La vendemmia: un rito antichissimo e le sue tradizioni

 

Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)

 

Settembre, da sempre, è tempo di vendemmia. Un termine che indica la raccolta dell’uva da vino: l’ultima tappa di un impegno nei vigneti che dura un anno intero, a cominciare dalla potatura invernale di Gennaio. L’uva che si raccoglie durante la vendemmia, in sintesi, è quella che troviamo sulle nostre tavole tramutata in delizioso nettare degli dei. Ma la vendemmia, oltre ad essere una pratica agricola, è un vero e proprio rituale: sopravvive da secoli, portando con sè un bagaglio di tradizioni, usanze scaramantiche e tecniche entrate far parte degli annali della cultura agreste. La vendemmia nasce nell’antica Roma, e lo dice il termine stesso; “vendemmia” proviene dal latino “vindimia”, che unisce “vinum” (vino) e “demere” (raccogliere). Sin da allora, dunque, designava la raccolta dell’uva destinata alla vinificazione. I romani adoravano questo periodo, tant’è che gli dedicarono una festività, i “vinalia rustica”, che cadeva ogni 19 Agosto. Ma non solo: chiamarono il mese di Settembre “mensis vindemialis” e lo consacrarono interamente alla vendemmia. In quei giorni, il lavoro nei vigneti veniva coniugato con feste e rituali in onore degli dei; i romani esprimevano così la loro gratitudine alle divinità per l’abbondanza del raccolto.
E qui torniamo al discorso iniziale: la vendemmia, al di là dell’importantissima funzione che ricopre a livello agricolo, è sempre stata un’attività ricca di significati. In primis rappresenta un momento di aggregazione fondamentale per la comunità agreste, un evento all’insegna della convivialità e della voglia di festeggiare. Ci si ritrova tutti insieme in vigna e la raccolta dell’uva viene celebrata con canti, stornelli, chiacchiere e risate. Il duro lavoro si alleggerisce lasciando il posto alla magia che impregna questa fase dell’anno agrario. Usanze e rituali abbondano, così come la superstizione. E una volta terminata la raccolta, ci si diverte tramite balli, degustazioni e musica rigorosamente suonata dal vivo. La vendemmia è una festa da condividere in compagnia.
In più, c’è un dato non trascurabile da prendere in considerazione: il vino produce ricchezza. E non solo in qualità di bevanda. L’enoturismo, ovvero il turismo del vino, ultimamente ha conosciuto un incremento eccezionale. Un  numero sempre maggiore di persone è attratto da mete che hanno fatto del vino la loro eccellenza. Si moltiplicano le visite alle cantine, ai grandi vigneti, alle aziende vinicole, per vivere esperienze che spaziano dal semplice giro di perlustrazione ai workshop, le attività all’aria aperta, le degustazioni, gli approfondimenti culturali sui “territori del vino”. Il valore del vino, di conseguenza, è inestimabile sia dal punto di vista economico ma anche socio-culturale: definisce l’identità di un luogo, ne sancisce le tradizioni, favorisce la socialità e la coesione sociale.
Continuando a parlare della vendemmia e delle sue usanze, notiamo che sono innumerevoli e variano da regione a regione. Si tratta di consuetudini secolari, ma per la maggior parte tuttora in uso: un modo per mantenere ben saldo il legame tra l’uomo e le proprie radici. Ma quali sono le tradizioni più diffuse nei vigneti d’Italia? Tanto per cominciare, prima ancora che la vendemmia inizi, la vigna dovrebbe essere benedetta da un sacerdote: questo gesto, oltre che a scacciare la malasorte e a porre il vigneto sotto la protezione divina, serve a garantire un raccolto vinicolo abbondante.
La data di inizio della vendemmia, solitamente, viene stabilita dopo un attento studio delle fasi lunari, che si pensa possano influire sull’uva e sulla sua pregiatezza. Si tratta più che altro di superstizioni, ma sono in pochi a non tenerle in conto. Per una buona vendemmia, dunque, ne andrebbe ponderato l’avvio con il calendario alla mano.
Il primo grappolo d’uva raccolto ha un’importanza decisiva. Lo si mostra a tutti i partecipanti, a volte lo si benedice, lo si passa di mano in mano, lo si condivide mangiandone qualche chicco a testa. Ciò assicurerebbe una buona riuscita della vendemmia e una copiosa raccolta di grappoli.
L’inizio della vendemmia è un momento cruciale: le tradizioni proliferano e sono tutte volte a propiziare il successo della pratica agricola. In molte regioni italiane, ad esempio, la prima persona che entra nel vigneto è determinante. Una classica figura di buon auspicio è la donna, che alcuni vogliono bionda e altri bruna. Costei sarebbe portatrice di fecondità.
E’ comune accompagnare la vendemmia con canti, stornelli e botta e risposta pepati tra i due sessi. Nelle Marche, per esempio, i più giovani erano soliti scambiarsi frasi di corteggiamento attraverso gli stornelli. Si faceva a gara a chi formulava la proposta più arguta, o a chi replicava con un’altrettanto arguta risposta. Gli adulti chiacchieravano tra loro del più e del meno. Si rideva molto, questo sì, e la fatica risultava dimezzata. In alcuni vigneti d’Italia, invece, si ritiene che la vendemmia vada svolta in silenzio: servirebbe a non risvegliare le entità naturali, che potrebbero vendicarsi rendendo l’uva di pessima qualità.
Vendemmiando, va fatta molta attenzione al numero di grappoli che contiene ogni cesta. Anche in questo caso, trionfa la superstizione: tuttavia, le credenze differiscono in ogni regione. Ad attirare la buona sorte potrebbe essere, a seconda del territorio, un numero pari o un numero dispari. Il numero pari sarebbe emblema di armonia, il numero dispari di straordinarietà.
Frequenti sono anche le usanze che riguardano il primo mosto, il succo dei grappoli schiacciati poco tempo prima: a scopo propiziatorio viene versato sul suolo oppure lo si usa per produrre il vino “apripista” dell’annata.
Lo spirito della vigna è una credenza popolare molto diffusa. Questo spirito veglierebbe sul vigneto proteggendolo costantemente; non è un caso che un gran numero di viticoltori gli dedichi preghiere o doni per attirarsi i suoi favori.
Esistono poi delle curiosità che voglio citare ispirandomi ancora una volta alla mia regione, le Marche. Torniamo per un momento alla raccolta dell’uva. I grappoli venivano inizialmente sistemati nelle ceste e, a filare ultimato, versati nelle cassette che con un biroccio (un carretto a due ruote) si trasportavano fino alla cantina. Lì le uve si scaricavano nelle “canà”, grandi vasche adibite alla pigiatura. Quindi iniziava il lavoro che uomini e donne compivano con i propri piedi, pigiando i chicchi per lasciar fuoriuscire il mosto. Il movimento era una sorta di saliscendi che coinvolgeva  in alternanza la punta e il tallone del piede. Questa operazione, a seconda della quantità d’uva raccolta, non era raro che durasse tre giorni di fila. L’elemento interessante è la leggenda che è stata imbastita attorno alla pigiatura: si narra che un conte, avendo notato che i pigiatori procedevano stancamente, mandò a chiamare un suonatore ambulante di organetto. Quando questi arrivò nella cantina, il conte gli chiese di suonare una ballata dal ritmo serrato e molto allegra. I pigiatori si rinvigorirono non appena la ascoltarono, si lasciarono trascinare dalla musica e diedero involontariamente vita a un ballo che fu chiamato “saltarello”: è tipico delle Marche e di molte regioni dell’Italia centrale, come il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo. Viene considerata una delle danze più antiche d’Italia; con la vendemmia ha dunque in comune, oltre che l’origine, le radici ancestrali.
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Luglio

 

Luglio è un appuntamento al buio con l’estate.

(Hal Borland)
Arriva Luglio, e l’Estate ci travolge con una folata d’aria calda. Anzi, bollente, dal momento che l’anticiclone africano è ritornato in tutta la sua arsura. Il settimo mese dell’anno nel calendario gregoriano inizia oggi, ma a giudicare dalle temperature sembra già Ferragosto. Luglio è composto da trentun giorni ed è il primo mese completamente estivo. Il suo nome latino era Iulius, derivante da Giulio Cesare (presumibilmente nato il 13 Luglio), poichè Marco Antonio lo aveva dedicato al grande politico, oratore, autore e generale della Roma antica. Prima di allora Luglio veniva chiamato Quintilis, ovvero “cinque”, nel calendario romano: iniziando l’anno a Marzo, era il quinto mese. A Luglio, l’Estate esplode in tutto il suo fulgore. Ci si proietta mentalmente verso le vacanze, iniziano i weekend in riviera. Secondo la tendenza attuale, anzi, molti vanno in ferie proprio ora: il caos ferragostano nelle mete turistiche e i costi sempre più proibitivi di quel periodo spronano a optare per le vacanze anticipate una gran quantità di persone. In agricoltura è il momento delle semine di ortaggi tipicamente autunnali come i porri, il radicchio,i finocchi, i cavoli e così via; fino a non troppi anni fa, nei campi si bruciavano le stoppie, e quell’ odore inconfondibile era una costante delle notti estive. Oggi, per contrastare il rischio degli incendi boschivi, in molte regioni italiane la bruciatura è consentita soltanto da Ottobre a Maggio. Tra le ricorrenze principali del mese di Luglio troviamo il Giorno dell’ Indipendenza degli Stati Uniti d’America, che nel paese a stelle e strisce si festeggia il 4 Luglio, mentre il 14 Luglio, in Francia, ricorre l’ anniversario della presa della Bastiglia. Tornando in Italia, il 22 Luglio si celebra la festa di Santa Maria Maddalena: si deve a Papa Francesco l’aver elevato a festa quella che, fino al 2016, era una memoria. I segni zodiacali di Luglio sono il Cancro e il Leone, il colore del mese è il giallo, la pietra preziosa è il rubino: fu scoperto dagli indiani nel 3000 a.C. nelle miniere del Mogok e viene considerato il “re delle pietre”. Di un colore rosso intenso, il rubino è tradizionalmente una gemma di buon auspicio; indossandolo sulla mano sinistra, inoltre, si diceva che avesse avuto la facoltà di far vivere in armonia con i propri nemici.
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Il magico Capodanno dell’età vittoriana

 

Le parole dell’anno trascorso appartengono al linguaggio dell’anno trascorso e le parole dell’anno a venire attendono un’altra voce.
(T.S. Eliot)

 

Capodanno non è mai stato così magico come lo era in epoca Vittoriana. Fu la Regina Vittoria in persona ad estendere le celebrazioni per il nuovo anno in Inghilterra: prima si festeggiava sontuosamente solo in Scozia, dove il 31 Dicembre era stato ribattezzato Hogmanay. Gli scozzesi solevano dedicarsi a una serie di riti che non di rado duravano fino al 2 Gennaio, e la Regina era rimasta altamente intrigata da queste usanze. La passione per l’esoterismo tipica dell’età vittoriana ben si sposava con la data di Capodanno, impregnata di suggestioni incantate in quanto situata proprio a metà dei 12 giorni che intercorrono tra Natale e il 6 Gennaio: in un’epoca in cui lo spiritismo e la preveggenza la facevano da padrone, l’interesse per i riti propiziatori e divinatori dell’ultima notte dell’anno raggiunse proporzioni straordinarie. Le superstizioni associate al Capodanno proliferavano, si arrivò persino a pensare che tutto ciò che accadeva il 1 Gennaio sarebbe stato una sorta di “anteprima” sull’andamento dell’anno nuovo. La divinazione, di conseguenza, divenne un vero e proprio leitmotiv della notte del 31 Dicembre. Libri e manuali consigliavano di trascorrere il Capodanno in famiglia o con gli amici più cari: il modo ideale per dedicarsi tutti insieme alla chiaroveggenza.

 

 

La notte di Capodanno, legata a doppio filo a un nuovo inizio, veniva considerata la notte magica per eccellenza. Non erano necessari grandi strumenti per compiere riti divinatori: bastavano un po’ d’acqua, qualche guscio di noce, un numero indeterminato di candele e via dicendo. Le previsioni più richieste riguardavano il nuovo anno e quello che avrebbe portato con sè, oppure i dettagli sul futuro partner, un argomento dall’enorme appeal per le giovani donne in età da marito. Erano moltissime, poi, le usanze propiziatorie. Prima che scoccasse la mezzanotte, innanzitutto, il caminetto andava svuotato di tutta la cenere: l’anno che stava per iniziare sarebbe stato foriero di molte novità. Molte tradizioni riprendevano quelle dell’ Hogmanay scozzese. Eccone qualcuna.

 

 

Le visite

Il “primo passo” aveva inizio subito dopo mezzanotte. La prima persona da cui si riceveva una visita avrebbe dovuto portare con sè vari doni. Bevande e cibarie erano i benvenuti, dato che sarebbero stati distribuiti a tutti gli ospiti presenti. Così il visitatore si muniva di whisky, sale, carbone, frutta e dolci tipici, in particolare torte e biscotti. Il cerimoniale dello scambio di regali era interminabile, talvolta durava fino al giorno seguente. Si considerava di buon auspicio ricevere la prima visita dell’anno da un uomo scuro di capelli; i biondi non erano ben visti e spesso veniva loro impedito di varcare la soglia.

Le visite divennero un cardine del Capodanno vittoriano: uscire e andare a far visita agli amici era beneaugurante. Per il principio secondo cui ciò che si fa a Capodanno lo si fa per l’anno intero, fare vita sociale propiziava un anno intenso e pieno di opportunità. Chi rimaneva a casa correva il rischio di passare l’anno tra le proprie quattro mura, magari perchè costretto da una malattia.

 

 

A varcare le soglie delle case, tuttavia, erano esclusivamente individui di sesso maschile. Alle donne spettava il compito di ricevere, e i bambini che non avevano ancora compiuto il decimo anno rimanevano con loro. Nelle case, a Capodanno, era tutto un viavai di visite e visitatori: ci si presentava con un biglietto e si entrava subito a far parte della baraonda familiare. Molti fidanzamenti iniziarono proprio grazie alle visite di Capodanno. I giovani uomini e le giovani donne potevano conoscersi, incontrarsi, intrecciare liasons approfittando dell’andirivieni incessante. Le dimore dei benestanti si tramutarono nel punto di riferimento per chi puntava a un pasto luculliano: i loro rinfreschi erano memorabili così come le bevande che erano soliti offrire agli ospiti.

Intorno alla fine dell’800 le visite impazzavano. Si giunse a un punto di non ritorno quando divennero una sorta di competizione: tra gli uomini “vinceva” chi effettuava il maggior numero di visite, mentre le donne gareggiavano a colpi di biglietti da visita ricevuti. Ad imporre una svolta di tipo etico fu la morigeratezza tipica della società vittoriana. Le visite cominciarono a ridursi e si lasciò spazio a tradizioni più “innocue”.

 

 

I riti di buono e cattivo auspicio

Alcune azioni, a Capodanno, dovevano essere evitate assolutamente perchè di cattivo auspicio. Ad esempio pulire la casa e fare il bucato, oppure uscire portandosi dietro una lanterna: il fuoco doveva ardere esclusivamente nel camino per non attirare la mala sorte. Foriero di sventura era anche indossare un abito nuovo di zecca, mentre per i giovani uomini uscire con una manciata di monete nelle tasche avrebbe propiziato un prospero anno nuovo. Ascoltare una campana che suonava era un’altro indizio beneaugurale. Esisteva poi una tradizione molto particolare per scongiurare la fame: si usava prendere una torta e lanciarla contro una porta; il nuovo anno non avrebbe fatto mancare le provviste.

 

 

I canti di Capodanno

In questa tradizione rientra “Auld Lang Syne”, un’antica canzone scozzese che in Italia conosciamo con il nome di “Valzer delle Candele”: veniva (e viene tuttora) cantata nei paesi anglosassoni per congedarsi dall’ anno vecchio e, in generale, in ogni situazione che implichi una separazione (per esempio quando si termina il liceo e si consegue il diploma). Le parole del canto inneggiano ai bei momenti trascorsi con gli amici e al ricordo grato di quel periodo idilliaco.

In epoca vittoriana, inoltre, a Capodanno si diffuse l’usanza di spedire a parenti e amici delle bellissime cartoline di auguri illustrate, quelle che ammiriamo ancora oggi. Tra i soggetti predominavano bimbi o putti raffiguranti il nuovo anno e personaggi del folklore come i folletti e gli immancabili maiali, senza alcun dubbio emblemi di abbondanza e floridezza.

 

Illustrazioni

Immagine di copertina via Royce Bar from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0 DEED

Immagine n.5 e n.6 dall’alto SMU Central University Libraries, No restrictions, via Wikimedia Commons

 

1 Maggio, Beltane

 

1 Maggio. Se la tradizione, oltre che alla Festa del Lavoro, associa questa data al Calendimaggio (rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato), i Gaeli – un popolo celtico stanziatosi in Scozia e in Irlanda – celebravano Beltane, il giorno che coincideva con l’inizio dell’Estate. Il nome deriva dall’ irlandese antico “Beletene”, ovvero “fuoco luminoso”, e in Irlanda veniva usato anche per indicare il mese di Maggio. La collocazione di tale ricorrenza era fissata a metà tra l’ Equinozio di Primavera e il Solstizio d’Estate. Ma cosa si festeggiava, esattamente? Innanzitutto il ritorno della luce e della vita; accanto ad esse, la fertilità. Luce, vita e fertilità rappresentano una triade inscindibile, l’una è direttamente collegata all’altra. Il sole a Maggio torna a splendere, il clima è mite, si può godere dell’aria aperta. Ci si proietta verso l’esterno anche interiormente: la natura rigogliosa e le giornate sempre più lunghe diffondono un’atmosfera gioiosa. Si progettano picnic, scampagnate, si intrecciano amicizie e nuovi amori. E’ il periodo in cui il bestiame, dopo lo svernamento, viene condotto al pascolo. A Beltane, nel X secolo, i greggi e le mandrie erano sottoposti a pratiche di benedizione e purificazione da parte dei Druidi, che accendevano enormi falò sulle colline. Lì avevano luogo i rituali.

 

 

Questa tradizione sopravvisse persino dopo l’avvento del Cristianesimo e resistette fino agli anni ’50 del 1900. Non era, però, esclusivamente rivolta agli animali. Un gran numero di persone ardiva attraversare i falò saltando. Il rito aveva un carattere di buon auspicio e preveggenza: quanto più alto era il salto, tanto più alto sarebbe stato il raccolto. Molteplici usanze celebravano la fertilità tramite la formazione di nuove coppie. Il rito del Palo del Maggio, ad esempio, era comune presso i popoli Germanici e Anglosassoni. Prevedeva che un tronco di betulla, ontano, pioppo o maggiociondolo venisse privato dei rami e poi fissato nella terra. Alle donne del villaggio spettava il compito di attaccare al Palo ventiquattro nastri che misuravano il doppio della sua lunghezza; i colori erano innumerevoli, ma prevalevano il rosso, che simboleggiava il principio maschile, e il bianco, emblema di quello femminile. Le donne nubili erano tenute a realizzare una ghirlanda di fiori da porre attorno al Palo, in modo che potesse salire e scendere nel bel mezzo della danza rituale. Tre giorni prima dell’ inizio della festa, il Palo e la corona venivano consacrati. Erano rispettivamente il simbolo dell’ energia maschile e femminile.

 

 

Il giorno stesso delle celebrazioni, le donne scavavano una buca nel terreno laddove sarebbe stato collocato il Palo. La valenza emblematica di questo particolare è evidente: la buca rappresentava l’organo genitale femminile, mentre il Palo era un palese simbolo fallico. Nel momento in cui gli uomini si accingevano a sprofondare il Palo nella terra, avveniva un singolarissimo rituale. Le donne fingevano di allontanarli dalla buca per poi permettere loro di piantarvi il tronco. Infine, i nastri colorati venivano fissati sulla cima del Palo insieme alla ghirlanda. Attorno al Palo si effettuavano danze di corteggiamento: ogni uomo e ogni donna del villaggio dovevano tenere in mano l’estremità di un nastro. Le donne danzavano attorno al palo in senso antiorario, gli uomini in senso opposto. Quando l’uomo e la donna si incontravano, dovevano cambiare subito la direzione della loro danza. A segnare il ritmo, solitamente, era un tamburo detto “bodhran celtico”. Il rituale terminava nel momento in cui i nastri si intrecciavano attorno al tronco e la ghirlanda scendeva; a quel punto, la danza ricominciava in senso contrario e la ghirlanda doveva ritornare in cima al palo. L’ obiettivo, in sintesi, era che la corona di fiori scendesse e salisse senza difficoltà: raffigurava una metafora dell’ unione del Re e della Regina di Maggio, nominati quella sera stessa. Nei paesi anglosassoni, i componenti della giovane coppia venivano ribattezzati “John Thomas” e “Lady Jane”, il che riporta alla mente una celebre hit dei Rolling Stones (anche se alcuni identificano la “Lady Jane” del titolo con Jane Seymour, moglie di Enrico VIII Tudor).

 

 

I fiori assumevano un ruolo importante, nelle celebrazioni di Beltane. Oltre ad essere destinati alla ghirlanda del Palo del Maggio, adornavano il capo delle giovani donne e venivano raccolti dopo i rituali, prima di trascorrere la notte insieme sotto il cielo stellato. Il fiore è il perfetto emblema del risveglio primaverile, dell’ energia ritrovata. Al sorgere del sole, era come se esplodesse la fioritura. Il desiderio era sbocciato e avrebbe diffuso il suo profumo durante l’ intero giorno. Non dimentichiamo che per i Gaeli, appartenenti al gruppo dei Celti, la giornata iniziava al tramonto e terminava con il tramonto successivo. Incluso nei quattro festival gaelici associati ai cicli stagionali (gli altri sono Samhain, Imbolc e Lughnasadh), Beltane era una data ricca di tradizioni. I falò rimangono l’elemento principale, il più importante: con le loro fiamme altissime, rivestivano una valenza protettiva, purificatrice e beneaugurale. Un’usanza prevedeva che tutti i fuochi delle case venissero spenti e poi riaccesi con una torcia alimentata dal falò dei Druidi. Gli antichi sacerdoti celti, infatti, realizzavano grandi falò in onore di Bel (anche detto Belenus), il Dio della Luce e del Fuoco.

 

 

Nelle case, davanti al focolare, si banchettava in compagnia. I fiori, onnipresenti, decoravano le porte, le finestre, gli ingressi delle stalle e persino il bestiame: adornare una mucca era di buon auspicio per la produzione di latticini, all’ epoca una delle principali fonti di sostentamento. Si creavano i cespugli di Maggio, corposi bouquet composti da giunchi, rami, infiorescenze, nastri, conchiglie e spighe. I fiori più utilizzati erano le primule, il biancoscospino, il sorbo selvatico, il nocciolo, la ginestra, la calendula, che venivano affiancati plasmando le più disparate forme; abbondavano le ghirlande così come le croci. A Beltane erano d’obbligo le visite ai pozzi sacri, e a la rugiada incarnava un potente elisir di giovinezza.

 

 

I May Bush, cespugli di Maggio, erano alberelli riccamente adornati (si usavano finanche le candele, preziose palline d’oro e d’argento) che facevano bella mostra di sè nei giardini delle case. Non era raro che venissero banditi concorsi per il cespuglio più bello. Ciò, con il passar del tempo, diede adito a rivalità e ladrocini che in era vittoriana condussero alla messa al bando della tradizione. A Beltane, inoltre, tornavano alla ribalta i cosiddetti “Aos Sì”, l’antico popolo degli elfi e delle fate irlandesi. Si pensava che le fate avessero l’abitudine di rubare i latticini e per evitarlo venivano presi speciali accorgimenti: ad esempio, i prodotti caseari si legavano ai rami del Maggio. Gli ornamenti floreali delle mucche, oltre ad essere di buon auspicio, avevano un identico obiettivo. Proteggevano, cioè, i bovini dalle incursioni delle fate. Oppure, gli agricoltori effettuavano appositi riti per placare le incantate creature: si versava a terra una piccola quantità di sangue del bestiame, si organizzavano processioni…Ciò dimostra il carattere fondamentale che a livello nutritivo, a quei tempi, rivestivano i derivati del latte. La simbologia di Beltane include infatti anche la mucca, e accanto ad essa l’ape: il miele rientrava tra i portentosi alimenti che assicuravano il sostentamento dei Gaeli.

 

 

L’ amore e l’ innamoramento rappresentavano due punti cardine della festa. Il 1 Maggio si celebrava il sacro incontro tra il Dio e la Dea, lo sboccio del loro amore. Da questa unione scaturivano, copiosi, i germogli della vita. L’ Estate, a Beltane, è sempre più vicina e la terra riprende a donarci i suoi frutti; l’agricoltura fiorisce in vista dei prossimi raccolti. Spiritualmente, Beltane è il periodo dei traguardi raggiunti. Abbiamo consolidato le nostre potenzialità individuali e siamo pronti ad elevarci ulteriormente, raggiungendo livelli di autoconsapevolezza e propositività sempre maggiori.

Buon Beltane a tutti voi!

 

John Collier, “Queen Guinevere’s Maying”

 

 

La colazione di oggi: sapore di Tropici con l’ananas

 

L’ estate è ormai entrata nel vivo. Non è un caso che il protagonista della colazione di oggi sia un frutto che, più di ogni altro, è sinonimo di Tropici, climi torridi e paesi esotici: signore e signori, diamo il benvenuto all’ ananas! Originario dell’ America Latina e trapiantato nelle isole del Caribe, correva l’ anno 1493 quando Cristoforo Colombo lo notò a Guadalupa. Non molto tempo dopo venne trasportato in Europa, dove sia gli spagnoli che gli inglesi contribuirono a diffonderlo in tutto il continente . Possiamo dire che sia stata un’ ottima idea, dato che l’ ananas è ricco di proprietà benefiche. Questo frutto della famiglia delle Bromeliaceae ha un aspetto inconfondibile e un sapore dolce, succoso, invitante. Le sue innumerevoli virtù curative, inoltre, lo hanno reso popolarissimo presso molte tribù indigene del Sudamerica. L’ ananas ha il vantaggio di poter essere consumato nei modi più disparati, quindi è facilmente fruibile: tagliato a fette viene adoperato per preparare o per guarnire i dolci, il pane, lo yogurt e i pasticcini, è un ottimo ingrediente da inserire nei frullati e dal succo ricavato dal frutto si ottengono bevande squisite.

 

 

Passiamo subito alle proprietà: l’ ananas è un frutto dolce, ma ipocalorico. Annovera, infatti, pochissime calorie. La sua polpa (e soprattutto il suo gambo) contengono dosi massicce di bromelina, un gruppo di enzimi dalle potenti virtù digestive,  antinfiammatorie, antiossidanti e anticoagulanti. Essendo molto ricco di acqua, l’ ananas contrasta la ritenzione idrica; tra i carboidrati presenti nel frutto si segnalano zuccheri quali il fruttosio, il glucosio e il saccarosio. Pur essendo privo di un’ elevata quantità di fibre, l’ ananas è un vero e proprio scrigno di micronutrienti: contiene vitamina C, vitamina E, minerali come il potassio e il magnesio, ma anche il ferro, il calcio, lo zinco e il fosforo, sebbene in dosi minori. Nello specifico, i vantaggi che si ricavano da questi elementi sono molteplici: il magnesio è un toccasana per il sistema nervoso, per il benessere delle ossa (insieme al calcio) e per il metabolismo. La vitamina C rafforza il sistema immunitario, contribuisce alla sintesi del collagene risultando un efficace antiossidante e favorisce l’assorbimento del ferro nei globuli rossi. Il potassio, dal canto suo, è una miniera di benefici per la muscolatura e per l’equilibrio della pressione arteriosa. Il più importante punto di forza dell’ ananas, comunque, rimane la bromelina: se volete godere appieno delle sue proprietà,  cercate di evitare l’ ananas sottovuoto (soggetto a dei processi che la azzerano) e privilegiate il frutto fresco.

 

 

Riassumendo le doti dell’ ananas, possiamo affermare che è un frutto salutare a tutti gli effetti. La bromelina, in particolare, si rivela portentosa sotto molteplici aspetti: viene addirittura utilizzata nel settore della cosmesi per realizzare prodotti che nutrono la pelle. E’ inoltre un valido antitumorale, agisce a sostegno del sistema immunitario, combatte la cellulite e la ritenzione idrica. Per l’ esecuzione di molti preparati (ad esempio, diversi prodotti erboristici) si utilizza in gran parte il gambo dell’ananas, che come abbiamo già accennato è straordinariamente ricco di bromelina. Il gruppo di enzimi che compone questa sostanza possiede spiccate proprietà antinfiammatorie ed è indicato, quindi, nei confronti di tutta una serie di patologie. Qualche esempio?  L’ asma, l’atrite, le ferite, le ustioni…Non va trascurata, poi, la funzione principale della bromelina: quella di incrementare il metabolismo.

 

 

Siamo arrivati al tema “curiosità”, e bisogna dire che l’ ananas ne vanta parecchie. Scientificamente il suo nome è “Ananas Comosus”, ma venne battezzato “nana” dagli indios Tupi Guaranì del Brasile. Il significato del termine? “Delizioso”. I portoghesi si ispirarono a quell’ appellativo mutandolo in “ananaz”, mentre gli spagnoli gli diedero il nome di “piña”, da cui deriva l’ anglosassone “pineapple”. A proposito di spagnoli, pare che il re Carlo V non osò mai mangiare un ananas perchè temeva che nascondesse qualche insidia al suo interno. Non la pensavano così gli inglesi, per i quali il frutto divenne un simbolo di festa e di buone notizie. Ad esempio, quando le navi ritornavano dalle Americhe, i capitani solevano far penzolare un ananas dai loro portoni per comunicare alla città che erano di nuovo a casa. La particolare forma del frutto, considerata originale e bellissima, fece sì che l’ ananas fosse considerato di buon auspicio. Ecco perchè è un elemento ornamentale ricorrente di certi antichi palazzi patrizi, delle loro cancellate e persino del loro home decor. In Scozia, a titolo esemplificativo, la dimora di Dunmore Pineapple (datata 1761) è diventata celebre per la sua torretta con un tetto che riproduce un ananas in cemento.

 

 

 

 

“La massa ondeggiava”: l’ Estate arriva sulle note di “Disco Dreams”, re-edit della mitica hit della Contessa Pinina Garavaglia

” La massa ondeggiava, la pista brulicava…Un’ enorme forza propellente muoveva tutta quella gente”: un’ immagine d’ altri tempi? Forse, a causa dell’ incubo pandemia, ma che rimane ben impressa nella mente (oltre che nel cuore) “di chi c’era e di chi c’è ancora”. Cito la Contessa Pinina Garavaglia, e non a caso. I suoi fan avranno certamente riconosciuto le lyrics (o meglio, i versi) con cui ho aperto questo articolo: “Disco Dreams”, anche nota come “La massa ondeggiava”, è una leggendaria hit della Contessa e ha la capacità di catapultarti sul dancefloor sin dalle prime note. Oggi, l’ iconico e ritmatissimo brano ritorna grazie a Gasoldo, l’ eclettico producer di TempiNversi Records, che ha deciso di far vibrare l’Estate con il suo sound esplosivo. E’ un regalo a dir poco straordinario, quello che riceviamo da TempiNversi. Basti pensare che, uscito il 5 Giugno scorso, “Disco Dreams” ha già ottenuto un boom di ascolti sulle piattaforme (come YouTube e Spotify) che lo ospitano. Il tipico beat in stile ’90s del pezzo accende la voglia di ricominciare a vivere la notte,  di immergersi in un vortice di ebbrezza fino al sorgere del sole. E’ un desiderio che avvampa in chiunque, senza distinzioni: nei nostalgici, in chi l’ epoca d’oro dei club e della techno se la porta dentro, ma anche in tutti coloro che si imbattono per la prima volta nei versi che la Contessa declama su un travolgente sottofondo musicale. “Forever Young”, come recita Pinina Garavaglia nel brano “Magic Moments”: la Contessa Rock e il suo sound sono senza età e senza tempo, irresistibili sine die. Correvano gli anni Novanta quando “Disco Dreams” vide la luce sotto forma di poesia. Pinina Garavaglia la scrisse di getto dopo una serata allo storico Cellophane Club di Rimini, dove si era esibita come special guest, dedicandola all’ art director argentino Lucas Carrieri (tuttora attivo nel clubbing con i suoi stratosferici party organizzati in “templi” del calibro del “Peter Pan” e della “Villa delle Rose”).

 

 

Da allora, la Contessa iniziò a declamarla nel corso di tutte le sue performance fino a renderla mitica all’ After e all’ One Night Exogroove: “La massa ondeggiava, la pista brulicava”…la gente impazziva letteralmente mentre Pinina Garavaglia, sacerdotessa della notte, scandiva i suoi ipnotici versi in rima. Non è un caso che, nel tempo, “Disco Dreams” sia stata utilizzata dal dj Joe T Vannelli come live intro di raccolte quali “Exogroove Compilation” e “Exogroove volume due” con Francesco Zappalà, riscuotendo – va da sè – un successo smisurato. L’ immenso carisma della Contessa, il suo fascino e le sue doti di trascinatrice di folle tornano quindi ad essere protagonisti in questa Estate 2021. E non importa se la riapertura delle discoteche è ancora incerta, se dovremo limitarci a ballare “Disco Dreams” in giardino, in terrazza oppure in spiaggia, di fronte al mare: quei versi iniziali sono un potente mantra da scandire tutti insieme con gioia, a titolo beneaugurale. Potete star certi che il magnetismo sprigionato dalle liriche della Contessa Garavaglia, la loro magia, risulteranno di buon auspicio…così come erano di buon auspicio allora, durante l’ apogeo della nightlife, e come sempre lo saranno. Nonostante qualsiasi avversità.

 

 

 

La colazione di oggi: le ciliegie, dalla mitologia al gusto

 

In Primavera, i suoi fiori ci lasciano senza fiato: fitti e vaporosi, si addensano in nuvole candide o tinte di un rosa delicato. Il ciliegio, non a caso, è uno degli alberi più venerati, leggendari ed emblematici sin dalla notte dei tempi. Quando il fiore diventa frutto, poi, ci attrae con la sua forma sferica color rosso fuoco, con la sua consistenza polposa e con un gusto dolcissimo. Se amate le ciliegie, e adorate degustarle anche a colazione, il post che state leggendo fa al caso vostro: scopriremo quali sono i loro benefici e qual è il ruolo che rivestono in diverse tradizioni mitologiche. Esiste un proverbio che recita: “una ciliegia tira l’altra”. Non potrebbe essere più azzeccato! Questi frutti solleticano il palato in modo tale che smettere di piluccarli sembra impossibile. Oltre ad essere deliziose, le ciliegie sono altamente salutari: abbondano di nutrienti, di vitamina C (quindi rinforzano il sistema immunitario e si rivelano un toccasana per la pelle), contengono grandi quantità di potassio (svolgendo un effetto salutare per l’ apparato muscolare, il sistema nervoso e la pressione arteriosa) e un buon numero di antiossidanti (dalle potenti virtù antietà ed antinfiammatorie). Grazie all’ azione combinata degli antiossidanti e del potassio, inoltre, contribuiscono a scongiurare le patologie cardiache. Ma le proprietà delle ciliegie ci accompagnano persino nel mondo dei sogni: ottimizzando la quantità di melatonina, infatti, favoriscono un sonno regolare e rigenerante. Ah, dimenticavo…sono povere di calorie, se ne contano solo 38 ogni 100 grammi. Per cui, via libera alle scorpacciate anche in vista della prova costume!

 

 

Grazie alla sua bontà e alle sue doti, il succoso frutto del ciliegio viene utilizzato per la preparazione di innumerevoli drink e alimenti. Per fare solo alcuni esempi: lo cherry, il maraschino, lo yogurt, la marmellata, moltissimi tipi di torte (come la crostata e la golosissima “cherry pie”) e di dessert (dai cupcakes ai croissants, passando per i cheesecakes) si avvalgono delle ciliegie sia sotto forma di ingredienti che di guarnizioni. Riguardo ai miti e alle curiosità che le riguardano, potremmo dire che sono incalcolabili almeno quanto il loro impiego culinario. Il nome “ciliegia” deriva innanzitutto dal greco “kérasos”, differenziatosi successivamente nei termini “cerasa” (in italiano), “cereza” (in spagnolo), “cherry” (in inglese) e “cerise” (in francese). Per i Greci, il ciliegio era la pianta sacra di Venere ed i suoi frutti risultavano di buon auspicio per le coppie di innamorati. Anche in Sicilia si rinviene il tema della fortuna; pare che dichiararsi sotto le fronde di un ciliegio fosse altamente beneaugurante. Secondo alcune antiche leggende Sassoni, in effetti, i tronchi dei ciliegi erano abitati da creature divine dedite alla salvaguardia dei campi. Presso altri popoli, tuttavia, alla ciliegia viene associata una valenza completamente opposta: nel folklore finlandese rappresentava un frutto peccaminoso a causa della sua nuance di rosso, mentre si narra che gli inglesi considerassero foriero di mala sorte un ciliegio visto in sogno. In Oriente, al contrario, il ciliegio assume connotazioni di meraviglia e di estrema bellezza. Se in Giappone il suo fiore è diventato addirittura un emblema nazionale, omaggiato con il rito dell’ “Hanami” (rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato) nel periodo dello sboccio, la Cina lo equipara alla sensualità della donna ed alla sua beltà.