“C’è un bel cielo terso e potrei trovarmi da lavorare fino al tramonto per stare alla larga da mia madre, perciò sono alquanto allegra e faccio quello che fanno le persone allegre, come fischiettare mentre cammino e far dondolare spensieratamente il canestro con il porridge. (…) Quando raggiungo la casa della vedova Clarke, mi fermo al cancello. La porta d’ingresso è spalancata e lì, sulle pietre consumate del portico, c’è un coniglio bianco come il latte. Mi fissa di sghembo con il suo occhio rosso rubino. I conigli sono piuttosto comuni nei campi, li si vede scappare nell’erba alta, spaventati dal passo pesante degli uomini, ma non ne ho mai visto uno così, completamente bianco. Non ha ragione di starsene qui – spavaldo e immacolato – sul portico sudicio di Bess Clarke. Arriccia il naso, ma per il resto la creatura è perfettamente immobile, con quel particolare occhio a goccia di sangue puntato verso il cancello dove mi trovo. Il suo candore lo rende uno spettacolo davvero bizzarro, come se non avesse nè una forma nè un peso reale, e ci osserviamo vicendevolmente per un minuto buono prima che io spinga il cancello e lanci un buongiorno guardingo alla vedova Clarke. Dall’ interno proviene un gran trambusto e finalmente il coniglio bianco si drizza e corre a rintanarsi nella boscaglia. Elizabeth Clarke appare sulla soglia, strofinando la mano sul grembiule lurido e afferrando l’architrave con l’altra. “Rebecca West”, saluta socchiudendo le palpebre ai salubri raggi del sole, “buongiorno, mia cara”.
A.K. Blakemore, da “Le streghe di Manningtree” (Fazi Editore, 2023)
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