Le streghe d’Italia, regione per regione: alla scoperta di una figura chiave del nostro folklore

 

C’è un’apertura tra i due mondi: il mondo degli stregoni e quello degli uomini viventi. C’è un luogo dove i due mondi si incontrano: l’apertura è lì. Si apre e si chiude come una porta al vento…

(Carlo Castellaneta)

Halloween, come ben saprete, viene anche detta “La notte delle streghe”. Ma chi era, realmente, la strega? Basta citare l’origine di questo nome per percepire l’alone sinistro che ha sempre circondato la sua figura: “strega” deriva dal latino “strix”, ovvero “strige”, un rapace notturno appartenente alla specie degli strigiformi; nella Roma antica si diceva che attirasse la sfortuna e che si nutrisse degli esseri umani e del loro sangue. Con il passar del tempo, su tali suggestioni si forgiò l’immagine della strega così come la conosciamo ora: una vecchia orripilante, perfida e dotata di poteri magici che la rendono in grado di compiere le più crudeli nefandezze. Rappresentata spesso a cavallo di una scopa, la strega poteva assumere innumerevoli sembianze; durante il Medioevo, quando il Cristianesimo si diffuse in tutta Europa, la si considerava un’adoratrice del demonio; da ciò prese vita il fenomeno di isteria di massa della “caccia alle streghe”, iniziata nel 1480. Per approfondire le caratteristiche di questo personaggio del folklore, rileggete qui l’articolo che le ho dedicato. Oggi, invece, parleremo di come viene vista la strega, regione per regione, nella cultura popolare e nella tradizione magica italiana.

 

 

La figura della strega nelle regioni italiane

Cominciamo dal PIEMONTE e dalla VALLE D’AOSTA, dove la strega e lo stregone sono conosciuti, rispettivamente, con il nome di Masca e Mascone. Si pensa che questi termini abbiano origine dal longobardo, che chiamava “maska” l’anima dei defunti, oppure da “mascar”, che in provenzale significava “borbottare”: la strega borbotta incantesimi o maledizioni indifferentemente. La condizione di Masca si eredita dai propri antenati. E insieme ai poteri soprannaturali si riceve in eredità il Grimorio, un libro magico che impazzò tra il tardo Medioevo e il Settecento: le sue pagine contengono calcoli astrologici, formule per gli incantesimi e le evocazioni, ricette per realizzare pozioni (non sempre curative), vademecum per la preparazione dei talismani. E’ stata rinvenuta una matrice celtica, nell’origine delle Masche. Le radici di queste streghe, non a caso, vengono collocate nelle aree colonizzate dai Celti in Italia.

Strie è il nome che viene assegnato alle streghe in LOMBARDIA; da qui il termine striaria per indicare la stregoneria. Alcuni studi, poi, hanno rinvenuto similitudini tra la figura di Arlecchino e quella del dio Pan, il cui culto, nel XIX secolo, venne equiparato dai cristiani a quello per il demonio. Pare infatti che i costumi e il tipico volto imbrattato dei sacerdoti pagani durante i rituali in onore di Pan fossero stati d’ispirazione nella creazione della celebre maschera bergamasca. Anche il Badalisc, personaggio mitologico della Val Camonica, viene storicamente accostato a Pan: le piccole corna issate sulla testa di legno, i capelli di pelo di capra, gli occhi di fuoco e la bocca smisurata evidenziano una certa somiglianza con la divinità greca della vita agreste. Badalisc, inoltre, dimora nei boschi proprio come Pan.

Le Anguane, streghe del TRENTINO, sono spiriti dell’acqua molto avvenenti. Il loro nome deriverebbe da “Adganae”, un termine che designava le matrone celtiche, e la leggenda vuole che si celebrino molti matrimoni tra le Anguane e gli umani. Non si tratta di streghe temibili: ad esse vengono fatte offerte per ingraziarsi i loro favori, oppure si omaggiano tramite rituali in cui abbondano i falò e pietanze di ogni tipo.

 

 

Le streghe del VENETO, chiamate Bele Butèle, non di rado vengono presentate come fate o ninfe dell’acqua. Le loro dimore sono le cavità calcaree dei Colli Berici o altre insenature di montagna. Appaiono nottetempo, quando in cielo splende la luna piena, e si dileguano allo spuntar dell’alba. Sono estremamente astute, delle abili ingannatrici: si presentano come donne attraenti in modo da imbrogliare chi prendono di mira, ma in realtà hanno un aspetto orribile. Esibiscono orecchie lunghissime, zampe di capra al posto delle gambe, braccia come quelle di una scimmia. Incontrarle è certamente un pericolo per chiunque. A Belluno, poi, esiste la “stria della diassa”, la “strega del ghiaccio”. Si dice che abbia il potere di far esplodere bufere e tempeste, ma nessuno sa come sia fatta.

Le Bagiue, o Bazure, sono le streghe della LIGURIA. Secondo le credenze popolari, si danno appuntamento nelle notti tra il mercoledì e il giovedì e tra il venerdì e il sabato per organizzare i loro convegni esoterici, che raggiungono munite di scope a cui agganciano delle candele.

Scendendo verso il centro-sud, giungiamo in ABRUZZO. La festa di San Domenico di Sora Abate, celebrata a Cocullo i primi di Maggio, contiene molti indizi che si rifanno ad antichissime divinità locali. Una ventina di serpenti viene avvolta attorno alla statua di San Domenico, portata in processione mentre la accompagna il suono della banda del paese. La devozione a San Domenico di Sora Abate, sancita dalla cosiddetta “festa dei serpari”, sarebbe una versione cristianizzata del culto di Angizia (il cui nome deriva da “angius”, “serpente” in latino), dea dei Marsi: questo antico popolo si era stanziato nei pressi del lago Fucino nel I millennio a.C. Angizia, divinità associata al culto dei serpenti, veniva considerata una maga, una sorta di strega che utilizzava sapientemente le piante medicinali ed era in grado di curare i morsi di serpente. Essendo dotata di poteri soprannaturali, governava le leggi della natura e si serviva dei veleni per scopi terapeutici; inoltre, riusciva a uccidere i serpenti con un semplice tocco.

 

 

La Janara è una nota strega della CAMPANIA. Originaria di Benevento, la figura della Janara è molto diffusa anche a Napoli e in diverse zone della regione. Secondo le leggende è nata la notte di Natale, sotto il chiarore della luna piena, oppure si è consacrata alla magia in quella stessa notte. La Janara è una strega ambivalente: da un lato viene rappresentata come una solerte guaritrice, dall’altro provoca dolore, inquietudine e malasorte. In particolare, la Janara ha il potere di minare irrimediabilmente la fertilità. Il popolo la considera un’adoratrice del demonio, e per tenerla a debita distanza si serve di stratagemmi ben precisi: davanti al proprio portone versa un pugno di sale, in alternativa mette una scopa capovolta. La strega, impegnata a contare i granelli del sale o le setole della scopa, rimarrà sulla soglia per la notte intera e all’alba, con l’arrivo della luce del sole, dovrà fuggire suo malgrado. Se la Janara è riuscita a entrare in casa, invece, la si deve cacciare prendendola per i capelli. Il nome Janara potrebbe derivare da “Dianara”, un termine che designava le seguaci della dea Diana (molto numerose localmente) ai tempi della Roma antica.

Le Magàre CALABRESI sono esperte conoscitrici delle arti magiche. Guariscono attraverso le erbe e i rimedi naturali, tolgono il malocchio, realizzano filtri d’amore. Ma con la stessa facilità con cui liberano il prossimo dalle iettature, sono in grado di eseguire sortilegi potentissimi. A San Fili, in provincia di Cosenza, è stata istituita una “Notte delle Magàre” che le fa rivivere ogni estate: ci si maschera da streghe in un tripudio di spettacoli e degustazioni.

 

 

Le streghe della PUGLIA si suddividono in due versioni, che occasionalmente si sovrappongono l’una all’altra: ci sono le Stiare, malvagie e dannosissime, capaci di provocare persino la morte. Di notte diventano gatti e si riuniscono  sotto un noce per divertirsi e stare in compagnia. Le Masciare hanno gli stessi poteri, ma sono più benefiche: guariscono servendosi delle erbe, aiutano il prossimo, tolgono il malocchio e le fatture. Però non è una regola, quindi bisogna stare attenti. La facoltà di trasformarsi in gatti  è valso loro il soprannome di Gatte Masciare. In Puglia, anche al ballo della pizzica sono sempre stati attribuiti accenti quasi soprannaturali. Chi veniva morso dalla tarantola, se voleva guarire doveva danzare; pare che tutto ciò derivi da antichi riti dionisiaci, che con l’avvento del Cristianesimo furono opportunamente modificati: San Paolo sostituì Dioniso e divenne il Santo protettore dei tarantati.

Arrivando in SICILIA, troviamo le Animulari: sono streghe che hanno come unico fine il male. Si ritrovano di notte con un intento comune, danneggiare il prossimo. Amano nascondersi in buchi e cavità come quelli dei camini e delle serrature, ed è possibile scorgerle mentre vagano per la casa quando cala il buio; le riconoscerete, perchè portano un arcolaio sempre con sè. Leggenda vuole che siano state loro a generare il diavolo, vendendogli l’anima per ottenere i poteri soprannaturali.

 

 

Concludiamo con le streghe vampire della SARDEGNA, chiamate Cogas. Affamate di sangue umano, sono anche note con il nome di Surtoras o Surbiles; provengono da Villacidro, un comune della Sardegna del Sud. E’ difficile accorgersi di loro, poichè hanno la facoltà di tramutarsi in animali o di diventare del tutto invisibili, ma possono essere smascherate grazie alla minuscola coda che sfoggiano o alla croce pelosa che decora la loro schiena. Per una Cogas, la condizione di strega è impressa nel DNA: si diventa Cogas, infatti, se quando si nasce si è la settima di sei sorelle nate precedentemente.

 

La vendemmia: un rito antichissimo e le sue tradizioni

 

Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)

 

Settembre, da sempre, è tempo di vendemmia. Un termine che indica la raccolta dell’uva da vino: l’ultima tappa di un impegno nei vigneti che dura un anno intero, a cominciare dalla potatura invernale di Gennaio. L’uva che si raccoglie durante la vendemmia, in sintesi, è quella che troviamo sulle nostre tavole tramutata in delizioso nettare degli dei. Ma la vendemmia, oltre ad essere una pratica agricola, è un vero e proprio rituale: sopravvive da secoli, portando con sè un bagaglio di tradizioni, usanze scaramantiche e tecniche entrate far parte degli annali della cultura agreste. La vendemmia nasce nell’antica Roma, e lo dice il termine stesso; “vendemmia” proviene dal latino “vindimia”, che unisce “vinum” (vino) e “demere” (raccogliere). Sin da allora, dunque, designava la raccolta dell’uva destinata alla vinificazione. I romani adoravano questo periodo, tant’è che gli dedicarono una festività, i “vinalia rustica”, che cadeva ogni 19 Agosto. Ma non solo: chiamarono il mese di Settembre “mensis vindemialis” e lo consacrarono interamente alla vendemmia. In quei giorni, il lavoro nei vigneti veniva coniugato con feste e rituali in onore degli dei; i romani esprimevano così la loro gratitudine alle divinità per l’abbondanza del raccolto.
E qui torniamo al discorso iniziale: la vendemmia, al di là dell’importantissima funzione che ricopre a livello agricolo, è sempre stata un’attività ricca di significati. In primis rappresenta un momento di aggregazione fondamentale per la comunità agreste, un evento all’insegna della convivialità e della voglia di festeggiare. Ci si ritrova tutti insieme in vigna e la raccolta dell’uva viene celebrata con canti, stornelli, chiacchiere e risate. Il duro lavoro si alleggerisce lasciando il posto alla magia che impregna questa fase dell’anno agrario. Usanze e rituali abbondano, così come la superstizione. E una volta terminata la raccolta, ci si diverte tramite balli, degustazioni e musica rigorosamente suonata dal vivo. La vendemmia è una festa da condividere in compagnia.
In più, c’è un dato non trascurabile da prendere in considerazione: il vino produce ricchezza. E non solo in qualità di bevanda. L’enoturismo, ovvero il turismo del vino, ultimamente ha conosciuto un incremento eccezionale. Un  numero sempre maggiore di persone è attratto da mete che hanno fatto del vino la loro eccellenza. Si moltiplicano le visite alle cantine, ai grandi vigneti, alle aziende vinicole, per vivere esperienze che spaziano dal semplice giro di perlustrazione ai workshop, le attività all’aria aperta, le degustazioni, gli approfondimenti culturali sui “territori del vino”. Il valore del vino, di conseguenza, è inestimabile sia dal punto di vista economico ma anche socio-culturale: definisce l’identità di un luogo, ne sancisce le tradizioni, favorisce la socialità e la coesione sociale.
Continuando a parlare della vendemmia e delle sue usanze, notiamo che sono innumerevoli e variano da regione a regione. Si tratta di consuetudini secolari, ma per la maggior parte tuttora in uso: un modo per mantenere ben saldo il legame tra l’uomo e le proprie radici. Ma quali sono le tradizioni più diffuse nei vigneti d’Italia? Tanto per cominciare, prima ancora che la vendemmia inizi, la vigna dovrebbe essere benedetta da un sacerdote: questo gesto, oltre che a scacciare la malasorte e a porre il vigneto sotto la protezione divina, serve a garantire un raccolto vinicolo abbondante.
La data di inizio della vendemmia, solitamente, viene stabilita dopo un attento studio delle fasi lunari, che si pensa possano influire sull’uva e sulla sua pregiatezza. Si tratta più che altro di superstizioni, ma sono in pochi a non tenerle in conto. Per una buona vendemmia, dunque, ne andrebbe ponderato l’avvio con il calendario alla mano.
Il primo grappolo d’uva raccolto ha un’importanza decisiva. Lo si mostra a tutti i partecipanti, a volte lo si benedice, lo si passa di mano in mano, lo si condivide mangiandone qualche chicco a testa. Ciò assicurerebbe una buona riuscita della vendemmia e una copiosa raccolta di grappoli.
L’inizio della vendemmia è un momento cruciale: le tradizioni proliferano e sono tutte volte a propiziare il successo della pratica agricola. In molte regioni italiane, ad esempio, la prima persona che entra nel vigneto è determinante. Una classica figura di buon auspicio è la donna, che alcuni vogliono bionda e altri bruna. Costei sarebbe portatrice di fecondità.
E’ comune accompagnare la vendemmia con canti, stornelli e botta e risposta pepati tra i due sessi. Nelle Marche, per esempio, i più giovani erano soliti scambiarsi frasi di corteggiamento attraverso gli stornelli. Si faceva a gara a chi formulava la proposta più arguta, o a chi replicava con un’altrettanto arguta risposta. Gli adulti chiacchieravano tra loro del più e del meno. Si rideva molto, questo sì, e la fatica risultava dimezzata. In alcuni vigneti d’Italia, invece, si ritiene che la vendemmia vada svolta in silenzio: servirebbe a non risvegliare le entità naturali, che potrebbero vendicarsi rendendo l’uva di pessima qualità.
Vendemmiando, va fatta molta attenzione al numero di grappoli che contiene ogni cesta. Anche in questo caso, trionfa la superstizione: tuttavia, le credenze differiscono in ogni regione. Ad attirare la buona sorte potrebbe essere, a seconda del territorio, un numero pari o un numero dispari. Il numero pari sarebbe emblema di armonia, il numero dispari di straordinarietà.
Frequenti sono anche le usanze che riguardano il primo mosto, il succo dei grappoli schiacciati poco tempo prima: a scopo propiziatorio viene versato sul suolo oppure lo si usa per produrre il vino “apripista” dell’annata.
Lo spirito della vigna è una credenza popolare molto diffusa. Questo spirito veglierebbe sul vigneto proteggendolo costantemente; non è un caso che un gran numero di viticoltori gli dedichi preghiere o doni per attirarsi i suoi favori.
Esistono poi delle curiosità che voglio citare ispirandomi ancora una volta alla mia regione, le Marche. Torniamo per un momento alla raccolta dell’uva. I grappoli venivano inizialmente sistemati nelle ceste e, a filare ultimato, versati nelle cassette che con un biroccio (un carretto a due ruote) si trasportavano fino alla cantina. Lì le uve si scaricavano nelle “canà”, grandi vasche adibite alla pigiatura. Quindi iniziava il lavoro che uomini e donne compivano con i propri piedi, pigiando i chicchi per lasciar fuoriuscire il mosto. Il movimento era una sorta di saliscendi che coinvolgeva  in alternanza la punta e il tallone del piede. Questa operazione, a seconda della quantità d’uva raccolta, non era raro che durasse tre giorni di fila. L’elemento interessante è la leggenda che è stata imbastita attorno alla pigiatura: si narra che un conte, avendo notato che i pigiatori procedevano stancamente, mandò a chiamare un suonatore ambulante di organetto. Quando questi arrivò nella cantina, il conte gli chiese di suonare una ballata dal ritmo serrato e molto allegra. I pigiatori si rinvigorirono non appena la ascoltarono, si lasciarono trascinare dalla musica e diedero involontariamente vita a un ballo che fu chiamato “saltarello”: è tipico delle Marche e di molte regioni dell’Italia centrale, come il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo. Viene considerata una delle danze più antiche d’Italia; con la vendemmia ha dunque in comune, oltre che l’origine, le radici ancestrali.
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Fillus de anima

 

“Fillus de anima. E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai. Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo poco tempo dopo. Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento. Maria sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere, ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo, nel momento misterioso in cui le figlie bambine decidono da sole cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte. Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali, uno che usciva e uno che si nascondeva sotto l’orlo della gonna nera, in un ballo muto di cui a fatica le gambe seguivano il ritmo.”

Michela Murgia, da “Accabadora” (Giulio Einaudi Editore)

 

 

“Crystal Horse”, la nuova hit della Contessa Pinina Garavaglia: un’ode alla magica triade composta da Musica, Ballo e Poesia

Un enorme boato e via, il sound prorompe.  Il ritmo è vorticoso, incalzante, inarrestabile. Come un cavallo lanciato a briglia sciolta, avanza galoppando su un tappeto di note inebrianti. A cavalcare quel purosangue non è altri che lei, la Contessa Pinina Garavaglia. La scena è onirica, il mood fiabesco, il destriero talmente diafano da sembrare cristallino. Non è un caso che il titolo della nuova hit della Contessa sia proprio “Crystal Horse”, una produzione della label Tempi Inversi fondata da Gasoldo (rileggi qui la sua intervista con VALIUM) e Bitinjuice. Il pezzo, arrangiato da quest’ ultimo in puro stile Trance, è travolgente al pari di “Iconic”, “Magic Moments” e “Disco Dreams”, i precedenti singoli che la Contessa Garavaglia ha rilasciato con Tempi Inversi, ma a renderlo assolutamente unico è una scintilla in più: la sua valenza simbolica, un’ alchimia che ingloba il desiderio di evasione e l’ energia liberatoria associati alla magica triade composta da Musica, Ballo e Poesia. Le lyrics sono ridotte al minimo per esaltare il sound possente e irresistibile, ma Pinina Garavaglia riesce a condurci nel suo Regno Fatato anche con una manciata di versi: “Nella sfera di cristallo / Vedo un principe a cavallo / Da un millennio sta vagando / Per un gioco galoppando…”, declama ipnoticamente la Contessa prima che il resto della poesia si fonda con la musica martellante. “Filastrocca del Videogame”, questo il titolo della lirica, prosegue così: “L’ avventura più penosa è un bel gioco di mistero che non può mai esser vero…se tu credi a questi inganni puoi dormire anche cent’anni e fra cent’anni non si sa quale mondo ci sarà…se ancora il mondo ci sarà”. La conclusione, visti i tormentati tempi attuali, potrebbe suonare profetica. In realtà, la Filastrocca è un’ ode alla positività intrisa di figure metaforiche. Ci sembra quasi di vederla, la Contessa Garavaglia, mentre scruta la sfera di cristallo: ecco il principe a cavallo, laddove il galoppo sta a simbolizzare la vita e la sua finzione illusoria, i suoi abbagli, le sue chimere. Un percorso, dunque, senza via di scampo? No di certo, nel momento in cui Musica, Ballo e Poesia intervengono ad animare il tragitto. La triade incantata è un portentoso antidoto contro i miraggi esistenziali, un flusso energetico che azzera le insidie e i tranelli incontrati lungo il cammino. Dopo due anni di restrizioni a causa Covid, rappresenta la bacchetta magica che spezza l’incantesimo e ci sprona a muoverci, a godere pienamente della vita. Musica, Ballo e Poesia aprono la mente e liberano il corpo, che si scatena al ritmo delle note più esplosive. Sono catartici, rigeneranti…Pinina Garavaglia li celebra  mentre il sound di Bitinjuice avvolge e travolge, ci ingoia nel vortice della loro potenza. Lasciamoci trascinare in questo gorgo senza opporre resistenza, e il nostro destriero al galoppo si tramuterà all’ istante in un “Crystal horse” dai traslucidi bagliori.

 

 

L’uscita di “Crystal Horse” non è l’unico regalo che ci fa Pinina Garavaglia. Due sabati al mese, a mezzanotte in punto (un’ora non scelta a caso), potete immergervi nelle elettrizzanti e sfavillanti atmosfere del suo “Infusion Power” su ClubRadio06. Una replica della trasmissione è prevista per il giorno dopo, domenica, alle 18. Dato che nessuno meglio di lei saprebbe descrivervi questo straordinario progetto, lascio subito la parola alla “Contessa Rock”: “Infusion Power” nasce dall’ Infusione (Poesia ritmica visuale e delirio logico), il mio Reading Show performativo a sua volta derivato dalle mie esibizioni allo storico Afterhours Exogroove. Ora è un radio show originale di musica e poesia per ballare e sognare ovunque tu sia…Nel multiverso della Techno e nella sfera peculiare della Club Culture. Come un elisir tonico shakerato, “Infusion Power” va in onda idealmente a mezzanotte del sabato due volte al mese alternate, la prima è “Diamonds” e si avvale della direzione musicale straordinaria di Dj Panda e Ricci Jr Dj, il terzo è “Wonder” con il Soundtrack di 2Factor Dj e gli inserti vocali surreali di Gas Voxx (Gasoldo, ndr.)…Il tutto, in esclusiva per ClubRadio06.” La data del prossimo appuntamento? Nell’ ora fatata che segna il passaggio tra il 2 e il 3 Aprile. Save the date!

“Iconic”: il ritorno in versi e musica della Contessa Pinina Garavaglia

 

Nello spettacolare panorama cosmico di Ottobre (che l’ altroieri VALIUM ha approfondito in un post) si inserisce idealmente una stella che non smetterà mai di brillare: la Contessa Pinina Garavaglia, un’ autentica icona della movida notturna. Una movida fatta di sperimentazione artistica, eccentrica eleganza, poesia dinamica ed evocativa. Poliedrica al pari dei suoi interessi, Pinina Garavaglia annovera nel proprio Curriculum esperienze come autrice teatrale d’avanguardia e studi di danza classica (è stata allieva nientemeno che della Maestra Maria Cumani, seguace della scuola di Isadora Duncan e moglie di Salvatore Quasimodo), ma in seguito ha messo a frutto il suo estro nelle vesti di autrice di inconfondibili versi in rima e di art director. Organizzatrice di eventi, di epiche feste nei club più cool, PR, image maker, raffinata conoscitrice della fenomenologia della vita notturna ma anche di poesia, arte, antiquariato, lirica  e balletto…la Contessa è tutto questo e molto altro ancora. Incasellarla in definizioni è riduttivo, preferisco prendere in prestito le parole con cui si è descritta durante un’ intervista rilasciata a Sipario.it: “una Regina dell’ Effimero Apparente”. Ma – come afferma la stessa Garavaglia – “nulla è apparente più dell’ effimero”, che riflette l’essenza dell’ uomo e del suo tempo nei momenti dello svago, quando ogni sovrastruttura viene abbandonata. Colta e brillante, la Contessa ha sempre ostentato look stravaganti (i suoi eclatanti cappelli sono leggendari) dimostrando come un’ esteriorità eccentrica e ostentatamente frivola possa convivere con un’ interiorità profonda. Gli spettatori della TV l’hanno conosciuta grazie a programmi quali il “Maurizio Costanzo Show”, “Pronti a tutto”, “Mattino 5”, il popolo della notte la venera come una dea: non è un caso che Pinina Garavaglia abbia voluto mettersi in gioco anche nel ruolo di vocalist. Il suo genere musicale? Un sound elettronico di matrice trance rivolto, of course, al mondo delle discoteche. Tra i brani che ha reso famosi, “L’ Occhio del Pensiero” rimane un cult. Pinina declama i suoi versi su un tappeto di note incalzantI che invitano a lasciarsi andare, a scatenarsi, a immergersi nelle atmosfere incantate e fiabesche evocate dalla “Contessa Rock”.

 

L’ artwork di “Iconic”

Oggi Pinina Garavaglia torna con “Iconic”, un pezzo travolgente firmato da Bitinjuice e curato da Sergei Antonov per quanto riguarda il video concept. Significativamente introdotto da una frase di Samuel Beckett che recita “Dance first. Think later. It’s the natural order”, il brano nasce come un tributo che la Contessa rivolge alla sua carriera di vocalist e si snoda su un ritmo martellante irresistibile. E’ un sound che rievoca gli anni ’90, quello di “Iconic”, il periodo di maggior splendore della nightlife italiana: trasmette vibrazioni positive, fa rivivere l’incredibile mood underground dell’ epoca, rimanda ai tempi in cui esprimersi attraverso il look, essere unici e irripetibili era un must assoluto. Pinina Garavaglia ci guida in questo viaggio a ritroso declamando un’ ipnotica filastrocca in rima. Il tema? Una festa liberatoria e palpitante dove la “polvere di stelle sfavilla sulla pelle” e le “gocce di cristallo” trasudano dagli “astri blu cobalto”. I versi della Contessa Garavaglia hanno il potere di trascinarci in un vortice di suggestioni: “nessuno ti può fermare, con le tue ali devi volare, in alto, in un cielo nero, ma con le stelle nel tuo pensiero”…E’ come un rituale collettivo al quale abbandonarsi tutti insieme, con gioia e con un pizzico di nostalgia per un periodo in cui eravamo liberi di incontrarci, di ballare, di ritrovarci senza rischiare assembramenti nè contagi. Una realtà che “Iconic”, peraltro, non tralascia di menzionare. Il brano si conclude infatti con un sibillino “e fra cent’anni non si sa quale mondo ci sarà”. Proprio così: chissà quale sarà il mondo del futuro. L’importante è non perdere mai la cognizione di tutto ciò che ruota attorno al concetto di “ballo”: la convivialità, l’ armonia, l’ espressione di sé, la rappresentazione artistica, l’ interazione, la seduzione e, last but not least, l’audacia creativa. Perchè “audace ci piace”, citando il noto motto della Contessa Garavaglia.