Halloween night: 5 usanze dell’ era vittoriana

 

Considerato il singolare rapporto con la morte che vigeva durante l’ epoca vittoriana (1837-1901), viene spontaneo chiedersi come si festeggiasse Halloween. Va ricordato, innanzitutto, che il tasso di mortalità elevato a causa delle malattie – e delle epidemie – allora incurabili, determinava una “familiarità” con il trapasso sfociata in usanze e rituali piuttosto macabri. Pensate solo alle fotografie post-mortem, in cui i defunti venivano immortalati insieme ai loro familiari a mò di ricordo, come se fossero ancora in vita. Oppure al lunghissimo periodo di lutto che le donne dovevano osservare, quattro anni in tutto suddivisi tra due di “lutto stretto” e due di “mezzo lutto”. Nei primi due anni vestire di nero era tassativo, nei successivi due era consentito passare al grigio, al malva o al lilla. Vi sembrerà curioso sapere che sorsero addirittura dei negozi specializzati nell’ abbigliamento da lutto (uno di questi era il Jay Mourning Store) : lì si vendevano abiti, ma anche gioielli e accessori da indossare dopo il decesso di una persona cara. I funerali vittoriani erano talmente solenni che per prendervi parte era necessario l’ invito, di solito graficamente elaboratissimo. Proprio in quegli anni, peraltro, esplose il boom dello spiritismo. Il dolore della perdita veniva mitigato dalla ricerca di un presunto contatto con il defunto, ma la morte e la malattia si esorcizzavano, in genere, elevandole quasi a culto. Il tipo di donna in voga aveva il corpo emaciato, lo sguardo spento e sofferente, la carnagione pallidissima. In letteratura spopolavano le elegie, i componimenti che esprimevano la profonda sofferenza causata dalla morte di un congiunto, di un amico o di un amante. Un esempio? “In memoriam A.H.H.” di Alfred Tennyson era il libro più letto. La Regina Vittoria stessa, quando suo marito (il Principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha) morì, osservò il lutto per tutta la vita. Paradossalmente, i riferimenti alla morte venivano in gran parte rimossi all’ arrivo del 31 Ottobre. Per gli anglosassoni, all’ epoca, Halloween rappresentava uno speciale appuntamento mondano e come tale veniva celebrato: si davano feste, ci si travestiva, si raccontavano storie di streghe e di fantasmi (questo sì!) per intrattenersi, e ci si dedicava a svariati giochi. Sentori divinatori e magici, comunque, aleggiavano puntualmente nell’ atmosfera. Esaminando cinque usanze legate alla “notte delle streghe”, scopriremo il perchè. Leggete qui di seguito e ammirate la gallery, una serie di Halloween cards risalenti proprio all’ era vittoriana.

 

 

Le mele.

Moltissimi giochi e usanze vedevano le mele protagoniste. Innanzitutto, erano (e sono) considerate un frutto magico, simbolo della triade Amore, Conoscenza e Morte. Se tagliate una mela in orizzontale, noterete che raffigura un pentacolo al suo interno: vale a dire uno dei simboli esoterici più universalmente noti. La mela era il frutto della conoscenza e degli incantesimi, il legno del melo veniva utilizzato per accendere i fuochi sacri. Nell’ era vittoriana si pensava addirittura che ad Halloween le mele (ma anche le zucche e diversi tipi di ortaggi) potessero animarsi. La notte del 31 Ottobre, non a caso, spadroneggiavano come strumenti di divinazione o in diversi giochi di abilità. Le ragazze in “età da marito”, ad esempio, si esibivano in prove di sbucciatura: quanto più lunga era la buccia di mela tagliata, tanto più fortunato sarebbe stato il nuovo anno della giovane. Se la buccia veniva gettata in un catino pieno d’acqua, inoltre, si diceva che prendesse la forma dell’ iniziale del futuro sposo. Un altro gioco contemplava che qualcuno tagliasse una mela in nove fette e che mangiasse le prime otto di fronte allo specchio, in una stanza rischiarata unicamente dalle candele. La nona fetta doveva essere lanciata dietro la spalla sinistra per offrirla in dono agli spiriti: costoro avrebbero dimostrato la loro gratitudine facendo apparire l’ anima gemella nello specchio. Divinazione a parte, un gioco come il “bobbing” era famosissimo. Consisteva nell’ immergere diverse mele in una tinozza riempita d’acqua; i giocatori erano tenuti ad estrarle aiutandosi solo con i denti. Un gioco simile, ma decisamente più goloso, prevedeva invece che i partecipanti riuscissero a mangiare – senza toccarle – delle mele caramellate che pendevano da una corda.

 

 

Lo specchio.

All’ epoca, era lo strumento divinatorio per eccellenza. Si pensava, inoltre, che tramite gli specchi si accedesse all’ aldilà e che la notte di Halloween, a mezzanotte, gli Spiriti lasciassero intravedere negli specchi il loro riflesso. Decisamente foriera di sciagure era la visione di un teschio: annunciava che si sarebbe morti entro l’ anno.

La candela.

Per divinare il futuro, la notte del 31 Ottobre le giovani donne si servivano anche delle candele. Lasciavano cadere delle gocce di cera sciolta aspettando che si raffreddassero. Quando ciò avveniva, la cera prendeva la forma del nome dell’ uomo che le avrebbe sposate.

 

 

I tre piattini.

Davanti al caminetto venivano posati tre piccoli piatti, uno vuoto, uno pieno d’acqua e uno pieno di farina. Il giocatore, bendato, doveva immergere il dito in uno di essi. Sarebbero stati gli spiriti a guidare la sua mano. Se il dito finiva nel piattino vuoto, per lui sarebbe stata un’ annata difficile e segnata dalla povertà. Se capitava nel piattino pieno d’acqua o in quello pieno di farina preannunciava, rispettivamente, un matrimonio nei dodici mesi successivi e un anno all’ insegna della prosperità e dell’ agiatezza.

Il pudding.

L’ Halloween Pudding rappresentava una tradizione culinaria consolidata. Preparandolo, la padrona di casa doveva inserire cinque oggetti al suo interno prima della cottura: un ditale, una chiave, un bottone, una moneta e un anello. Il dolce veniva consumato alle nove di sera in punto seguendo un preciso rituale. Il più anziano (o la più anziana) della famiglia tagliava le fette in assoluto silenzio, un silenzio osservato da tutti i commensali. Alle parole pronunciate dopo quella pausa si attribuiva una valenza premonitrice, poichè ognuna conteneva gli elementi che avrebbero contraddistinto il nuovo anno. Ma anche i cinque oggetti avevano un carattere di preveggenza: la moneta simbolizzava un’ imminente ricchezza, l’ anello un matrimonio a breve, il bottone l’ incontro con l’ anima gemella, la chiave un viaggio in vista e il ditale, ahimé, un futuro da single nei prossimi dodici mesi.

 

La festa di Santa Lucia in Svezia: il trionfo della luce sul profondo buio del Nord

 

In Svezia, prima dell’ avvento del calendario gregoriano, la festa di Santa Lucia coincideva con il Solstizio d’Inverno: era una ricorrenza significativa, che preannunciava il trionfo della luce sul buio imperante. Ma se le celebrazioni furono anticipate al 13 Dicembre, la loro valenza è rimasta inviariata. L’ oscuro e interminabile inverno scandinavo, quella notte, viene squarciato da un tripudio di bagliori. Una giovane donna che impersona Santa Lucia, sfoggiando una corona di candele fiammeggianti, capeggia una processione composta da un gruppo di sue coetanee. Indossano tutte un abito bianco stretto in vita da una fascia rossa, ognuna regge in mano una candela accesa. L’ effetto che sortisce la parata è irresistibile, altamente suggestivo: miriadi di fiammelle baluginano nel buio e i dolci canti delle donne trasportano in un’ atmosfera incantata. La canzone trainante è “Santa Lucia”, l’ antico brano (risale al 1849) scritto a Napoli da Teodoro Cottrau, ma il testo è differente, incentrato sulla vittoria della luce sulle tenebre invernali. Man mano che la processione avanza, il magnetismo che  sprigiona raggiunge il suo apice. Si rimane letteralmente ipnotizzati da quella visione magica, da quel connubio onirico di cori e luci che invade ogni città della Svezia. A Stoccolma la processione attraversa la metropoli fino a raggiungere lo Skansen, il museo all’ aperto, mentre nel Duomo, nello Storkyrkan e nelle chiese del Gamla Stan (la città vecchia) si tengono concerti di Santa Lucia da mattino a sera.

 

 

Ogni particolare della sfilata possiede una forte valenza emblematica: l’abito bianco simboleggia la purezza di Santa Lucia, la fascia rossa il sangue del suo martirio, le candele il fuoco che si rifiutò di divorarla con le sue fiamme, quando fu condannata al rogo. Le stesse candele, tuttavia, rimandano a significati molteplici e sono anche una metafora della luce che sconfigge il buio. Secondo la tradizione svedese, la Santa viaggiava di città in città regalando leccornie ai bimbi. Un’ usanza che non si è persa, a giudicare dalle celebrazioni che hanno preso piede nel 1927: da allora in poi, si è sempre fatto riferimento a queste ultime. Proprio quell’ anno ebbe inizio la consuetudine di eleggere una “Lucia” in ogni centro urbano e una “Lucia” nazionale, selezionata oggi tramite la TV di Stato. Le giovani donne scelte, durante le processioni del 13 Dicembre,  visitano svariati luoghi (piazze, teatri, ospedali, centri commerciali, residenze per anziani, chiese e via dicendo) distribuendo i tipici dolcetti allo zenzero – i Pepparkakor – e intonando i canti tradizionali del Luciadagen.

 

 

Le parate non sono ad appannaggio esclusivo del gentil sesso: anche i ragazzi partecipano, interpretando vari ruoli. Ci sono gli stjärngossar (ragazzi stella), che indossano un cappello conico adornato di stelle color oro, i tomtenissar (gli elfi di Babbo Natale), che illuminano il cammino con le loro lanterne, altri ancora indossano costumi che li tramutano in omini al pan di zenzero viventi.  Ai cori di Sankta Lucia, i “maschietti” alternano canzoni imperniate sulla storia di Santo Stefano (il primo martire cristiano). Ma quando e come nascono, queste tradizioni? Alcuni le fanno risalire ad un’ antica usanza in vigore presso le famiglie protestanti tedesche: il rito del Christkind prevedeva che i doni di Natale venissero distribuiti da eteree donne-angelo. Nel 1700, tra le classi abbienti svedesi cominciò ad imporsi  il Kinken Jesus, probabilmente un’evoluzione di quella consuetudine; la vigilia di Natale, ragazze con il capo incoronato di candele visitavano le case e donavano dolcetti ai più piccoli. Altri studi individuano l’ origine delle celebrazioni di Santa Lucia nei Cantori della Stella, un’ antichissima tradizione svedese: a Natale e nei giorni dell’ Avvento, giovani angeli biancovestiti si esibivano in gorgheggi natalizi nel corso di svariati eventi. Donne in candide vesti e con corone di candele pare che abbiano fatto la loro apparizione, a Santa Lucia, nei dintorni del lago di Vänern alla fine del ‘700. Un secolo dopo, questa usanza si diffuse in molteplici zone della Svezia.

 

 

I festeggiamenti di Santa Lucia, nelle “lande delle nevi” scandinave,  continuano ad esercitare un fascino immenso. La tradizione della Santa che reca in dono luce e bonbon viene perpetrata anche in famiglia, dove la figlia maggiore è solita dare il buongiorno ai propri cari con caffè e dolci caratteristici indossando un abito bianco, una sciarpa rossa e una corona di candele. A proposito di tipicità dolciarie, non si può tralasciare di citare i Lussekatter: queste deliziose focaccine a forma di “S” esaltano il gusto delle uvette e dello zafferano e si accompagnano alla perfezione con del buon Glögg caldo, un vino speziato che ricorda il nostro vin brulé.

 

 

 

 

 

 

 

Foto della processione di Fredrik Magnusson, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons