La Chunga

 

“E’ una donna snella e senza età, dall’ espressione dura, la pelle liscia e tesa, ossa robuste e modi energici, che guarda la gente dritto negli occhi. Ha i capelli sciolti e scuri, tenuti a posto da un nastro; una bocca fredda, dalle labbra sottili, che parla poco e sorride raramente. (…) A volte è scalza e a volte porta sandali senza tacco. E’ una donna efficiente; amministra il locale con pugno di ferro e sa farsi rispettare. Il suo fisico, la sua severità, la sua laconicità mettono soggezione; è raro che gli ubriachi cerchino di passare la misura con lei. Non accetta confidenze nè galanterie; non le si conoscono fidanzati, amanti, nè amicizie. (…) Nella memoria dei piurani che frequentano il posto, lei sta, sempre seria e immobile, dietro il bancone. Va, qualche volta, al Variedades o al Municipal a vedere un film? Qualche sera di riposo, passeggia per la Plaza de Armas? Va al Malecòn Eguiguren o al Viejo Puente a bagnarsi nelle acque del fiume – se ha piovuto sulla Cordillera – all’inizio di ogni estate? Assiste alla sfilata militare, nelle Fiestas Patrias, fra la moltitudine assiepata ai piedi del monumento a Grau? Non è donna a cui si possa strappare una conversazione; risponde a monosillabi o con cenni del capo e se la domanda è una spiritosaggine la sua risposta è di solito sgarbata o tira subito in ballo la madre dell’ incauto interlocutore. “La Chunguita, – dicono i piurani, – non si fa mettere i piedi sulla testa da nessuno”. Gli inconquistabili – giocano a dadi, brindano e scherzano al tavolo che sta, esattamente, sotto la lampada al cherosene appesa a una trave e intorno alla quale svolazzano gli insetti – lo sanno molto bene. Sono vecchi clienti, dall’epoca in cui il bar era di un certo Doroteo, con cui la Chunga, prima, si associò e che, poi, buttò fuori (i pettegolezzi locali dicono che lo fece a bottigliate). Ma, nonostante che vengano qui due o tre volte alla settimana, neppure gli inconquistabili potrebbero dirsi amici della Chunga. Conoscenti e clienti, niente più. Chi, a Piura, potrebbe vantarsi di conoscere la sua intimità? (…) La Chunga non ha amici. E’ un essere selvatico e solitario, come uno di quei cactus dell’arenile piurano.”

Mario Vargas Llosa, da “La Chunga” (traduzione di Ernesto Franco, Giulio Einaudi editore)

 

Neon Lights, September Lights

 

È di notte che è bello credere alla luce.
(Edmond Rostand)

8 Settembre, il sole tramonta alle 19.39. Il buio arriva sempre più presto, alle 20 il cielo è già quello della notte. Che cosa c’è di bello, quindi, nelle sere di questo mese? La risposta è molto semplice: il tripudio di luci che si accende sulla città. Che si tratti di antichi lampioni o di insegne luminose, il risultato non cambia: sono momenti ad alto tasso di suggestività. Luci e colori animano i centri urbani, li fanno vivere e risplendere anche in notturna. Se poi parliamo di luci al neon, l’ effetto è mozzafiato. Cromie vibranti, intermittenti, in technicolor animano la metropoli e diventano una sorta di termometro della sua nightlife: il numero di neon che sfavillano è direttamente proporzionale all’ offerta di locali, discoteche, ristoranti e bar di una determinata città. Come lo scorso anno, VALIUM dedica una speciale photostory alle “neon lights” di Settembre. Perchè, come dichiara Edmond Rostand nell’ epigrafe di questo articolo, “è di notte che è bello credere alla luce”. Soprattutto se è una notte settembrina.

 

 

 

 

Notte d’agosto lungo la via Emilia

 

” Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche e dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata. Lungo la via Emilia ne incontro le indicazioni luminose e intermittenti, i parcheggi ampi e infine le strutture di cemento e neon violacei e spot arancioni e grandifari allo iodio che si alzano dritti e oscillano avanti e indietro così che i coni di luce si intrecciano alti nel cielo e pare allora di stare a Broadway o nel Sunset Boulevard in una notte di quelle buone con dive magnati produttori e grandi miti. Ne immagino ventuno ma prima di entrare in Parma sono già trentatré, la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché. “

 

Pier Vittorio Tondelli, da “Camere separate”

La mappa del mondo

 

” Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’è in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c’è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima. In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. “

 

Alessandro Baricco, da “Novecento. Un monologo”

Il luogo

 

Un luogo? All’ aria aperta. Che sia nel dehors di un bar o di un locale, in giardino, in un prato, in campagna, di fronte al mare…E’ ora di ricominciare a vivere assaporando le atmosfere frizzanti dell’ Estate in arrivo. E di ripristinare, rigorosamente, il rito dell’ aperitivo troppo a lungo abbandonato giocoforza: potete immaginare qualcosa di meglio, a fine giornata, di un buon drink affacciato sui magnifici tramonti di Giugno? Rappresenta una pausa, o sarebbe più appropriato dire un rituale, all’ insegna della convivialità e del relax “vivace”, quello fatto di chiacchiere, sorrisi e risate liberatorie; momenti che si incastrano mirabilmente nella cornice di una Primavera che presto lascerà spazio alla magia ed alla suggestività del Solstizio d’Estate. La riapertura generale ci sta dando la possibilità di godere delle prime serate di aria tiepida, con i capelli scompigliati da una leggera brezza e il viavai cittadino che non si arresta neppure alle fatidiche otto di sera: anzi, semmai è proprio a quell’ ora che le vie e le piazze cominciano a brulicare di vita. Personalmente, il mio “all’ aria aperta” è sinonimo di “a contatto con la natura”. Perchè non mi stancherò mai di stupirmi davanti alla sua meraviglia, di riscoprirla ogni volta, di ammirare fin nei minimi dettagli la sua perfezione. Come disse William Shakespeare, ” E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene.”: chi mi conosce sa che, non a caso, sono una delle sue più grandi ammiratrici…