L’Hygge: una filosofia di vita che viene dalla Danimarca

 

“Hygge”: un termine che racchiude tutta una filosofia di vita. Lo conoscete? E’ un sostantivo danese (la cui pronuncia è esattamente “ugga”) che in italiano potrebbe essere tradotto con “intimità”, “accoglienza”, “calore”, “comfort”. Tirare in ballo le parole, tuttavia, non rende l’idea: dire “hygge” è definire un concetto, un’atmosfera. Diverse lingue germaniche includono un vocabolo molto simile; per i tedeschi è Gemütlichkeit, per gli svedesi Mys, per gli olandesi Gezelligheid. In Norvegia, anticamente, “Hygge” aveva lo stesso significato che ha tuttora. Quando questo termine apparve in Danimarca all’inizio dell’Ottocento, conquistò subito i danesi, che lo adottarono senza se e senza ma. L’Hygge è direttamente associato alla vita quotidiana, ai piccoli piaceri che l’esistenza offre giorno dopo giorno. La casa, accogliente e confortevole,  è il suo regno. Attività molto Hygge sono, ad esempio, trascorrere dei magici momenti con gli amici, con gli affetti più cari; sorseggiare un buon gløgg  (il vin brulé scandinavo), un caffé, una cioccolata calda, davanti al focolare; preparare dolci, biscotti, piatti tradizionali; godersi il tepore familiare in tutto relax; combinare la perlacea luce nordica con il bagliore soffuso delle candele. Ne esistono molte altre ancora, naturalmente, che potrebbero essere riassunte in una frase: “cercare la gioia nelle piccole cose”. D’altronde, non è un caso che la Danimarca abbia occupato per oltre 40 anni il primo posto nella classifica dei paesi più felici del mondo.

 

 

L’ HYGGE IN PILLOLE

La casa

E’ un rifugio, un’oasi accogliente in cui assaporare momenti di pura felicità. I colori delle pareti sono chiari, luminosi, per riflettere il più possibile la luce del giorno. L’arredamento è composto da un mobilio in materiali rigorosamente naturali, come ad esempio il legno. L’oggettistica e le decorazioni ricoprono un ruolo chiave, poichè personalizzano l’ambiente rendendolo ancora più ospitale. Divani e cuscini, emblemi di comodità, abbondano. Le stanze principali sono la camera, all’insegna del massimo relax, ma soprattutto la cucina: è il luogo dove si prepara il cibo e in cui ci si riunisce la sera, condividendo pasti, chiacchiere e piacevoli racconti. L’illuminazione della casa è molto importante; le lampade vengono preferite ai lampadari giacchè diffondono una luce più intima; il camino (imprescindibile) e le candele a profusione rappresentano i must dello stile Hygge. Le candele, in particolare, vengono utilizzate ampiamente da tutti i danesi. Osservare il baluginio della loro fiamma è come compiere una meditazione che induce un profondo rilassamento.

 

 

Il cibo

E’ alla base della convivialità Hygge. Cucinare insieme agli amici e ai familiari è condividere momenti di totale intimità. Vengono privilegiati piatti tipicamente danesi come le polpette in salsa al curry, lo Snobrød (un pane il cui impasto viene avvolto attorno ad un bastone e cotto sul fuoco), e lo Skipperlabskovs, petto di manzo condito con patate, pepe nero, cipolle e foglie di alloro. Tra i dolci Hygge rientra il rote Grütze, realizzato con gelatina alla frutta e fecola di patate, e il Gammeldags æblekage, un dolce a tre strati a base di mele. Sul podio delle bevande troviamo il gløgg, seguito dalla cioccolata calda, dal caffè e dallo sciroppo di sambuco.

 

 

La convivialità

Trascorrere del tempo di qualità con gli amici è un altro cardine dell’ Hygge. Le parole d’ordine, ancora una volta, sono “convivialità”, “condivisione”, “armonia”. Il piacere di stare insieme prevale su tutto; l’atmosfera è rilassata, ognuno deve sentirsi a proprio agio. Lo spirito di gruppo predomina sull’ego dei singoli componenti: essere sè stessi è un imperativo, corroborato dall’amenità dei racconti e dei ricordi evocati. Ritrovarsi è un rituale che coincide con una pausa rigenerante, assaporando del buon cibo e staccando completamente la spina dal mondo virtuale. Fondamentale è cogliere l’attimo, la gioia del qui e ora.

 

 

Il Natale

Le feste natalizie, in Danimarca, rappresentano il periodo Hygge per eccellenza: il buio dell’Inverno viene contrastato da miriadi di candele, ma anche per strada e nei luoghi tipicamente turistici sfavilla un tripudio di luci. Basti pensare ai Giardini Tivoli di Copenaghen, classe 1843, il parco di divertimenti più antico al mondo. Durante l’Avvento, attività Hygge come lo stare insieme, il condividere i pasti e il preparare piatti tipici si susseguono a spron battuto. Anche addobbare la casa è molto Hygge. Le decorazioni sono realizzate a mano, il presepe trionfa accanto all’albero di Natale e gli ornamenti più elaborati vengono tramandati alle nuove generazioni. Elfi in miniatura proliferano sui portoni delle case o alle finestre; in cima all’abete troneggia una stella d’oro o argento, mentre i suoi rami sono impreziositi da noci, biscotti, piccole bandiere danesi e meravigliosi oggetti. Le candele, un basic dello stile Hygge, abbondano anche sull’albero e nelle composizioni che abbelliscono la tavola del Natale. Una nota tradizione danese, inoltre, prevede l’accensione di una candela dell’ Avvento tutti i giorni nel periodo compreso tra l’ 1 e il 31 Dicembre (clicca qui se vuoi saperne di più sul Natale a Copenaghen).

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

La forma

 

“L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.”

(Luigi Pirandello, da “Uno, nessuno e centomila”, libro secondo, XI, 1926)

 

Fiaba d’Inverno

   

“Le fiabe dicono più che la verità. E non solo perché raccontano che i draghi esistono, ma anche perché affermano che si possono sconfiggere.”

    (Gilbert Keith Chesterton)

 

L’Inverno è la stagione della fiaba: la neve, i paesaggi ammantati di candore, i cristalli di ghiaccio hanno il potere di calarci in uno scenario fatato. E il silenzio che accompagna la discesa dei fiocchi dà vita a un’atmosfera magica, istanti in cui il tempo sembra quasi sospeso. Il crepitio del caminetto acceso fa da sottofondo ad attimi in cui torniamo a godere dell’ intimità della nostra casa, e nei momenti di relax ci sembra ancora di ascoltare quella voce che iniziava immancabilmente il suo racconto con “C’era una volta…”. La nuova photostory di VALIUM è un’ ode all’ Inverno e al mood fiabesco che si associa a questa splendida stagione.

 

 

 

 

La Toscana d’autunno

 

” La Toscana è bella d’autunno. Puoi camminare lungo sentieri che hanno il profumo dei funghi e delle ginestre, ascoltare le voci del vento che chiama dai poggi orlati di cipressi e di abeti, pescare le anguille nei borri dove il torrente rotola sui sassi scivolosi di borracina, andare a caccia di lepri e di fagiani nelle macchie di erica rossa, ed è tempo di vendemmia, l’ uva si gonfia violetta tra i pampini fitti, i fichi pendono dolci dai rami che fremono di fringuelli e di allodole, nei boschi le foglie si accendono di giallo e di arancione bruciando il monotono verde d’estate. Se ti senti stanco di te stesso e hai bisogno di ritrovare te stesso, lavarti dei dubbi, non c’è posto migliore della Toscana d’autunno: andiamo in Toscana, ti dissi. Venisti, e la vecchia casa sulla collina non era mai stata incantevole come quell’ autunno. L’ edera l’ aveva fasciata in fiammate di rosso che si arrampicavano fino alle finestre del secondo piano e ai merli della torretta, i rosai erano inaspettatamente sbocciati in un tripudio primaverile, e così il glicine che dalla ringhiera della terrazza prorompeva in cascate di tenero azzurro. Era fiorito anche il corbezzolo dinanzi alla cappella, bacche di porpora su cui i merli si gettavano ingordi, e nella vasca le ninfee galleggiavano bianche, superbe. Tu però vi gettasti un’ occhiata di indifferenza e poi ti confinasti in una reclusione che escludeva ogni interesse o curiosità. Per giorni e giorni non uscisti quasi mai. Non ti inoltrasti mai tra i filari di viti per cogliere un chicco d’uva, non ti recasti mai nel bosco per respirare l’aria odorosa di ginestre e ammirare il paesaggio dalla cima del crinale. Solo una volta ti spingesti trenta metri oltre il cancello per scoprire, sorpreso, che le castagne maturano dentro un involucro irto di aculei e le noci dentro una buccia chiamata mallo, e un’ altra scendesti in giardino per notare con raccapriccio che nella vasca delle ninfee c’erano i pesci e per chiedere se nella cappella c’erano i morti. “

 

Oriana Fallaci, da “Un uomo”

 

 

Dante e il momento perenne

 

” Beatrice, diciottenne, affiancata da due fantesche, stava dirigendosi verso la chiesa di Santa Margherita mentre Dante, appiattito in una sorta di incavo del muro, tratteneva il fiato. La giovane, pur avvedendosi della sua presenza, confermando l’atteggiamento di sempre, andò oltre. Aveva raggiunto l’ingresso della Chiesa quando all’ improvviso si fermò. “Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”, era la sua canzone, “al tuo fedele, che, per vederti, ha mosso passi tanti!”  E lei, come obbedendo alla sua implorazione, si girò. Lui seppe che stava accadendo qualcosa di assolutamente inatteso, di immaginario. Dal più alto dei Cieli i Serafini, i Cherubini, i Troni, le Dominazioni erano scesi su quel minuscolo vicolo del grande mondo. Ora Beatrice lo stava fissando sorridendogli. “Vi saluto” sussurrarono le labbra benedette di lei nello stradello delle acque di scolo. Lui la guardava esterrefatto implorando il suo Dio di far durare quel sorriso di lei tutti i giorni della sua vita. “Vi saluto” le fece eco lui nel vicolo dei fradici muschi.

L’ ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente la nona di quel giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza…

Beatrice e le sue donne erano scomparse all’ interno della chiesa. Lui, in un mescolarsi di tremore e commozione, si lasciò scivolare lungo la parete, le gambe raccolte, stretto in se stesso. Rientrò a casa solo all’ imbrunire, saltando la cena per chiudersi prima possibile in quella sorta di sottotetto che gli permetteva di isolarsi dalla matrigna e dai fratellastri. Sul suo letto fissava il grande buio al colmo di una felicità immensa. Non doveva dimenticare nulla ma rendere perenne quel momento in cui lei aveva rallentato il passo, doveva rendere eterno il suo lento girarsi prima di decidersi a sorridergli e salutarlo. Un saluto che gli rivelava quanto conoscesse la sua pena. Si era voluto convincere che, con quel saluto, avesse inteso confidargli che qualunque cosa fosse accaduta tra loro, che lei fosse data in sposa a un altro, che avesse addirittura perduta la vita, lui avrebbe dovuto saperla sua, oltre ogni ragionevolezza, lui avrebbe potuto disporre di lei, come qualcosa che non è più da considerarsi nella contingenza del vivere.  ”

Pupi Avati, da “L’ alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante.”

 

 

Dipinto: “Dante meets Beatrice at Ponte Santa Trinità” (1883) di Henry Holiday

 

Violeta

 

” La nostra casa era piccola e la convivenza un po’ forzata; ero sempre insieme a qualcuno, ma quando compii sedici anni ricevetti in regalo una capanna a pochi metri dalla casa principale che Torito, zia Pilar e zio Bruno costruirono in un batter d’occhio e che io battezzai La Voliera, perchè quello sembrava, con la sua forma esagonale e il lucernario sul tetto. Lì avevo lo spazio necessario per la solitudine e l’ intimità per studiare, leggere, preparare le lezioni e sognare lontana dall’ incessante cicaleccio della famiglia. Continuai però a dormire in casa con mia madre e le zie, (…) l’ ultima cosa che avrei voluto era affrontare da sola i terrori dell’ oscurità nella Voliera. Con zio Bruno celebravo il miracolo della vita a ogni pulcino che usciva dal guscio e a ogni pomodoro che dall’ orto arrivava sulla tavola; con lui imparai a osservare e ad ascoltare con attenzione, a orientarmi nel bosco, a nuotare in fiumi e laghi gelati, ad accendere il fuoco senza i fiammiferi, ad abbandonarmi al piacere di affondare la faccia in un’ anguria succosa e ad accettare l’ inevitabile dolore di separarmi dalle persone e dagli animali, perchè non c’è vita senza morte, come sosteneva lui. “

 

Isabel Allende, da “Violeta”

Il deserto e il pozzo nascosto

 

” Era stanco. Si sedette. Mi sedetti accanto a lui. E dopo un silenzio disse ancora: ” Le stelle sono belle per un fiore che non si vede…” Risposi: “Già,” e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna. “Il deserto è bello,” soggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…”Ciò che abbellisce il deserto,” disse il piccolo principe, “è che nasconde un pozzo in qualche luogo…” Fui sorpreso di capire d’un tratto quella misteriosa irradiazione della sabbia. Quando ero piccolo abitavo in una casa antica, e la leggenda raccontava che c’era un tesoro nascosto. Naturalmente nessuno ha mai potuto scoprirlo, ne forse l’ha mai cercato. Eppure incantava tutta la casa. La mia casa nascondeva un segreto nel fondo del suo cuore… “Sì, ” dissi al piccolo principe, “che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile.” “Sono contento,” disse il piccolo principe, “che tu sia d’accordo con la mia volpe.” Incominciava ad addormentarsi, io lo presi tra le braccia e mi rimisi in cammino. Ero commosso. Mi sembrava di portare un fragile tesoro. (…) E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora: ” Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…” E lo pensavo ancora più fragile. Bisogna ben proteggere le lampade: un colpo di vento le può spegnere…E così, camminando, scoprii il pozzo al levar del sole. “

 

Antoine de Saint-Exupéry, da “Il Piccolo Principe”

 

 

 

 

La bella estate

 

” A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. “

 

Cesare Pavese, da “La bella estate”