Fellini e “La strada”

 

” In quel nostro primo incontro sulla terrazza del Lido, a un certo punto Fellini s’inoltrò nel racconto di La strada. Fu un momento sospeso tra la magia e l’ imbarazzo. L’idea che stesse progettando un film-favola, sia pure d’ispirazione neorealista, mi preoccupò per lui. Tanto che mi proposi, alla prima occasione, di sconsigliarlo vivamente, cosa che poi ebbi l’ opportunità di fare. Nello stesso tempo, però, mi rendevo conto che il narratore ci andava schiudendo dei panorami tali da consentire prospettive nuove su realtà antichissime: l’ Italia povera, i campi fangosi e freddi attraversati dai sottoproletari dello spettacolo, il rapporto brutale e primitivo fra l’uomo e la donna, ovvero il mondo contadino sopravvissuto ai margini delle vie consolari, i linguaggi perduti, i riti magici, i ricordi infantili e ancestrali. Senza rendersene conto, con perfetta naturalezza, quel cineasta di tipo nuovo si preparava a buttar giù i muri della cultura piccolo borghese dentro i quali la crescita dell’ Italia unita, in una regione come la sua Romagna fortemente segnata dal potere temporale, aveva cancellato i segni delle culture precedenti. Apprezzato o tollerato al tempo dei primi film come bozzettista crepuscolare, Fellini finì infatti per suscitare un’alzata di scudi con la triste odissea di Gelsomina, considerata elusiva e criptocattolica. Per anni nei caffè di via Veneto, nei saggi e nei dibattiti si andò proclamando che Fellini, con la sua formazione spavaldamente antintellettuale, era “fuori della cultura”. Solo dopo la svolta degli anni sessanta la sinistra pensante restituì legittimità alla forma della favola, riconoscendone il carattere mitografico, simbolico e perfino eversivo. E dovettero scomparire Stalin, Benedetto Croce e Pio XII perchè gli orizzonti si allargassero; sicchè quando i sapienti si avventurarono nel territorio inesplorato delle scienze dell’ uomo, fu per molti una sorpresa constatare che il regista di La strada era già là.”

Tullio Kezich, da “Federico. Fellini, la vita e i film”

 

Nella foto: una scena tratta dal film “La strada” con Zampanò (Anthony Quinn) e Gelsomina (Giulietta Masina). Immagine di Bucherwiliam, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Ricordi

 

” Questo luogo non ha mai avuto alcun rapporto né con me né con i miei antenati, ma chissà che un giorno non nasca fra noi uno stretto legame, un legame che si manterrà vivo per tutta la mia discendenza. Pensavo a ciò mentre salivo gli stretti scalini di pietra ricoperti di muschio sul retro della casa. Quella scalinata conduceva a uno spiazzo di circa sedici metri quadrati che non poteva essere sfruttato in altra maniera se non come punto panoramico. Ogni volta che venivo qui in cerca di solitudine, il silenzio a poco a poco mi penetrava nell’anima, liberava la mia mente da ogni pensiero, lasciando spazio solo alla bruciante nostalgia del passato. Di lassù era possibile cogliere con un solo sguardo la baia stretta dalla catena di montagne che accoglieva nel suo seno il villaggio sottostante. Al mattino e alla sera, dal molo situato ai margini partiva un piroscafo che collegava il paese con una grande città, l’irritante fischio del vapore si sentiva distintamente anche da qui. La sera il battello illuminato, piccolo quanto un ditale, puntava tenacemente al mare aperto. Osservando il tremolio delle sue luci, minuscole come la punta accesa di una bacchetta d’incenso, non potevo fare a meno di innervosirmi per la sua lentezza. Riflettevo spesso sui ricordi. Essi mi apparivano come oggetti insignificanti, di nessuna utilità, non altro che il guscio tolto alla vita trascorsa. A volte li scambiavo per gustosi frutti protesi verso il futuro, ma in realtà non erano altro che l’effimero conforto di esseri senza vigore, smarriti nel presente. Queste affermazioni così avventate, tipiche di una febbrile giovinezza, risalgono ad alcuni anni fa, quando molti pregiudizi influenzavano ancora i miei pensieri. Presto passai a riflessioni del tutto diverse. I ricordi diventarono per me la prova più essenziale del “presente”. Sentimenti come l’amore, la devozione, erano troppo duri perché riuscissi a individuarli nella realtà quotidiana, così avevo bisogno dei ricordi per riconoscerli, per capirne il giusto significato. I ricordi erano una sorgente che avevo trovato spostando mucchi di foglie, una sorgente che finalmente rispecchiava la volta celeste. “

Yukio Mishima, da “La foresta in fiore”

 

 

Beatitudine

 

” Una meravigliosa serenità, simile a questo dolce mattino di primavera, mi è scesa nell’anima e io ne godo con tutto il mio cuore. Sono solo e sono lieto di essere vivo in questo luogo creato per anime come la mia. Sono così felice, mio caro, così perduto nel senso di questa serena esistenza che la mia arte ne soffre. Ora non saprei disegnare nemmeno una linea, eppure non sono mai stato un pittore così grande come in questi momenti. Quando la bella valle effonde intorno a me i suoi vapori e il sole alto investe l’impenetrabile tenebra di questo bosco e solo qua e là qualche raggio riesce a penetrare in questo sacrario, e io mi stendo nell’erba alta accanto al torrente e, così vicino alla terra, scopro le piante più diverse e più singolari; quando sento vicino al mio cuore il brulichio del piccolo mondo in mezzo agli steli, le innumerevoli, incomprensibili figure dei bruchi e degli insetti e sento la presenza dell’Onnipotente che ci ha creati secondo la Sua immagine, l’alito del Supremo Amore che ci porta e ci sostiene in un’eterna beatitudine; quando, oh, amico mio!, i miei occhi si smarriscono in questa vertigine e l’universo e il cielo riposano nella mia anima come la figura di una donna amata, io provo allora l’angoscia di un desiderio e penso: oh, se tu potessi esprimere tutto questo, se potessi effondere sulla carta lo spirito di ciò che in te vive con tanta pienezza e con tanto calore, in modo da farne lo specchio della tua anima, come la tua anima è lo specchio del Dio infinito! Amico mio, io mi sento morire e soccombo alla forza e alla magnificenza di queste immagini! “

Johann Wolfgang von Goethe, da “I dolori del giovane Werther”

 

 

La stagione più triste dell’anno

 

“È certo la primavera la stagione più triste dell’anno. Ondeggia, incespicante e trasognata tra la bianca severità dell’inverno e la focosa maestà dell’estate, come una «donzelletta» acerba che non è più vera bambina e non è ancora donna fatta. È ridotta, perciò, alle malfide risorse del doppio gioco. In certi giorni un baccanale di sole indora e accende tutte le cime e tutte le superfici, e un’improvvisa afosità simula ipocritamente la gialla offensiva del giugno. Ma poi, il giorno dopo, sipari di nuvolone seppiacee si calano sugli orizzonti come gramaglie, il vento settentrionale uggiola e morde, i piovaschi impazziscono in furori diluviali, i fiumi aprono brecce nelle ripe, sui monti si ammonta un’altra volta la neve, tardiva ed intempestiva, e le prime erbe dei prati, stupite e strapazzate, vorrebbero rientrare sotto la terra. Passata la furia boreale, tornano le giornate grigie e accidiose, con qualche golfo di azzurro che subito si richiude, le strade fradice e sudice, i muri bollati di gore umide, i fossi colmi d’acqua lotosa. Eppoi, in pochi meriggi, tutto s’asciuga, tutto s’infiamma, tutto arde, tutto si riscalda e ci s’accorge, con mortificante sorpresa, che la primavera è finita, senza aver potuto godere, meno che pochi istanti, le sue incantate e decantate meraviglie.”

Giovanni Papini, da “La spia del mondo”

 

 

Un cielo di segni

 

“Puerto de Pollensa. Illa d’Or. Le case riposavano quiete nell’aria immobile, ciascuna avvolta in un delicato velo di fumo. Il viandante annega nella loro sfera come in anelli d’incenso, poiché il legno odoroso del pino montano alimenta la fiamma dei focolari. Il piacere che si prova in queste passeggiate solitarie è dovuto certamente anche al fatto che chi le compie omnia sua secum portat, come voleva il filosofo Biante. La nostra coscienza ci accompagna come uno specchio sferico, o meglio come un’aura il cui centro siamo noi. Le belle immagini penetrano in quest’aura e in essa subiscono un mutamento atmosferico. Così, noi passiamo oltre un cielo di segni come sotto aurore boreali e arcobaleni. Questo squisito sposalizio con il mondo, seguito da un nobile evento di riproduzione, fa parte dei supremi piaceri a noi destinati. La terra è la nostra eterna madre e donna, e come ogni donna fa, anch’essa dona qualcosa alla nostra ricchezza.”

Ernst Junger, da “Percorsi Balearici”

 

Il sonno e il sogno

 

” Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l’agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un’appendice dell’amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m’ interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per se stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l’uomo, ignudo, solo, inerme, s’avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta – i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c’ impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l’arte consistono nell’ abbandonarsi deliberatamente a quest’ incoscienza felice, nell’ accettare di esser sottilmente  più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell’ esser nostro. (…) In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell’ uomo vuoto di sè, quell’ esistenza senza passato?”

Marguerite Yourcenar, da “Memorie di Adriano”

 

 

Neve

 

” Subito dopo la partenza del pullman, mentre il passeggero seduto accanto al finestrino, pensando di poter vedere qualche cosa di nuovo, guardava con occhi attenti i quartieri della periferia di Erzurum, le minuscole e misere drogherie, i panifici e i caffè fatiscenti, aveva ripreso a nevicare. Adesso era più forte: i fiocchi erano più grandi di quelli del tragitto da Instanbul a Erzurum. Se il passeggero non fosse stato stanco per il viaggio e avesse prestato un po’ più di attenzione ai grandi fiocchi di neve che scendevano dal cielo come piume di uccelli, avrebbe potuto percepire che si stava avvicinando una violenta tormenta di neve e, forse, avrebbe potuto capire immediatamente di aver intrapreso un viaggio destinato a cambiare tutta la sua vita, e sarebbe potuto tornare indietro. Ma di tornare indietro adesso non gli passava proprio per la testa. Mentre la sera scendeva, guardava fisso il cielo che sembrava più luminoso della terra: contemplava i fiocchi di neve che man mano si facevano più grandi e si disperdevano nel vento, non come presagi di una prossima sventura ma, finalmente, come indizi del ritorno della felicità e dell’ innocenza della sua infanzia. (…) Sentiva che quella neve di una bellezza sovrannaturale lo rendeva persino più felice della Instanbul che aveva potuto rivedere dopo tanti anni. Era un poeta, e in una sua poesia di qualche anno prima, una poesia poco nota ai lettori turchi, aveva scritto che anche nei nostri sogni nevica, ma una sola volta nella vita. Mentre la neve scendeva fitta e silenziosa come nei sogni, il passeggero provò quella sensazione di innocenza e ingenuità che cercava appassionatamente da anni e, in un impeto di ottimismo, pensò di potersi sentire a proprio agio in questo mondo. Dopo un po’ fece una cosa che non faceva da tanto tempo: si addormentò nel suo sedile. “

Orhan Pamuk, da “Neve” 

 

 

Il pastore d’Islanda

 

“Quando una festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo. Ce ne sono molti e anche Benedikt aveva il proprio, che consisteva in questo: quando iniziava il digiuno natalizio, o meglio, se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio. (…) In questo suo pellegrinaggio d’ Avvento Benedikt era sempre solo. Davvero solo? Meglio dire senza compagnia umana. Perchè era ogni volta scortato dal suo cane e spesso anche dal suo montone guida. (…) E ora camminava nella neve, intorno a lui tutto bianco fin dove l’occhio arrivava, bianco e grigio il cielo invernale, perfino il ghiaccio sul lago era coperto di brina o da un leggero strato di neve. Solo i crateri bassi che emergevano qua e là disegnavano anelli neri grandi e piccoli, simili a segni premonitori nel deserto di neve. Ma che cosa annunciavano? Si potevano interpretare? Forse le bocche di quei crateri dicevano: “Anche se tutto ghiaccia, se si rapprendono le pietre e l’acqua, se l’aria gela e cade giù in fiocchi bianchi e si posa come un velo nuziale, come un sudario sulla terra, anche se il fiato gela sulle labbra e la speranza nel cuore, e nella morte il sangue nelle vene – sempre, nel centro della terra, vive il fuoco. ” Forse parlavano così. (…) E, come nata da tutto quel bianco, con gli anelli scuri dei crateri e qualche colonna di lava che sorgeva spettrale qua e là, c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore. Una festosità grande e immacolata esalava nel quieto fumo domenicale dei casali bassi, rari e quasi sepolti sotto la neve. Un silenzio inesplicabile e promettente – l’Avvento. Sì…Benedikt pronunciò con cautela quella parola grande, mite, così esotica e al tempo stesso familiare. Forse, per Benedikt, la più familiare di tutte. (…) Negli anni quella parola era arrivata a racchiudere tutta la sua vita. Perchè cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’ attesa, dalla speranza, dalla preparazione? “

Gunnar Gunnarsson, da “Il pastore d’Islanda”

 

 

Le discrepanze del tempo

 

Rimasi a lungo davanti all’Ottica e Orologi di Österberg: su un letto di argentei fili natalizi e neve sintetica, tra piccoli babbonatale che mi pareva di riconoscere dalla mia infanzia, era adagiata una quantità di orologi: sveglie, orologi da polso, graziose pendole, un orologio della nonna, all’antica, cipolloni da tasca e orologini da signora, su cui era impossibile leggere le ore. Contai ventisette diversi misuratori del tempo, e tutti erano in funzione. E nessuno segnava la stessa ora. Uno le due e un quarto, un altro le quattro e venti, un terzo era quasi sulla mezzanotte, o mezzogiorno. Instancabilmente continuavano a ticchettare, ognuno seguendo il proprio tempo, incuranti gli uni degli altri. Nessuno era sbagliato, nessuno era giusto, non c’era né un prima né un dopo. Tutti erano rivolti a se stessi, al proprio meccanismo. Fuori dalla vetrina era lo stesso. Nella neve che cadeva fitta, gli uomini s’incrociavano, scivolavano l’uno verso l’altro senza nessuna vera contemporaneità. Quando uno si risvegliava dai suoi incubi, un altro s’immobilizzava nel ricordo di un giorno d’estate. La neve mi costringeva a socchiudere gli occhi e mi serrai più stretto il collo del cappotto, mi feci un’insenatura di calma all’interno della stoffa e mi ritrovai nel confuso labirinto del mio proprio tempo, mentre procedevo per quella via in cui, una volta, avevo dato il nome a tante cose. Camminavo con il mio passo da adulto e contemporaneamente, con un’altra parte di me, avevo tre anni. La mano che stringeva la borsa teneva al tempo stesso la mano di mia madre, indicava un cono gelato, si liberava da una mischia in Grecia, seguiva le meraviglie di una partitura. Ogni azione del passato generava mille altre possibilità, scorreva a rivoli verso suoi propri futuri. Ed essi proseguono, sempre più numerosi, nelle terre vergini della coscienza, ombre che t’inseguono e vengono inseguite. Non c’è mai requie. “

Göran Tunström, da “L’oratorio di Natale”

 

 

Angelica Sedara

 

” “Si nasce sempre con qualche talento, anche il più disgraziato di questo mondo ne possiede qualcuno”. Le bambine stanno sedute sulla panca e ascoltano donna Giuseppina, la sorella del canonico Spanò, che ogni domenica si dedica a insegnare la dottrina alle figlie della nuova borghesia rurale di Donnafugata. (…) Fuori dalla chiesa c’è la luce della Sicilia, le bambine ridacchiano tra loro, sono bambine semplici, vestite di percallo nei colori smorti del grigio e del nero, hanno sandali sdruciti ai piedi. Non sono povere però, anzi rispetto al passato delle famiglie si direbbero persino benestanti, ma questo non muta il vestiario tradizionale più simile a un grembiule che a un abito vero e proprio. (…) Angelica pensa alla faccenda dei talenti. Se ciascuno ne ha almeno uno, in tal caso qual è il suo? Ha per caso anche lei un talento speciale che la rende unica agli occhi di Dio? Ma poi è proprio vero che ognuno di noi ce l’ha? Pensa allora al talento del figlio del capraro, che sa fischiare come nessuno, tanto che anche i passeri si fermano. Oppure a Filomena, la serva dei Perrotta, che quando ride sa mostrare tutti i denti della bocca e persino quelli che le mancano. Quanto a lei, forse il suo talento sta nel sentire talvolta le voci che le parlano nella testa. Di chi sono poi? Forse di quei fratelli che mai sono nati, perchè la madre non li aveva voluti e se l’era fatti strappare dalla mammana? O forse delle fate, come quelle delle fiabe, che talvolta in inverno la serva Mimidda le racconta quando davanti al cofone recitano il rosario? In quel momento donna Giuseppina fa alzare le bambine dalla panca. “Ora recitiamo il Salve Regina, bambine”. E subito tutte cominciano a srotolare le preghiere.”

Silvana La Spina, da “Angelica”

 

(Foto: Claudia Cardinale interpreta Angelica Sedara ne “Il Gattopardo” di Luchino Visconti)