C’era una volta New York

 

” Quando lui era giovane, nel lontano 1955, quando erano tutti giovani (o per lo meno più giovani), quando la fama era una novità e l’ amicizia un sentimento nascente, alimentato da caviale e champagne e doni scelti da Tiffany, avere intorno Truman Capote era un autentico spasso. “C’era una volta” aveva infine dichiarato Slim. “Già. Bè…” e Truman aveva strascicato la frase nel suo stile teatrale, prolungando esageratamente le sillabe. “C’era una volta New York”. New York. (…) La stravagante Zelda e Scott nella fontana del Plaza, la tavola rotonda dell’ Algonquin, Dottie Parker, lingua e penne affilate come rasoi, The Follies. I vari Cholly Knickerbocker, il 21, i balli al ritmo della Lucky Strike Orchestra allo Stork Club, El Morocco. L’ incomparabile Hildegarde che si esibiva alla Persian Room del Plaza, Cary Grant inginocchiato ai suoi piedi in estatica ammirazione. La Quinta Strada: Henry Bendel, Bergdorf Goodman, Tiffany. Esisteva anche una New York sotterranea; “infima”, in ogni senso del termine. Ellis Island, la Bowery, il Lower East Side. La metropolitana. I distributori automatici di cibo e la catena di ristoranti a buon mercato Schrafft’s, i carretti degli hot dog, le pizzerie al taglio. (…) Ma non era quella la metropoli che attirava gli arrampicatori sociali, i sognatori, gli affamati. No, ad allettarli era la New York prestigiosa, la città degli attici e delle suite lussuose al St Regis, al Plaza, al Waldorf (…) Un faro, una guglia, un faro in cima a una guglia. Una luce che brilla continuamente in lontananza, visibile persino dai campi di mais dell’ Iowa, dai monti del Dakota, dai deserti della California. Dalle paludi della Louisiana. Un invito incessante. Un richiamo per gli insoddisfatti, una lusinga per gli illusi. Per tutti coloro che hanno il sangue troppo caldo e troppo impetuoso, che guardano le proprie placide famiglie, i vicini scialbi, le tombe degli antenati immersi nel sonno eterno e dicono: Io sono diverso. Sono speciale. Valgo di più. “

Melanie Benjamin, da “I cigni della Quinta Strada”

Il Palazzo Imperiale di piazza Mignanelli

 

” Mancava solo il ponte levatoio. Per il resto, non difettava nulla al palazzo che domina piazza Mignanelli – a Roma – per sembrare un castello inespugnabile. Le tracce di Propaganda Fide incastonate tra i mattoni, una sala del trono con decine di mappamondi a simboleggiare le terre conquistate, gli interventi degli artisti più notevoli di questo tempo disseminati un po’ ovunque. Come dirimpettaio, l’ Ambasciata di Spagna. Bastava chiudere gli occhi, e la magia si avvera: il palazzo diventa un Palazzo Imperiale – ma a Roma è sufficiente distrarsi un attimo per illudersi che stia ancora lampeggiando il Seicento o per credere che il Medioevo sia in pieno svolgimento.  Dall’ ingresso del Palazzo al numero 22, dal portone su cui svetta imperiosa una V dorata, si ha l’ impressione di dominare l’ universo: l’ ex proprietario del palazzo, oggi lontano in un romitaggio cosmopolita e sofisticato, ci è riuscito. Nel corso di mezzo secolo, Valentino Garavani ha conquistato le donne  (e gli uomini) di ogni continente senza spade nè dardi infuocati. Meglio qualche metro di chiffon, preferibilmente scarlatto. “

 

Tony Di Corcia, da “Valentino. Ritratto a più voci dell’ ultimo Imperatore della Moda”

 

 

 

 

Foto di Lalupa, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Violeta

 

” La nostra casa era piccola e la convivenza un po’ forzata; ero sempre insieme a qualcuno, ma quando compii sedici anni ricevetti in regalo una capanna a pochi metri dalla casa principale che Torito, zia Pilar e zio Bruno costruirono in un batter d’occhio e che io battezzai La Voliera, perchè quello sembrava, con la sua forma esagonale e il lucernario sul tetto. Lì avevo lo spazio necessario per la solitudine e l’ intimità per studiare, leggere, preparare le lezioni e sognare lontana dall’ incessante cicaleccio della famiglia. Continuai però a dormire in casa con mia madre e le zie, (…) l’ ultima cosa che avrei voluto era affrontare da sola i terrori dell’ oscurità nella Voliera. Con zio Bruno celebravo il miracolo della vita a ogni pulcino che usciva dal guscio e a ogni pomodoro che dall’ orto arrivava sulla tavola; con lui imparai a osservare e ad ascoltare con attenzione, a orientarmi nel bosco, a nuotare in fiumi e laghi gelati, ad accendere il fuoco senza i fiammiferi, ad abbandonarmi al piacere di affondare la faccia in un’ anguria succosa e ad accettare l’ inevitabile dolore di separarmi dalle persone e dagli animali, perchè non c’è vita senza morte, come sosteneva lui. “

 

Isabel Allende, da “Violeta”