Le maschere del Carnevale veneziano nel corso dei secoli: tra sfarzo, giocosità e proibizioni

 

Lucius Rossi (1846-1913), “Il ballo in maschera”, Ca’ Rezzonico, Venezia. Olio su tela

Non è la prima volta che parliamo del Carnevale di Venezia, ma in questo articolo approfondiremo ulteriormente un argomento apparso spesso su MyVALIUM, quello delle maschere. Stavolta cambieremo prospettiva: lo affronteremo dal punto di vista sociale. Il 1700, come abbiamo già visto, rappresentò l’epoca di massimo fulgore del Carnevale veneziano. Nella Serenissima si festeggiava per ben sei mesi: il Carnevale iniziava a Santo Stefano e terminava solo quando scoccava la mezzanotte di Martedì Grasso. In un tripudio di spettacoli, fuochi pirotecnici, balli, canti, rappresentazioni teatrali, maschere ed esibizioni di artisti di strada, Venezia diventava la capitale non solo italiana, bensì europea, del divertimento sfarzoso. Fu allora che si impose la celebre maschera della baùta, che conquistò anche Giacomo Casanova. I giovani artistocratici veneziani non stavano a guardare, e adunatisi in compagnie dette “Compagnie della Calza” per le calze elaborate, coloratissime e fantasiose che indossavano, cominciarono ad occuparsi dell’ ideazione e della realizzazione degli spettacoli e degli svaghi carnascialeschi. I nomi che le varie compagnie si diedero erano estrosi come chi ne faceva parte: Ortolani, Zardinieri, Uniti, Floridi, Concordi, Sempiterni…Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo, a Venezia si contavano 23 compagnie. Nei 16 teatri veneziani (un numero incredibile, per quell’epoca) gli spettacoli abbondavano e attiravano spettatori da tutta Europa.

 

Carl Ludwig Friedrich Becker (1820-1900), “Carnevale a Venezia”, olio su tela

Indossare una maschera, tuttavia, non costituiva meramente un atto giocoso: era il 1094 quando il Doge Vitale Faliero firmò un decreto dove denunciava il proliferare degli eventi criminosi favoriti dall’uso delle maschere e dei travestimenti carnevaleschi. Tutto ciò va ricondotto al lunghissimo periodo in cui, a Venezia, si svolgeva il Carnevale. La maschera  (solennità religiose a parte), si poteva indossare ininterrottamente, da Santo Stefano fino alla notte di Martedì Grasso. Ma non solo. Ne era permesso l’utilizzo anche durante le festività dell’Ascensione di Gesù, che duravano 15 giorni. Se tutto andava bene, insomma, non si toglieva se non alla metà di Giugno. Con l’inizio dell’Autunno, ci si poteva rimettere tranquillamente in maschera dal 5 Ottobre fino alla Novena di Natale.

 

La baùta (a destra nella foto)

E non finiva qui. Indossare una maschera, la baùta in particolare, era concesso in tutte le serate di gala o durante le feste istituite dalla Serenissima Repubblica di Venezia. La baùta poteva celare molti volti: per esempio, i frequentatori abituali del Casinò (che non di rado erano rincorsi dai creditori) e i barnaboti, ovvero i nobili indigenti, ne facevano regolarmente uso. Ma l’insofferenza nei confronti delle maschere, di tanto in tanto, riesplodeva fragorosamente. Ricordate l’usanza degli “ovi odoriferi”? (rileggetela qui) Ebbene, nel 1268 venne vietata a tutti gli individui di sesso maschile che indossavano una maschera. A partire dal 1300 le proibizioni si intensificarono. Il 22 Febbraio del 1339, nel pieno del Carnevale, un decreto impedì a tutti i “mascherati” di uscire nottetempo.

 

Pietro Longhi (1701-1785), “La venditrice di essenze”, 1756 ca., Ca’ Rezzonico

Nel 1458, precisamente il 24 Gennaio, apparve un decreto ancora più eclatante: pene severe erano previste per tutti quegli uomini che, in abiti femminili, solevano penetrare nei conventi con il fine di sedurre le suore. Sulla falsariga di questo editto ne vennero emanati molti altri. Dal 3 Febbraio 1603 in poi, ad esempio, fu vietato di recarsi in maschera nei parlatori dei monasteri. Molto spesso, in definitiva, la maschera era utilizzata a scopi illeciti, immorali o truffaldini. Era stato anche proibito, non a caso,  che le maschere nascondessero nel loro travestimento oggetti contundenti o armi di qualsiasi tipo. Grazie ad ulteriori decreti, chiunque indossasse una maschera non poteva più entrare in chiesa.

 

Ritratto di donna in moretta, una celebre maschera veneziana

Tutto precipitò nel 1608. Il 13 Agosto di quell’anno, infatti, il Consiglio dei Dieci decretò che la maschera veniva utilizzata per troppo tempo nell’arco dell’anno, provocando gravi conseguenze per il quieto vivere e la convivenza sociale: il suo uso fu quindi relegato al Carnevale e alle ricorrenze ufficiali. Chi trasgrediva veniva rinchiuso in prigione per due anni, era condannato a remare per ben 18 mesi (e con i piedi legati) in una nave da guerra o da commercio detta galera, ed era tenuto a pagare una multa che ammontava a 500 lire, un’enormità, al Consiglio dei Dieci. Dell’anonimità che garantisce la maschera, nel corso dei secoli, erano solite approfittare anche le prostitute. Il Consiglio dei Dieci stabilì che le prostitute in maschera dovessero essere fustigate per tutto il tragitto che da Piazza San Marco conduceva alla zona di Rialto, poi sarebbero state esposte al disprezzo generale tra le due colonne di San Marco. Ma non basta: per loro era previsto l’esilio dalla Serenissima per quattro anni e il pagamento di 500 lire ai dieci membri del Consiglio veneziano.

 

Kirchhoff: “Mad. Desargus und Melle. Galster In dem Pas de deux im Ballet„ Das Carneval von Venedig”, 1827, in Berliner Theater-Almanach auf das Jahr 1828, ein Neujahrs-Geschenk für Damen”

Intorno alla metà del 1600 vi fu un rafforzamento del decreto che vietava alle maschere di girare armate, di entrare nei luoghi di culto e di indossare l’abito talare come travestimento. L’utilizzo della maschera venne ridotto drasticamente tra il 1600 e il 1700. Nel 1718 fu proibito di mascherarsi anche in Quaresima. Ma dobbiamo attendere la fine della Serenissima per veder sparire le maschere pressochè definitivamente: con la dominazione austriaca, a Venezia venne vietato di indossare la maschera se non durante i balli e le feste dell’élite. Dal 1815, il Regno Lombardo-Veneto  ripristinò l’uso della maschera limitandolo esclusivamente al periodo del Carnevale. Ormai, però, i veneziani si sentivano stanchi e privati della propra libertà. Trascorsero molti anni prima che il Carnevale di Venezia poté ritrovare i suoi antichi fasti: lo fece nel 1978, grazie all’ex sindaco Mario Rigo.

 

Foto: dipinti e illustrazioni, Public Domain via Wikimedia Commons. Foto del Carnevale di Venezia contemporaneo via Pexels e Unsplash

 

Martedì Grasso in maschera

 

“Spesso una maschera ci dice più di un volto.”
(Oscar Wilde)

 

Martedì Grasso: l’ultimo giorno di Carnevale e il più esplosivo, il più pazzo, il più ricco di festeggiamenti. Oggi, “maschera” è la parola d’ordine assoluta. Perchè indossare una maschera è tassativo, se si vuole festeggiare davvero. Ma come nasce questa tradizione? A Venezia va il merito di averla introdotta nelle celebrazioni carnascialesche, che ebbero inizio intorno al 1000 d.C. Il primo documento in cui viene citato il Carnevale risale al 1094 ed è firmato dal Doge Vitale Falier. All’ epoca della Repubblica di Venezia venne istituito un periodo interamente votato al divertimento e alla goliardia con lo scopo di diluire le tensioni e il malcontento del popolo in un vortice di feste, danze e bagordi sfrenati. Maschere e costumi contribuivano ad azzerare le gerarchie sociali, ma l’anonimato garantiva anche il pubblico sbeffeggio dell’aristocrazia e delle figure istituzionali. Al Carnevale di Venezia, nel Medioevo, per le maschere non esistevano più regole ed erano tollerati persino gli insulti al Doge. Tramite la maschera l’identità veniva completamente stravolta. Spariva qualsiasi riferimento al ceto di appartenenza, al sesso, all’età, ai dati sensibili dell’ individuo. Per evitare clamorosi malintesi, “Buongiorno, signora maschera” era l’unico saluto che ci si scambiava. Travestirsi rappresentava, inoltre, un’ ottima valvola di sfogo. Uscire da se stessi per qualche giorno costituiva una sorta di liberazione, una fuga dalla quotidianità e dalla monotonia delle abitudini. Le maschere affollavano Piazza San Marco, le calli e i campi principali in un meraviglioso tripudio di colori, Venezia diventava un enorme palcoscenico dove regnavano la burla e il divertimento.

 

 

Il successo ottenuto dai travestimenti fu tale che nel 1271 la Serenissima divenne la sede di un fiorente commercio di maschere di Carnevale: proliferavano le scuole, le botteghe artigianali, le tecniche e i materiali utilizzati per plasmarle. Due secoli dopo, per la precisione nel 1436, uno statuto riconobbe ufficialmente il mestiere del “mascarero”. Questi artigiani cominciarono a impreziosire le maschere con dettagli sempre più pregiati. Dopo averle modellate sul gesso, l’argilla, la carta o la cartapesta, le tingevano dei colori prescelti e le arricchivano di piume, perle, arabeschi, ricami, dorature e via dicendo. Tra gli esemplari più richiesti a partire dal 1700, l’epoca d’oro del Carnevale di Venezia, rientravano la Baùta (una maschera bianca da abbinare a un tricorno e un mantello neri), la Gnaga (una maschera che riproduceva il muso di un gatto) e la Moretta (una mascherina in velluto nero), destinata al “gentil sesso”. Questi tre modelli rimangono in uso a tutt’oggi e sono ancora richiestissimi nelle botteghe veneziane. Ma è poi vero che tramite una maschera ci è possibile annullare totalmente la nostra identità? Anche la scelta di interpretare un personaggio diverso da noi stessi, in realtà, la dice lunga su chi siamo e sulla nostra percezione del sè. A volte, sebbene possa sembrare un paradosso, soltanto liberandoci dalla maschera che indossiamo giorno dopo giorno riusciamo a mostrarci per come siamo realmente.

 

 

C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando resti da solo, non rimane più niente.”
(Luigi Pirandello)

 

 

Non dal volto si conosce l’uomo, ma dalla maschera.”
(Karen Blixen)

 

 

“Durante il Carnevale, l’uomo mette sulla propria maschera un volto di cartone.”
(Xavier Forneret)

 

 

“Ci sono tanti che hanno sempre la stessa maschera, e quando gliela si vuole strappare ci si accorge che è il loro volto.”
(Elias Canetti)

 

 

“Nascondi ciò che sono
e aiutami a trovare la maschera più adatta
alle mie intenzioni.”
(William Shakespeare)

 

 

“Il mondo è un vasto teatro in cui ognuno interpreta la sua parte con la maschera sul naso.”
(Axel Oxenstierna)

 

 

 

Martedì Grasso: Venezia, le maschere e i “mascareri”

 

“Spesso una maschera ci dice più di un volto.”
(Oscar Wilde)

 

E’ una storia antichissima, quella del Carnevale veneziano. Un documento del Doge Vitale Falier attesta la sua esistenza già nel 1094, ma solo nel 1296 venne dichiarato festa pubblica con un editto del Senato della Repubblica di Venezia. A quei tempi il Carnevale iniziava il mese di Ottobre, a volte il giorno di Santo Stefano, per poi protrarsi (in entrambi i casi) fino al mercoledì delle Ceneri. Un tripudio di maschere e costumi favoriva il divertimento più sfrenato: nell’ anonimato, scatenarsi in balli, burle e satire non provocava alcun imbarazzo. La Serenissima, anzi, incoraggiava simili comportamenti. Non è un caso che il Carnevale fosse stato istituito in base al principio “panem et circensem”, garantendo una valvola di sfogo per il malcontento del popolo nei confronti del governo. La maschera, in particolare, divenne un elemento fondante del Carnevale lagunare. Lo scopo con cui veniva indossata era ben preciso: assicurava il livellamento sociale eliminando ogni differenza rispetto al sesso, all’ età, alla religione, al ceto di appartenenza. Tutti potevano sbizzarrirsi nel tramutarsi in qualcun altro, l’ identità assumeva le sembianze di un mero travestimento. Lungo le calli e i campi, il saluto che ci si scambiava era solo uno: “Buongiorno, siora maschera!”. Celare il volto donava un’ indicibile sensazione di libertà; ci si allontanava dal proprio io e dal proprio quotidiano, alimentando la fantasia con la creazione di sempre nuovi personaggi. La gioia, la giocosità e la licenziosità spadroneggiavano, sul grande palcoscenico veneziano. Una folla mascherata e variopinta dava vita ad una sorta di spettacolo permanente. La maschera, che nella preistoria si indossava durante i rituali religiosi, a Carnevale diventava una complice, una fedele alleata che permetteva di dedicarsi a frizzi e lazzi di ogni tipo.

 

 

Dal 1271 in poi, di conseguenza, a Venezia si sviluppò un fiorente artigianato delle maschere. Sorsero scuole e botteghe, vennero ideate nuove tecniche di lavorazione. I materiali utilizzati erano l’argilla, il gesso, la cartapesta, la garza, modellati grazie a strumenti sempre più specifici. Gli ornamenti delle maschere veneziane divennero celebri: i “mascareri” le impreziosivano con un trionfo di arabeschi, piume e perline accentuandone la sontuosità straordinaria. A poco a poco, si moltiplicarono le fogge e le decorazioni. Il savoir faire artigianale raggiunse livelli di sublime minuziosità, creando maschere che erano degli autentici capolavori. Uno statuto promulgato il 10 Aprile 1436 riconobbe ufficialmente il mestiere del mascarero; ciò favorì un ulteriore incremento nella produzione del più importante accessorio carnascialesco.

 

 

Nel periodo d’oro del Carnevale veneziano, il ‘700, si affermò la cosiddetta Baùta: un travestimento che constava di una maschera bianca detta “larva” unita ad un tricorno e ad un tabarro rigorosamente neri. Uomini e donne adottarono la Baùta all’ unanimità, anche perchè il suo utilizzo non era esclusivamente riservato al Carnevale. La si indossava a teatro, durante le feste, e garantiva uno strategico anonimato per le avventure galanti. Inoltre, la forma rialzata della maschera nella parte inferiore del volto permetteva di bere e di mangiare senza problemi. Tra le donne, anche la Moretta era molto diffusa. Si trattava di una mascherina tonda in velluto nero che si abbinava, solitamente, a un look altamente raffinato. Indossarla non era il massimo della comodità: per mantenerla sul viso si doveva stringere tra i denti un bottone interno, il che rendeva pressochè impossibile la conversazione. Ma a Carnevale ogni scherzo vale e tutto si può fare, per cui il mutismo della donna in moretta veniva equiparato a un seduttivo alone di mistero. Agli antipodi di questa figura di dark lady si colloca la maschera della Gnaga, che esibiva dei marcati lineamenti felini. Il suo nome, non a caso, deriva da “gnau”, in dialetto veneziano il “miao” del gatto. Gli uomini la adoravano: si accompagnava a un travestimento da donna che includeva un cestino contenente un micio, e favoriva una metamorfosi a tutto tondo. Le Gnaghe erano popolane irriverenti che si esprimevano con voce stridula, simile appunto al miagolio di un gatto, e di frequente sbeffeggiavano i passanti o li stupivano con scherzi al limite della trivialità. Pare che anche gli omosessuali ricorressero a questo travestimento per girare per Venezia indisturbati. Era comune, inoltre, che la Gnaga rivestisse il ruolo di una balia: nel suddetto caso, la seguiva un esilarante corteo di uomini travestiti da bambini.