo Zenit dell’ Equatore, irradierà i suoi raggi perpendicolarmente rispetto all’ asse di rotazione terrestre. In sintesi, l’Equinozio rappresenta il preciso istante in cui il movimento della Terra attorno al Sole coincide con il posizionamento di quest’ ultimo allo Zenit. Ma l’ Equinozio non è solo astronomia: l’ arrivo della bella stagione è associato a miti, rituali e leggende che risalgono alla notte dei tempi. Non è difficile immaginare, infatti, che il trionfo della luce sul buio e il risveglio della natura abbiano assunto delle forti connotazioni simboliche presso le civiltà più antiche. In Mesopotamia, secoli e secoli orsono, l’ Equinozio di Primavera e il Capodanno combaciavano: rappresentavano entrambi un nuovo inizio. Nel mondo occidentale, dove un numero incalcolabile di popoli celebrava  i cicli della Natura con feste e rituali, il mito della Dea Persefone riveste un’ importanza fondamentale. Racconta la leggenda che Persefone, figlia di Demetra (la Dea della Madre Terra), venne rapita da Ade, il signore dell’ Oltretomba, che la portò con sè negli Inferi. Demetra ne fu così addolorata che minacciò di condannare la Terra alla distruzione, se sua figlia non avesse fatto ritorno.  Zeus ordinò quindi che fosse liberata. Ma quando Persefone riabbracciò sua madre, Demetra si accorse che era ormai una donna, non più la sua bambina. Allora, Zeus stabilì che Persefone avrebbe trascorso metà dell’ anno nel Regno dei Vivi, con Demetra, e l’ altra metà con Ade nelle profonde viscere della terra. Fu così che la natura divenne ciclica e che ebbero inizio le quattro stagioni. La Primavera celebrava, al tempo stesso, la natura che rifiorisce e il ritorno di Persefone, che riportava la vita e ripristinava il rinnovamento. In onore di Demetra e di sua figlia, nella Grecia antica si istituirono i Misteri Eleusini: si svolgevano da metà Febbraio a metà Marzo ed erano riti misterici di tipo iniziatico che accompagnavano gli adepti alla scoperta della Conoscenza, della Verità e dell’ Immortalità. Le due Dee, emblemi di fertilità e rinascita, si identificarono per sempre con la bella stagione. L’ Equinozio era una data cruciale anche per gli antichi romani, che proprio a Marzo (il mese dedicato al dio Marte, padre di Romolo e Remo) facevano iniziare l’ anno,  mentre i nordici Celti preferivano festeggiare la rinascita a Beltane, il 1 Maggio.

 

 

Al di là dei resoconti storici, comunque, ciò che conta è la valenza simbolica dell’ Equinozio di Primavera, chiamato Ostara dai popoli germanici (dal nome di Eostar, Dea della fertilità) e Alban Eiler, “Luce della Terra”, in lingua gallese. Alle connotazioni di rinascita e ritorno della luce si affianca quella di un’ unione cosmica tra divinità maschile e femminile: il Dio Sole e la Dea Terra si accoppiano, la loro fusione è sinonimo di vita. Un’ antica tradizione equinoziale prevedeva che si accendesserò dei falò in collina, la cui durata sarebbe stata direttamente proporzionale alla fecondità del terreno. L’ Equinozio rappresenta anche una svolta che ci riguarda personalmente, che coinvolge la nostra esistenza e la nostra interiorità. A Alban Eiler rinasciamo a nuova vita: è il momento di fare progetti, di concretizzare i sogni, di andare incontro ai sentimenti senza remore. Dovremmo sentirci un tutt’ uno con la natura che germoglia, sbocciare a nostra volta per seguire questo flusso rigoglioso e inarrestabile. L’ Universo è in armonia perfetta. Le ore diurne e notturne si equivalgono, il sole torna a splendere e la terra a rinverdirsi.

 

 

Ostara, inoltre, è il nome da cui deriva il termine Pasqua nelle lingue germaniche: in tedesco Ostern, in inglese Easter. Ciò rimanda all’ opera di sostituzione e di “riassorbimento” adottata dalla chiesa cristiana nei confronti delle ricorrenze pagane. Nel 325 d.C., il Concilio di Nicea stabilì di contrapporre le celebrazioni per la risurrezione di Cristo ai rituali in onore del riveglio della natura; la Pasqua, di conseguenza, fu fissata alla domenica successiva al primo plenilunio dopo l’ Equinozio di Primavera. A Ostara i popoli germanici inneggiavano alla Dea della fertilità con l’ accensione di un cero, emblema della fiamma dell’ esistenza, che veniva fatto ardere nei templi fino all’ alba. A proposito di Ostara, sapete quali sono i suoi colori? Tonalità pastello come il rosa, il celeste, il giallo, il verde. Suoi caratteristici simboli sono invece le uova, i nidi delle lepri, la luna nuova e le farfalle. Non vi ricordano un po’ le cromie e l’ iconografia tipicamente pasquali? Per concludere, alcuni elementi collegati al significato spirituale dell’ Equinozio: un’ audacia, un entusiasmo, una gioia di vivere rinnovati che portano al desiderio di abbracciare nuove svolte e nuovi progetti. La positività, l’ apertura nei confronti degli altri, l’ evoluzione, l’ incremento della consapevolezza di sè. Vi auguro di far vostri questi input, e che possiate trascorrere un Equinozio di Primavera assolutamente speciale.

 

John William Waterhouse, “Gather ye rosebuds while we may”, 1909

John William Waterhouse, “A song of Springtime”

John William Waterhouse, “Spring spreads one green lap of flowers”, 1910

John William Waterhouse, “Persephone”, 1912

 

 

 

Foto: quinta immagine dall’ alto via Sofi, “Ida Rentoul Outhwaite, “Spring””, from Flickr, CC BY-NC 2.0

Alle origini della Befana: Frau Holle, Berchta e Frigg

 

“L’ Epifania tutte le feste porta via”, dice il proverbio. Vale quindi la pena di assaporare appieno questa ricorrenza e di accentuarne la magia puntando i riflettori sulla sua protagonista: in pochi sanno infatti che la vecchina che ogni 6 Gennaio, a cavallo di una scopa, si cala nei camini per riempirli di doni, si ispira a tre figure mitologiche che ricoprivano ruoli fondamentali presso le antiche popolazioni celtiche. La Befana affonda le sue origini nelle divinità generatrici, nelle forze propiziatrici della natura, in quella “Dea Madre” che la cultura Pagana rappresentava sotto molteplici sembianze. Queste divinità erano essenzialmente tre e portavano i nomi di  Holla (anche detta Frau Holle), Berchta e Frigg.

 

Frau Holle in un dipinto di Wilhelm Stumpf

Holla, Signora dell’ Inverno, era la Dea dei fenomeni naturali oltre che la protettrice del focolare domestico e degli animali. Berchta era associata invece alla fertilità della natura, degli esseri umani e del bestiame. Frigg, moglie di Odino (supremo Dio della mitologia norrena) e Grande Madre di tutte le divinità, degli spiriti e delle creature naturali, era la “Donatrice” e Signora delle Acque. Le tre Dee, nei 12 giorni che succedevano al Solstizio d’Inverno, sorvolavano i campi portando le loro benedizioni. Sostavano poi di tetto in tetto e, calandosi dai comignoli, donavano luce, fortuna e buoni auspici agli abitanti delle case in cui regnavano l’ armonia e la laboriosità. Al contrario, maledicevano le dimore in cui trascuratezza, pigrizia e caos proliferavano. Per attirarsi i favori delle Dee, dunque, le famiglie erano solite depositare offerte di latte, cibo o dolci sui tetti e nei caminetti, pronti ad accoglierle.

 

Berchta

Frigg – prima Filatrice e fautrice dell’ arte della filatura – era accompagnata da Fulla, sua devota ancella, impersonificatrice dell’abbondanza e della ricchezza della natura. La consorte di Odino vagava nelle case, nelle cantine e nelle stalle, assaggiava i cibi che le venivano offerti, e dove riceveva una buona accoglienza donava le sue benedizioni. Holla, Berchta e Frigg:  le tre Dee erano dotate di una bellezza talmente accecante e luminosa che era impossibile guardarle senza rimanerne abbagliati. Tuttavia il loro aspetto mutava costantemente, arrivando a trasformarle in anziane ripugnanti per simboleggiare la fine che, con il Solstizio d’ Inverno, portava a una rinascita, a un nuovo ciclo naturale.

 

“Frigga and the Beldame”: un dipinto di Harry George Theaker che potrebbe anche raffigurare la doppia iconografia di Frigg

Fu proprio su questa bruttezza estrema che il Cristianesimo fece leva, descrivendole come streghe o malvagie rapitrici di bambini (soprattutto Berchta, della quale girava voce che li uccidesse infilzandoli con il naso adunco) ai fini di scoraggiare il loro culto e le usanze pagane delle offerte in cibo che il popolo era solito compiere. In realtà, le tre Dee incarnavano qualità altamente positive: amavano l’ infanzia in quanto frutto della procreazione, proteggevano le filatrici per l’ analogia esoterica  che esisteva tra la lavorazione del fuso ed il destino, e propiziavano la rigogliosità della natura e del raccolto. Erano Dee che elargivano doni e benedizioni di casa in casa, assumendo solo temporaneamente l’ aspetto di tre ottuagenarie.

 

Frigg e Odino in un dipinto di Harry George Theaker

La (transitoria) parvenza decrepita, che le tre Dee nordiche coniugavano con una profonda bontà interiore, è un elemento fondante della leggenda della Befana: una sorta di “strega buona” che premia con bei regali i bravi bambini donando carbone a quelli che si sono comportati male. Con il passare dei secoli e con l’avvento del Cristianesimo, evolvette così la tradizione delle tre Dee. Un’ altra leggenda – stavolta di matrice cristiana – narra che i Re Magi chiesero come raggiungere Betlemme ad un’anziana che non volle dar loro direttive. In seguito la donna, pentita del suo gesto, si mise in viaggio e, vagando di casa in casa in cerca di Gesù Bambino, lasciò doni a tutti i bimbi incontrati sul suo cammino: tanto basta per ribadire la valenza bonaria che assume da sempre la figura della Befana.

 

Frau Holle in un dipinto contemporaneo di Mauro Breda