La colazione di oggi: il crumble, una croccante delizia

 

Quale colazione scegliere, per il periodo di passaggio tra Inverno e Primavera? Il crumble, ad esempio: è energetico, sostanzioso e può essere preparato in due versioni, sia salata che dolce. Proviene dal Regno Unito e dalla verde Irlanda, e il suo nome deriva dal verbo “to crumble”, “sbriciolare” in inglese. A comporre il crumble, infatti, è un impasto a base di burro, zucchero e farina che viene completamente sbriciolato; la superficie risulta crocccante grazie a una cottura in forno ad hoc. La versione dolce di questo pasto si ottiene utilizzando ingredienti come la frutta cotta, a cui può essere aggiunta una buona dose di uvetta. Se invece si preferisce un crumble salato, è necessario sostituire alla frutta la verdura, un po’ di carne e del formaggio spalmabile. Spezie come la vaniglia e la cannella, insieme alla granella di mandorle o nocciole, accomunano la ricetta delle due varianti. Il crumble dolce è molto goloso: prova ne è il fatto che, non di rado, viene guarnito con la crema pasticcera o la panna montata. Il crumble salato, invece, solitamente si accompagna a una dose extra di verdure.

 

 

Ma qual è la frutta maggiormente utilizzata per realizzare la variante dolce? Solitamente si prediligono le mele, il rabarbaro, le prugne, il cocco e l’uva, ma anche le pesche e le more. Vengono spesso abbinati diversi frutti, come le mele e il rabarbaro o, in estate, le pesche, le albicocche, i mirtilli e i ribes rossi.

 

 

La copertura del crumble, come abbiamo già detto, dev’essere croccante. A questo scopo ci si avvale della frutta secca (mandorle, noci e nocciole in particolare) tritata o di cereali, fiocchi di avena, biscotti spezzettati. Per rendere ancora più fragrante la superficie si usa dello zucchero di canna: caramellizza dopo la cottura ed ha un gusto inconfondibile. Consumato a colazione, il crumble dona il vigore necessario per affrontare la giornata. E’ “ricco”, altamente nutriente. E pensare che nacque come pasto povero, nel Regno Unito, per sopperire al razionamento del cibo durante il secondo conflitto mondiale.

 

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La fika: alla scoperta della pausa conviviale e rilassante adorata dagli svedesi

 

Cos’è la fika? In Svezia, questo termine indica una pausa conviviale e rilassante che si effettua come minimo due volte nella stessa giornata. Per gli svedesi, la fika è irrinunciabile ed è parte integrante della quotidianità: più che uno stile di vita, è ormai un’istituzione. Durante la fika, che generalmente ha inizio intorno alle dieci del mattino e alle tre del pomeriggio, ci si incontra con gli amici (o con i colleghi di lavoro) e si beve un caffè accompagnandolo ai più tipici, oltre che golosi, dolci svedesi. E poi si chiacchiera, si ride, ci si confronta…la fika è un break rigosamente all’insegna del relax, potremmo definirla un rito sociale. Dove ci si riunisce? A casa, in caffetteria, in un bar…ovunque sia possibile sorseggiare un buon caffè, bevanda-simbolo di questo break. La valenza della fika, tuttavia, va ben oltre l’identificazione con una pausa caffè. E’ il tempo che viene dedicato alla socialità, a se stessi, dimenticando per un attimo le incombenze giornaliere. Nulla vieta di effettuarla anche da soli, all’occorrenza: sono momenti che si assaporano, di solito, tuffandosi tra le pagine di un libro. L’importanza della fika è talmente rilevante che in molti luoghi di lavoro viene considerata un appuntamento fisso e imprescindibile. I dipendenti possono usufruire del break, organizzato sia di mattina che pomeriggio, per poi tornare a svolgere le proprie mansioni con rinnovata energia.

 

 

La storia

Il caffè, nelle origini della fika, riveste un ruolo decisivo. In Svezia, questa bevanda venne proibita più volte: rimane celebre l’editto promulgato dal re Gustavo III, che sancì il divieto di bere caffè dal 1794 al 1820. Il consumo clandestino di caffè, tuttavia, proseguì. Il termine fika deriverebbe da uno slang che si impose nell’Ottocento: colloquialmente, invertire le sillabe dei sostantivi era molto cool. E “kaffi” era precisamente il vocabolo con cui, a quell’epoca, gli svedesi designavano il caffè. Invertendo le sillabe si otteneva fika, un nome che ha attraversato i secoli per giungere fino a noi. All’inizio, al caffè si accompagnavano sette diversi tipi di biscotti preparati artigianalmente; intorno al 1940 venne pubblicato un libro di ricette, “Sju Sorters Kakor”, che in Svezia riscosse un enorme successo; era incentrato proprio sui biscotti destinati alla fika. Anticamente, la bontà dei biscotti era la priorità. Si realizzavano in famiglia e si offrivano agli ospiti, che ne avrebbero apprezzato la delizia. Con il passar del tempo, la fika andò tramutandosi in un rito prettamente associato alla socialità.

 

 

Bevande e dolci della fika

Durante la fika si beve solo caffè? La risposta è no. Oggi esistono molte alternative: le più comuni sono il , il latte o la cioccolata calda. Per quanto riguarda il caffè, in Svezia si prepara versando acqua calda sul caffè macinato e si serve ben caldo dopo averlo filtrato. La fika viene effettuata con calma, seduti comodamente attorno a un tavolo o a un tavolino; non c’è bisogno di dire che la fretta sia bandita, così come il consumo al banco del bar. Il dolce che tradizionalmente si accompagna al caffè, o alla bevanda scelta, è il kanelbulle, una prelibata girella alla cannella le cui origini risalgono a circa un secolo orsono. Ma non ci sono solo i kanelbullar: il termine fikabröd (“pane per la fika”) sta ad indicare tutta la varietà di dolci, siano essi torte, biscotti o dolcetti (su VALIUM troverete un approfondimento a breve), degustati nel corso di questa pausa rigenerante. Tra essi, figurano preparazioni tipicamente svedesi come la kladdkaka, considerato il dessert della fika per antonomasia. La kladdkaka è una torta al cioccolato (che può essere fondente, bianco oppure al latte) soffice e pastosa, solitamente guarnita con frutti di bosco. Accanto ad essa abbiamo altre delizie locali: ad esempio la prinsesstårta, pan di Spagna con crema alla vaniglia ricoperto di marzapane, ma anche il kringel, un dolce al burro simile al brezel, e poi la morotskaka, una torta che combina le carote con le mandorle e le spezie, oppure ancora i chockladbollar, dolcetti sferici a base di cocco e cioccolato. Ce n’è abbastanza, credo, per far scoccare un amore a prima vista tra noi e l’incantevole break svedese che risponde al nome di fika.

 

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Drip cake: la torta sgocciolante ad alto tasso di golosità

 

Nella classifica delle torte di compleanno più gettonate occupa il secondo posto: la drip cake, letteralmente “torta gocciolante”, rimane uno dei dolci preferiti per festeggiare eventi e date importanti. Il suo nome deriva dalle gocce di ganache (spesso a base di cioccolato fondente) che le colano lungo i bordi, rendendola ancora più invitante e golosa. Altre caratteristiche? E’ una punta di diamante del cake design: coloratissima, decorata con un tripudio di macarons, biscotti, cioccolatini, zuccherini e meringhe posizionati in cima, offre infiniti spunti creativi e permette di spaziare in quanto al gusto. Nasce nel Regno Unito, dove riveste il ruolo di dolce tradizionale soprattutto nel Galles, nello Yorkshire e nel Gloucestershire. Ma quali sono i requisiti fondamentali di una drip cake?

 

 

Innanzitutto l’altezza. Una drip cake, infatti, deve facilitare la colata della ganache lungo i suoi lati. E poi, la morbidezza: più soffice è, meglio è, dato che così alta potrebbe non reggere dopo essere stata imbevuta di liquore a bassa gradazione alcolica. La chiffon cake e il pan di spagna, ad esempio, hanno una consistenza perfetta per questo tipo di torta. E si prestano ad essere farciti con la crema pasticcera o chantilly. Per quanto riguarda la stoccatura, che sia impeccabile è un must. I suoi segni particolari? La compattezza, la levigatezza, l’uniformità. Senza dimenticare una dote non da poco: la squisitezza. Solitamente vengono utilizzate la ganache (un delizioso mix di cioccolata, burro e panna fresca), la panna, la crema al burro, spalmate sulla torta a partire dai bordi e subito dopo sulla cima. Affinchè la stoccatura diventi compatta e si indurisca, il dolce va conservato in frigo per qualche ora.

 

 

Creare l’effetto “sgocciolato” rappresenta lo step più importante. La ganache può essere realizzata con molteplici ingredienti. Il cioccolato fondente è il più diffuso, ma utilizzando il cioccolato bianco è possibile tingerla di svariati colori: basta munirsi di un colorante alimentare e il gioco è fatto! Alcuni la preparano anche con il liquore, con i frutti di bosco…Ciò che conta è che sia golosa e, possibilmente, variopinta. La sgocciolatura va fatta con un cucchiaio, prestando attenzione a distanziare in modo omogeneo le colature. Una volta che anche la parte superiore della torta è ricoperta di ganache, il dolce viene fatto raffreddare e successivamente si orna con un nutrito gruppo di decorazioni.

 

 

A questo punto, ci si può decisamente sbizzarrire: via libera (come accennavo a inizio articolo) a biscotti di ogni tipo, cioccolatini, marshmallows, macarons, meringhe, coni gelato rovesciati, frutti di bosco, mini bignè, barrette di cioccolato, zuccherini, mandorle tritate e via dicendo. Il risultato finale dev’essere tassativamente scenografico, di forte impatto e il più goloso possibile.

 

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La colazione di oggi: l’uovo sbattuto, per un inizio di giornata che sa d’infanzia

 

Chi appartiene alla mia generazione lo ricorderà come una delle colazioni (o merende) cardine della propria infanzia: l’uovo sbattuto, oltre che essere buonissimo, era il ricostituente lampo che ci restituiva energia dopo un’influenza o ci rinvigoriva nel pieno dell’Inverno. Chi non adorava la sua consistenza cremosa, il suo sapore zuccherato, il colore giallo oro del tuorlo che in fondo al bicchiere si faceva più intenso? Naturalmente, l’uovo sbattuto non è una delizia riservata ai bambini: vale la pena di riscoprirlo, magari arricchendolo con qualche biscotto, del cioccolato in polvere, un goccio di caffè o di liquore. Anche perchè vanta una lunga serie di proprietà e benefici. In primis, è estremamente nutriente; contiene un gran numero di proteine essenziali per l’organismo. E’ ricco inoltre di vitamina A, D, E e molte vitamine del gruppo B, così come di minerali quali il ferro, il selenio e lo zinco. La vitamina E e la luteina, di cui abbonda, sono antiossidanti che preservano le cellule dalla nociva azione dei radicali liberi. In più, l’uovo sbattuto è l’alimento ideale per una colazione veloce: si prepara in pochi minuti e, grazie alla presenza delle proteine e dei grassi buoni, regala un’immediata sensazione di sazietà.

 

 

Per prepararlo sono necessari solo due ingredienti, un uovo rigorosamente fresco e un cucchiaio di zucchero (da aggiungere in base alla cremosità desiderata). Il primo step consiste nel rompere l’uovo. Successivamente, il tuorlo e l’albume si separano. Il tuorlo va versato in un bicchiere insieme allo zucchero prima di essere sbattuto con l’aiuto di un cucchiaio o di una forchetta. Se preferite un uovo sbattuto denso e soffice, abbondate con lo zucchero; viceversa, la consistenza risulterà più liquida. Per una cremosità extra, provate a sbatterlo anche con la frusta. Volete accentuare la sua dolcezza? Aromatizzatelo con la vaniglia o la cannella. E’ importante dire che l’uovo sbattuto dev’essere consumato subito per preservare la freschezza del tuorlo.

 

 

Non bisogna confondere l’uovo sbattuto con lo zabaione, una bevanda a base di tuorlo d’uovo, zucchero e vino o liquori come il marsala e il rum. Sulle origini dell’uovo sbattuto le teorie sono controverse. Pare innanzitutto che la sua ricetta fu ispirata da quella dello zabaione; alcuni ritengono che a idearla fu un capitano di ventura, Giovan Paolo Baglioni, nel 1471, mentre per altri affonderebbe le radici nella Torino del 1500. Certo è che con il nome zabaja si indicava una bevanda veneziana “importata” dall’Illiria, la parte occidentale dell’odierna penisola balcanica.

 

La colazione di oggi: il mandarino, la star dell’Inverno

 

Quando arriva l’Inverno, il mandarino è il frutto onnipresente sulla nostra tavola. Il suo nome si ispira a quello dei notabili della Cina imperiale, che erano soliti indossare un mantello color arancio; la pianta del mandarino, infatti, proviene dalla Cina del Sud. In Europa, nel XV secolo, la sua coltivazione si è estesa a partire da paesi dal clima mite quali la Spagna e il Portogallo. Oggi, i frutteti di mandarini sono diffusissimi anche in Italia: in regioni come la Sicilia, la Campania, la Calabria e la Liguria abbondano. Questo frutto della famiglia delle Rutacee, contraddistinto da una forma sferica leggermente appiattita, si declina in varietà molteplici; la Citrus Reticulata,  la Citrus Nobilis e la Citrus Clementina rappresentano le più note. In Sicilia spicca il mandarino tardivo di Ciaculli, un Presidio Slow Food, utilizzatissimo per la preparazione di gelatine, marmellate, liquori, gelati e granite. Il mandarino è un frutto tipico dei mesi freddi, si degusta da Dicembre a Marzo. Il suo colore è identico a quello del mantello sfoggiato dai notabili dell’ Impero Cinese; la buccia, porosa, racchiude un tripudio di spicchi succosi e ricchi di semi. Il gusto è dolcissimo: il mandarino è l’agrume che contiene la maggiore quantità di zuccheri. Non risulta eccessivamente calorico, ma la presenza di fruttosio in dosi massicce richiede che venga consumato con moderazione. C’è da dire, però, che il mandarino è estremamente ricco di proprietà e benefici. Scopriamoli insieme.

 

 

Il mandarino abbonda di vitamine, acqua, sali minerali, acqua e zuccheri solubili. Predomina la vitamina C (o acido ascorbico), di cui è una vera e propria miniera, affiancata dalle vitamine del gruppo B, A e P e dall’acido folico; tra i minerali presenti in grandi quantità figurano il potassio (benefico per i muscoli),  il magnesio, il ferro e il calcio. Il bromo, particolarmente copioso nel mandarino, svolge un’azione rilassante nei confronti del sistema nervoso centrale e concilia il sonno. La vitamina C, un potente antiossidante e micronutriente, neutralizza i radicali liberi mantenendo in salute i tessuti e le cellule; inoltre, rafforza il sistema immunitario e previene i malanni da raffreddamento. Il fruttosio garantisce un notevole apporto energetico, mentre le fibre, di cui il mandarino è ricco, dotano il frutto di un’alta digeribilità e regolarizzano l’intestino. Anche la buccia del mandarino contiene un antiossidante dalle molte proprietà, il suo nome è limonene: oltre ad essere un valido disintossicante per il fegato, favorisce la produzione di serotonina e dopamina svolgendo un’azione ansiolitica e antidepressiva. Dalla buccia del mandarino viene estratto l’olio essenziale di mandarino, molto utilizzato in aromaterapia ma anche per favorire il rilassamento e la digestione.

 

 

A colazione, i mandarini possono essere consumati sotto forma di frutta, anche candita, e deliziose marmellate. Ma a base di mandarino è possibile preparare un numero illimitato di torte, dolci e biscotti ad alto tasso di golosità: cercate le ricette in rete, non avrete che l’imbarazzo della scelta.

 

 

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La colazione di oggi: la casetta di pan di zenzero, tra tradizione, arte e gusto

 

Tradizione natalizia tipica della Germania e dell’ Europa del Nord, la casetta di pan di zenzero è diffusissima anche negli Stati Uniti. In tedesco si chiama  Lebkuchenhaus o Pfefferkuchenhaus  e viene considerato il dolce più goloso e conosciuto preparato con il famoso impasto speziato (“pepparkakor” il suo nome in svedese). Ho già parlato di questa pasta biscotto a base di miele, melassa e zucchero di barbabietola aromatizzati con zenzero, cannella e chiodi di garofano (rileggi l’articolo qui), stavolta voglio soffermarmi sulla casetta e sulla sua storia. Prepararla non è molto difficile, sono le decorazioni a renderla un’opera d’arte: la pasta dev’essere compatta, dopodichè si taglia in modo da formare le parti di una casa. I pannelli, una volta cotti, si assemblano delineando la struttura di un’abitazione. Per unirli vengono usati la glassa o lo zucchero fuso; la glassa, ricoperta di zucchero a velo, serve anche a creare l’effetto neve o dettagli specifici del dolce, come le tegole. Confetti, zuccherini colorati e caramelle completano l’opera, dando un aspetto oltremodo invitante alla casetta. Lo zenzero, che ha una lunga durata di conservazione, contribuisce a mantenerla integra per molto tempo.

 

 

La preparazione dell’ impasto si avvale, oltre che del pan di zenzero, di farina, uova, burro, noce moscata e cacao; al fine di rendere la pasta sufficientemente compatta, la si lascia indurire per alcune ore. Con il pan di zenzero si possono realizzare dolcetti dalle forme più disparate: alberi di Natale, stelle, cuori (basti pensare a quelli, tipici, dei mercatini natalizi tedeschi), renne, fiocchi di neve, animali, cavalieri, santi protettori sono ed erano le più diffuse. Questi dolci cominciarono ad essere prodotti in Germania sotto forma di biscotti (i Lebkuchen) tra il XIII e il XIV secolo. Norimberga, in particolare, considerata la “capitale mondiale del pan di zenzero”, divenne celebre per i capolavori artistici che i fornai realizzavano con il pan di zenzero nel 1600. Nel resto d’Europa, la golosissima pasta biscotto arrivò nel XIII secolo. In Svezia il “pepparkakor” venne diffuso dagli immigrati tedeschi, mentre pare che gli omini al pan di zenzero fossero abitualmente preparati alla corte di Elisabetta I Tudor a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

 

 

Nel XVII secolo, produrre dolci al pan di zenzero si tramutò in una professione che rientrava in una corporazione specifica. Le creazioni erano elaboratissime, impreziosite da elementi ornamentali, e coniugavano il gusto con la pura bellezza; a Natale, venivano vendute soprattutto nei mercatini e nelle bancarelle poste in prossimità delle chiese. La produzione “artistica” di pan di zenzero, in Europa, divenne una realtà consolidata nelle città di Norimberga, Lione, Praga, Pest, Torùn e in molti altri centri sparsi tra la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca. Con la massiccia emigrazione tedesca negli Stati Uniti, successivamente, la tradizione invase paesi a stelle e strisce come il Maryland e la Pennsylvania. Ma come nacque l’usanza delle casette al pan di zenzero?

 

 

La loro origine viene fissata a Norimberga, dove tra il 1500 e il 1700 i mercanti erano soliti importare enormi quantità di spezie quali appunto lo zenzero, la cannella, il pepe e le mandorle, mentre l’apicoltura a cui era consacrata la foresta reale garantiva una produzione di miele continua. Secondo una leggenda, la creazione delle prime casette risalirebbe proprio a quell’epoca: un fornaio che viveva nella città tedesca cominciò a prepararle sostituendo la farina con le mandorle per destinarle a sua figlia, affetta da una patologia rara. Secondo gli studiosi, invece, la casette al pan di zenzero vennero prodotte a partire dal 1800: in seguito alla pubblicazione della fiaba “Hansel e Gretel” dei Fratelli Grimm, nel 1812, un gran numero di fornai pensò di riprodurre la casa di leccornie con cui la strega attira i due protagonisti. Inutile dire che fu il pan di zenzero a plasmare quelle casette, che prontamente andarono a ruba. Questo dolce si impose durante le festività natalizie, e a tutt’oggi nulla è cambiato.

 

 

Nel 1800, le casette “raggiunsero” anche il Regno Unito: Thomas Hardy le cita in “Jude l’oscuro”, che apparve sotto forma di romanzo nel 1895, mentre nel ricettario “Dinner With Dickens: Recipes Inspired by the Life and Work of Charles Dickens”, uscito non molti anni orsono, la casetta di pan di zenzero è inclusa tra i dolci associati alla vita e all’opera di Dickens.

 

 

Oggi, a Norimberga vengono prodotte annualmente più di 70 milioni di casette. La città tedesca può essere considerata la città simbolo di questo dolce natalizio, che ha ottenuto peraltro il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Tuttavia, la gingerbread house rientra a pieno titolo anche tra le tradizioni natalizie del Nord Europa: il pan di zenzero, ricco di calorie, è un valido aiuto per contrastare le temperature polari della penisola scandinava. Nei paesi in cui la casetta è diffusa, inoltre, la tipicità gioca un ruolo molto importante. In famiglia, nei giorni che precedono il Natale, ci si riunisce tutti insieme per preparare il dolce; in Germania è possibile trovarlo in ogni mercatino nel periodo delle festività. In Svezia, la ricorrenza di Santa Lucia coincide con l’inizio della preparazione delle casette. In determinati luoghi vengono creati dei maestosi villaggi al pan di zenzero: il più grande a livello mondiale è Pepperkakebyen, costruito in Norvegia dagli abitanti di Bergen; notevoli e molto conosciuti sono anche Gingertown, la città di pan di zenzero realizzata a Washington, e il villaggio dell’ Hotel Marriott Marquis di New York, che contiene persino un treno.

 

 

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Le Fave dei Morti, il tradizionale dolce marchigiano per i defunti: origini, storia, simbologia e ricette

 

In occasione delle ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, celebrate rispettivamente l’1 e il 2 Novembre, in Italia si usa preparare i cosiddetti “dolci dei morti”. Si tratta di dolcetti tradizionali preparati con ingredienti semplici e frugali, spesso a base di mandorle, diffusi in tutte le regioni della penisola: possono essere dei biscotti, la cui forma rimanda di frequente alle ossa umane (le “Ossa dei Morti” sono popolarissime in Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia, nel senese e nelle Marche),  delle specifiche tipologie di pane e di panini (rintracciabili in Trentino, Maremma, Sicilia e Lombardia), dei prodotti di pasticceria a base di marzapane (per esempio le “Dita di Apostolo” e la “Frutta di Martorana” della tradizione calabrese e siciliana), oppure varianti del torrone come il tipico “Torrone dei Morti” napoletano. Voglio soffermarmi, però, su un dolce caratteristico della mia regione, le Marche, oltre che di regioni del centro Italia quali il Lazio, l’Umbria e l’ Emilia Romagna: le “Fave dei Morti”.

 

 

Sono dei biscotti dalla forma generalmente ovale o tondeggiante, simili agli amaretti ma solo nell’ aspetto. Il denominatore comune di tutte le versioni, che differiscono a seconda della zona di provenienza, sono le mandorle tra gli ingredienti principali. Ma perchè il nome “Fave dei Morti”, e come è nata questa tradizione? Pare che l’usanza abbia avuto origine dall’antichissima credenza secondo cui i defunti, tra l’1 e il 2 Novembre, tornassero nel mondo dei vivi. In quell’occasione, veniva organizzata per loro un’accoglienza all’insegna della dolcezza. Ogni famiglia, all’epoca, manteneva ben saldo il legame con i propri antenati e ne onorava il ricordo costantemente. I dolci preparati durante le festività dei Morti, dunque, venivano offerti a questi ultimi (oltre che a tutti i familiari) per celebrare il loro ritorno dall’ aldilà. Bisogna innanzitutto precisare che la ricetta delle “Fave dei Morti” non ha niente a che vedere con le fave: in tempi remotissimi, questo legume era considerato un tramite tra l’Ade, il regno dei morti, e il mondo tangibile.  La fava veniva associata all’ oltretomba in tutta l’area del Mediterraneo. Gli antichi Romani, ad esempio, erano soliti omaggiare con delle fave il dio dei Morti e le consideravano un emblema delle anime dei defunti. Secondo alcuni studiosi, la fava assunse questa valenza simbolica in virtù del suo fiore: i petali candidi esibiscono una macchia nera che fu paragonata alla T di “Thanatos”, dal greco θάνατος ovvero “Morte”; lo stelo, inoltre, è lineare e ha radici che si sviluppano in profondità nel terreno. Entrambi i dettagli vennero interpretati come l’indizio di un collegamento tra la fava e l’aldilà, poichè si pensava che l’Ade fosse collocato nelle viscere del suolo.

 

 

Per certi popoli, l’anima dei defunti si celava proprio all’ interno della fava, e calpestarne qualcuna in un campo rappresentava un autentico sacrilegio; mangiare fave, al contrario, significava stabilire una connessione con una persona passata a miglior vita. Erano molti i rituali che rinsaldavano il nesso tra le fave e il regno dei Morti. Si usava, ad esempio, offrirle in dono a un defunto depositandole sulla sua tomba. Queste pratiche, non di rado, erano impregnate di superstizione. Per far sì che i trapassati riposassero in pace, si cospargevano di fave i loro sepolcri. Lanciare fave dietro le proprie spalle recitando litanie propiziatorie aveva, invece, una funzione redentrice. Durante i banchetti funebri, le fave costituivano la pietanza principale: quelle cotte erano riservate ai benestanti, mentre i poveri dovevano accontentarsi delle fave crude. Con l’avvento del Cristianesimo, il legame che associava la fava all’Ade non venne mai meno. Tra il 900 e l’anno 1000, l’abate benedettino Odilone di Cluny promulgò una riforma atta a far coincidere la Commemorazione dei Defunti con il lasso di tempo compreso tra i vespri del 1 Novembre e l’eucarestia del giorno seguente. Per permettere ai monaci di pregare tutta la notte, l’abate lasciava loro un gran numero di fave con cui sfamarsi. In occasione delle solennità dei Morti, inoltre, i poveri potevano usufruire di ciotole di fave poste ad ogni angolo di strada. Con Odilone di Cluny questo legume divenne cibo di precetto, ma diversi secoli dopo fu sostituito dai golosi dolcetti battezzati “Fave dei Morti”. I biscotti a base di mandorle, con la loro forma tondeggiante, simboleggiavano alla perfezione il viaggio di sola andata che l’anima compie verso il sonno eterno. In Umbria, non a caso, le Fave dei Morti venivano vendute nelle bancarelle che il 2 Novembre si posizionavano proprio accanto ai cimiteri.

 

 

La preparazione delle Fave dei Morti è piuttosto semplice: gli ingredienti principali sono le mandorle (pelate) e lo zucchero bianco, a cui si aggiungono la farina, il burro, la scorza di limone, i tuorli d’uovo e la cannella in polvere. Per l’impasto esistono diverse versioni; una di queste prevede che le mandorle e lo zucchero vengano pestati a parte, insieme, per poi essere uniti agli altri ingredienti. Un’altra ricetta suggerisce di mescolare la farina, le mandorle tritate, lo zucchero e il burro tagliato a pezzetti aggiungendo subito dopo la scorza di limone grattugiata, la cannella e le uova sbattute. A questo punto si ottiene un impasto morbido che va suddiviso in palline da cuocere in forno, a 180 gradi, per un quarto d’ora. Se le versioni delle Fave dei Morti sono molteplici, comunque, il risultato è unico: una delizia garantita.

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La colazione di oggi: il pistacchio, dalla Persia alle terre di Bronte

 

D’estate, lo assaporiamo principalmente sotto forma di gelato. Il suo inconfondibile colore è il verde, il gusto che lo caratterizza si abbina ottimamente sia con il dolce che con il salato. Non è un caso che il pistacchio sia il frutto più gettonato tra quelli appartenenti alla categoria della frutta secca. Oltretutto, è ricco di proprietà salutari: i benefici che apporta all’organismo sono innumerevoli, li approfondiremo più avanti. Intanto, scopriamo qualcosa in più sulla Pistacia Vera (questo il suo nome botanico), una pianta della famiglia delle Anacardiaceae che sin dalla Preistoria veniva coltivata in Persia. Oggi è ampiamente diffusa in tutto il Medio Oriente, negli Stati Uniti, in Cina, Afghanistan, Pakistan, India e in paesi mediterranei come l’Italia e la Grecia. Nel Bel Paese, la coltivazione del pistacchio si concentra soprattutto in Sicilia.

 

 

L’ albero del pistacchio misura, generalmente, dai 5 agli 11 metri; è un arbusto caducifoglie dalla fitta chioma. Il frutto, una “drupa”, sfoggia una forma ovale. Il guscio duro ospita un seme oleoso, di colore verde e avvolto in una buccia viola. I pistacchi possono essere gustati in innumerevoli modi: crudi, tostati, salati…si adoperano come condimento o come ingredienti-base per preparare torte, gelati e svariati dolci, ma anche salse, torroni, salumi e via dicendo. Questi semi oleosi sono particolarmente ricchi di calorie (560 per 100 g di prodotto) e di lipidi, ma tutto ciò (se li si consuma con moderazione) non intacca le loro proprietà salutari. I grassi che contengono (circa il 45% per ogni seme) sono  grassi “buoni”monoinsaturi (come l’acido oleico, un Omega-9 contenuto anche nell’ olio d’oliva) e polinsaturi essenziali (come l’acido linoleico, appartenente al gruppo degli Omega-6.) Li affiancano un buon numero di proteine (il 20% di ogni singolo seme), carboidrati (il 27%) e fibre, di cui abbondano. Il lattosio e il glutine sono del tutto assenti, rendendo il frutto l’ideale anche per i soggetti allergici. Il pistacchio è privo di colesterolo, un altro suo punto di forza, mentre contiene molteplici vitamine idrosolubili (B6, B1 e B3) e liposolubili (A, E e K, dalla spiccata funzione antiemorragica). Sono presenti anche svariati minerali, nello specifico il calcio, il magnesio, il ferro, il potassio, il rame, lo zinco, il selenio e il manganese.

 

 

L’acido oleico e linoleico sono efficacissimi per contrastare l’ipercolesterolemia; in connubio con le fibre, gli antiossidanti e determinati minerali, inoltre, svolgono un’azione benefica nei confronti della trigliceridemia, normalizzano i valori della pressione arteriosa e tengono sotto controllo il diabete mellito di tipo 2. Il magnesio è un minerale fondamentale per il metabolismo e scongiura le patologie cardiovascolari. La vitamina E, un potente antiossidante, combatte i dannosi effetti dei radicali liberi; associata ai caroteni e agli antiossidanti polifenoici, è un toccasana per la pelle e la mucosa. Le fibre, presenti nei pistacchi in grande quantità, abbassano la glicemia e riducono i livelli di trigliceridi nel sangue, ma non solo: favoriscono la sensazione di sazietà, eliminano le tossine dal lume intestinale, prevengono la stipsi, incrementano la flora batterica dell’ intestino. Le vitamine del gruppo B sono folati fondamentali per la formazione del sangue e la sintesi di DNA, riducono la stanchezza e sono particolarmente utili alle donne in gravidanza. Passando ai minerali, il fosforo incrementa la salute ormonale e il ferro è un componente chiave dell’ emoglobina. I fitosteroli, molto abbondanti nella frutta secca, contribuiscono a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo”.

 

 

Sintetizzando le virtù dei pistacchi, vanno evidenziate: le proprietà antiossidanti e antinfiammatorie associate alla vitamina E e ai carotenoidi, l’azione protettiva per la vista svolta da carotenoidi quali la luteina e la zeaxantina, l’effetto saziante che compensa l’ abbondanza di calorie e contribuisce a mantenere sotto controllo il peso, la diminuizione dei livelli di colesterolo e della pressione sanguigna, i benefici per l’apparato cardiovascolare, la riduzione della glicemia. E poi, ancora, la regolarizzazione dell’ intestino e il suo benessere, garantiti dalle fibre, il buon funzionamento dei vasi sanguigni grazie alla presenza dell’ aminoacido L-arginina. I pistacchi, insomma, sono un’autentica miniera di salute.

 

 

Come gustare i pistacchi a colazione? Il gelato al pistacchio, lo ribadisco, in estate è una delizia, ma questo frutto può essere assaporato in molteplici modi. Ad esempio, inserendolo nella macedonia. Oppure aggiungendolo allo yogurt, utilizzandolo per guarnire la crostata o il semifreddo. Con la farina di pistacchio è possibile preparare torte e biscotti, la sua granella rende superlativo il tiramisù. In Sicilia, dove la produzione di pistacchi rappresenta una punta di diamante dell’economia locale (la varietà di Bronte ha addirittura ottenuto il marchio Dop, Denominazione di Origine Protetta), troverete il frutto verde ovunque: gelati, granite, cannoli…persino la tradizionale “brioche col tuppo” viene realizzata con glassa e granella di pistacchio. Altre idee? Assaggiate la delizia della crema, del plumcake, dei bignè al pistacchio. E per uscire dai confini italiani, provate il Kadayif: è un dolce turco ricoperto di golosissimi pistacchi tritati. Trovate la ricetta qui.

 

 

 

La colazione di oggi: il burro, tra pregiudizi e benefici

 

Il burro fa bene o male? Riflettori puntati su un alimento base della prima colazione. Cominciamo con il dire che il burro è un prodotto totalmente genuino, così come lo è la sua preparazione. Si ottiene separando la parte grassa da quella acquosa della crema del latte; questa operazione viene effettuata tramite un processo che non si discosta affatto dal metodo artigianale di un tempo. La lavorazione non comporta l’utilizzo di additivi chimici, nè tantomeno implica elaborate procedure di raffinazione. Il burro è composto dal grasso del latte così com’è, senza alcuna alterazione. Considerando che a 100 grammi di burro corrispondono 758 calorie, è consigliabile farne un uso moderato (non più di 10 grammi al giorno). I grassi contenuti nel burro, inoltre, ammontano all’83% del prodotto. Ma consumati senza eccedere, svolgono una funzione nutritiva essenziale: forniscono energia, mantengono sani i tessuti del corpo, apportano dosi elevate di vitamina A, E e D e preservano la funzionalità degli ormoni fondamentali per l’organismo.

 

 

Un altro punto di forza dei grassi contenuti nel burro è l’essere acidi grassi a corta catena, ovvero includono carbonio pari a meno di 6 atomi. Ciò significa che l’organismo riesce a bruciarli istantaneamente impedendo che sedimentino e si tramutino in grasso corporeo. Tutto sommato, potremmo spezzare una lancia anche a favore delle calorie: basta considerare che un etto di burro ne ingloba 150 in meno rispetto alla stessa quantità di olio d’oliva. L’ umidità inclusa nel burro, infatti, contribuisce a diminuire il suo livello calorico. L’olio, al contrario, è completamente composto di acidi grassi. A proposito di acidi grassi, quelli a corta catena riescono ad essere rapidamente elaborati dai succhi gastrici: ne consegue che il burro è un alimento ad alto tasso di digeribilità. Attualmente, poi, l’ ottimizzazione dei metodi di allevamento fa sì che ai grassi saturi del burro si affianchi una buona percentuale di grassi monoinsaturi e polinsaturi, imprescindibili per la salute del nostro organismo.

 

 

Tra i minerali e le vitamine di cui il burro è ricco troviamo il calcio, il fosforo, il sodio, il potassio, la vitamina E, la vitamina D e la vitamina A: quest’ ultima, presente in dosi notevoli, svolge una potente azione antiossidante e contrasta la formazione dei radicali liberi. E’ un autentico toccasana, inoltre, per mantenere sani gli occhi, la pelle e le mucose. La vitamina A riveste una cruciale importanza anche per la salute della tiroide e delle ghiandole surrenali, entrambe direttamente associate al benessere del cuore. E qui sfatiamo un altro mito: mangiare burro espone al rischio di contrarre patologie cardiovascolari. In realtà, le ricerche scientifiche hanno dimostrato che un consumo regolare di latticini scongiura questo pericolo. Non dimentichiamo poi che la lecitina, una sostanza ampiamente contenuta nel burro, è in grado di regolarizzare l’assorbimento del colesterolo e di un buon numero di grassi. La vitamina D, invece, contribuisce a “fissare” il calcio nella struttura delle ossa e dei denti.

 

 

Parlando di colesterolo, è essenziale chiarire un altro pregiudizio che riguarda il burro. La convinzione che contenga, cioè, colesterolo in dosi massicce e quindi nuoccia alla nostra salute. Si tratta di una credenza errata, poichè ne include 250 grammi per ogni 100 grammi di alimento. Considerando che 250 grammi di colesterolo rappresentano la quantità massima che è possibile consumare quotidianamente, è altamente improbabile ingerire ben 100 grammi di burro in un solo giorno! Perciò il problema (a meno che non ci si professi dei burro-dipendenti) non sussiste.  Limitarsi ai 10 grammi giornalieri di cui vi parlavo a inizio articolo, invece, permette di godere esclusivamente degli effetti benefici del colesterolo: è un buon antiossidante, un toccasana per le arterie e una componente fondamentale di svariate parti dell’ organismo.

 

 

Concludendo, il burro non è un alimento a rischio come spesso viene descritto. Anzi: rispondendo al quesito che apre questo post, potremmo affermare senza mezzi termini che il burro fa bene. Ha un gusto goloso, una consistenza invitante ed è un ingrediente basilare dei prodotti di pasticceria, dove la sua presenza vanifica l’aggiunta di diversi additivi. Nelle ricette dolciarie, il burro è il must. Pensate solo alla preparazione della pasta frolla, o di certi deliziosi biscotti. E la mattina, a colazione, chi potrebbe fare a meno della classica fetta di pane spalmata di burro e marmellata o di burro e miele? Io no…non so voi.

 

 

 

La colazione di oggi: il mais, dalla civiltà Azteca ai nostri giorni

 

Si chiama mais, ma il suo nome scientifico è Zea Mays L. ed appartiene alla famiglia delle Graminacee. Cresce nei climi tropicali o temperati e in molte aree del globo, soprattutto in America Latina, costituisce l’alimento base dei pasti giornalieri: in Messico, dove affonda le sue radici, gli Aztechi lo elessero a ingrediente principale della loro cucina. Prende il nome dallo spagnolo “maiz”, ma è stato ribattezzato granturco – vale a dire “grano turco” – per conferirgli un tocco esotico e differenziarlo dal grano tenero. Come consumarlo a colazione? In svariati modi: sotto forma di torte, muffin, pannocchie alla griglia o arrostite, chicchi tostati, focacce di mais, corn flakes da mettere nel latte, popcorn… L’Autunno è la stagione migliore per gustarlo: la raccolta del mais avviene tra Agosto e Settembre, perciò rappresenta uno degli alimenti clou di questo periodo dell’ anno. Anche perchè è ricco di proprietà salutari; basti pensare che condivide la sua famiglia di appartenenza, le Graminacee, con cereali come l’ orzo, il riso, l’avena, il frumento e la segale, tutti alimenti decisamente benefici. Essendo una pianta monoica, il mais è composto da due distinte infiorescenze: quella femminile, conosciuta come “pannocchia”, in realtà è una spiga (botanicamente detta “spadice”) su cui sono fissate le cariossidi (ovvero i chicchi). Quella maschile è posizionata in cima al fusto e viene spesso indicata come “spiga” a causa del suo aspetto. La fecondazione ha luogo tramite il vento, che disperdendo il polline dà origine alle cariossidi; i chicchi del mais, fissati su un asso cilindrico centrale chiamato tutolo, hanno differenti colorazioni: la tipica tonalità giallo-arancione è dovuta alla produzione dei carotenoidi, mentre le antocianine determinano cromie che spaziano dal rosso al nero.

 

 

L’ appartenenza alle Graminacee e i semi abbondanti di amido rendono il mais un cereale a pieno titolo. Con il granturco si producono farine, olio, bevande alcoliche…è un alimento versatile e ottimo a livello nutrizionale. Innanzitutto, ha proprietà altamente energizzanti. Contiene macronutrienti come i carboidrati in gran quantità, fibre, minerali quali il potassio, il sodio, il calcio, il ferro, il magnesio, il selenio, vitamina A e vitamine del gruppo B in dosi massicce. Le virtù antiossidanti di molti dei suoi sali minerali, unite al betacarotene che l’organismo converte in vitamina A, contrastano i nefasti effetti dei radicali liberi prevenendo l’ invecchiamento cellulare e lo sviluppo di patologie neurologiche e tumorali. Anche l’acido ferulico contenuto nel mais svolge un’ efficace azione anticancro. Il granturco possiede poi spiccate virtù antinfiammatorie, regolarizza l’ intestino, è un buon antidiuretico e cicatrizzante. La presenza del ferro, unitamente a quella dell’ acido folico e delle vitamine del gruppo B, contribuisce a combattere l’anemia. Le antocianine che determinano la colorazione rossa, viola e nera del mais sono flavonoidi, quindi dei potenti antiossidanti: oltre a mettere KO i radicali liberi, svolgono un’azione protettiva nei confronti delle cellule, dei tessuti e di tutto l’organismo. I carboidrati forniscono energia, l’assenza di lipidi e colesterolo lo rendono un toccasana. Gli acidi fenolici calibrano il rilascio dell’ insulina e sono un valido aiuto per i diabetici. Il mais, inoltre, viene digerito molto facilmente. Essendo privo di glutine è un alimento perfetto per chi è affetto da celiachia; anche l’amido di mais, una farina detta maizena, risulta l’ideale per i celiaci e può sostituire la farina di grano. Il selenio contenuto nel granturco è benefico ad ampio spettro: protegge l’apparato cardiovascolare ed è un eccellente antiossidante, mentre l’acido folico è in grado di abbassare i livelli di colesterolo contrastando l’ arteriosclerosi e le patologie cardiache. Ultimo ma non ultimo, minerali quali il ferro e il fosforo sono efficacissimi per mantenere la mente e la memoria in costante allenamento.

 

 

Passiamo ora a qualche cenno sulla storia del mais. Il granturco vanta origini antichissime: nel Mesoamerica veniva coltivato da diversi millenni prima della nascita di Cristo. I Maya e gli Olmechi si dedicarono alla coltura di un gran numero di varietà, che dal 2500 a.C. in poi vennero diffuse nel continente americano. In Europa il mais arrivò nel 1493: era uno dei prodotti che Cristoforo Colombo portò con sè dopo aver scoperto l’America. Inizialmente fu coltivato soprattutto in Spagna, nella Francia del Sud, in Italia e nei Balcani, ma la massiccia espansione del cereale si verificò a partire dal 1700. A quell’ epoca, la crescita demografica e il proliferare delle carestie spinsero a considerare la coltivazione del mais più proficua rispetto a quella del miglio e dell’ orzo. Intorno alla metà del XVIII secolo, era già diventata la coltura principale. Nelle campagne la sua diffusione fu tale da tramurarsi nell’ alimento attorno al quale ruotava tutta la dieta. Ciò determinò conseguenze nefande: il popolo si nutriva esclusivamente di mais e di polenta (che si prepara con la farina del mais), ma diete di questo tipo, completamente prive di niacina assimilabile, causano una malattia chiamata pellagra. La pellagra continuò a imperversare fino ai primi anni del 1900 rimarcando quel grave deficit nutrizionale.

 

 

Ho già accennato a inizio articolo cosa potete preparare utilizzando il mais. Per la prima colazione il focus è sulla sua farina: con essa si realizza la polenta, ma anche il pane e innumerevoli tipologie di dolci, biscotti e dolcetti, addirittura delle speciali torte di polenta. Se volete celebrare le origini dell’ alimento, cercate in rete la ricetta del champurrado, la tipica cioccolata calda messicana. Oppure, sempre a colazione, potete degustare il granturco sotto forma di corn flakes, chicchi lessati o tostati da consumare da soli o insieme ad ogni genere di spuntino. Chi ama il salato a inizio giornata potrà concedersi dei tocchetti di pannocchia al forno insaporita di burro, sale e pepe: negli Stati Uniti, le pannocchie al burro sono la norma. Oggi si condiscono addirittura con il ketchup, la senape o la maionese; tutte idee che fanno gola, ma…attenzione a non esagerare!