Novembre

 

L’anno è prossimo alla fine. Ottobre è il suo cielo al tramonto, novembre il tardo crepuscolo.

(Henry David Thoreau)

 

Caratteristiche

Novembre è il mese delle brume, dei primi freddi, della notte che arriva sempre più presto. I colori straordinari del foliage hanno lasciato il posto al nero dei rami scheletrici. L’Autunno è in dirittura di arrivo, pronto a dissolversi tra poco più di un mese. Composto da trenta giorni, Novembre esordisce con la solennità di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti.  E’ conosciuto come “mese dei morti” proprio per questa ricorrenza, celebrata il 2 Novembre, ma anche per le sue cupe atmosfere: la natura si assopisce profondamente, obbedendo al ciclo di morte e di rinascita che la contraddistingue; l’oscurità predomina, preparandosi a raggiungere il suo apice con il Solstizio d’Inverno. In un simile contesto di grigiore si inserisce, inaspettatamente, l’“estate di San Martino”, una serie di giornate tiepide e assolate che precedono l’11 Novembre, data della festa dedicata a Martino di Tours.

Storia

Il suo nome deriva da November, che in latino ha le sue origini in novem: nel Calendario Romano, che iniziava a Marzo, Novembre era infatti il nono mese dell’anno.

Segni zodiacali

Lo Scorpione domina la scena fino al 22 Novembre, poi è la volta del Sagittario, che viene seguito dal Capricorno il 22 Dicembre.

Ricorrenze

Novembre si apre con la solennità di Ognissanti. Il 2 viene celebrata la Commemorazione dei Defunti, l’11 la festa di San Martino, vescovo di Tours: questa ricorrenza, detta anche “festa dei cornuti” in virtù di alcune antiche usanze popolari (rileggi qui l’articolo che VALIUM le ha dedicato), coincide tradizionalmente con la degustazione del vino novello, che viene abbinato a tipici piatti autunnali.

Colore

Il colore di Novembre è il viola, intenso e mistico, perfetto per rispecchiare la suggestività di questo mese.

Pietra Preziosa

Non una, bensì due pietre sono associate al mese di Novembre: il topazio e il citrino. La prima, declinata in un’innumerevole varietà di colori, aveva il potere di allontanare gli incantesimi; la seconda, contraddistinta da una nuance di giallo a metà tra il giallo oro e il giallo limone, era una sorta di scudo contro i pensieri negativi.

 

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Lumere, Lumazze e Morte Secche: le Jack O’lantern della tradizione italiana

 

Ad Halloween le ombre sono diverse dal solito, gli spaventi ti prendono all’improvviso, le zucche sorridono e i pensieri trasgrediscono ogni regola.
(Fabrizio Caramagna)

 

Sapevate che la tradizione della zucca intagliata di Halloween (“Jack O’lantern”) non appartiene esclusivamente ai paesi anglosassoni? Il simbolo per eccellenza della notte del 31 Ottobre, in realtà, ricorre anche nel folklore italiano: la ritroviamo in Liguria, in Toscana, nel Lazio del nord e in tutta la Padania, dal Piemonte all’Emilia passando per il Veneto e la Lombardia. Non dimentichiamo che la festa di Samhain (poi sostituita dalla Chiesa cattolica con le solennità di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti) rappresentava il Capodanno celtico, e quando i Celti migrarono nella penisola italica si stanziarono nelle suddette regioni prima di spingersi fino a Roma. Riguardo a Samhain, che in Italia prese il nome di Samonio, su VALIUM trovate un gran numero di articoli. Oggi, invece, accenderemo i riflettori sulla zucca intagliata. Emblema della connessione tra il mondo visibile e invisibile che si instaurava nella notte di Samhain, la Jack O’lantern giunse addirittura ad avere un suo corrispettivo italiano, la lümera della Padania. Non sono pochi gli studi che hanno rinvenuto similitudini tra la zucca intagliata, illuminata da una candela, e un teschio. Gli occhi enormi, il naso appena accennato e la bocca sdentata ne replicavano le fattezze per farsi scherno della morte: era un modo per esorcizzarla mettendola in ridicolo.

 

 

Il rapporto che i Celti avevano con la morte era privo di qualsiasi indizio di drammaticità. Alla fine della vita si guardava con serenità, paura e tristezza erano emozioni che non avevano nulla a che fare con il sonno eterno. Samhain, infatti, nonostante i defunti avessero libero transito nel mondo dei vivi, era una festa giocosa. I Celti conferivano una forte valenza simbolica al teschio: ritenevano che la testa fosse la sede dell’anima e conservavano il capo reciso del nemico più ardito che avevano affrontato in battaglia, poichè pensavano che avesse la capacità di infondere in loro i suoi pregi e il suo valore. Ai teschi e alle teste tagliate veniva tributato un enorme rispetto, una sorta di adorazione; in questo modo, avrebbero irradiato un’energia benefica e incrementato le loro attitudini divinatorie. L’utilizzo ironico e gioioso che a Samonio veniva fatto dei teschi, di conseguenza, implicava l’utilizzo obbligato delle zucche, che ne erano la rappresentazione.

 

 

La Lümera padana

Le zucche intagliate a mò di teschio, illuminate dall’interno con una candela, nelle aree padane vengono chiamate Lümere. Il loro utilizzo era legato prevalentemente alla festa dei Morti e alla vigilia di Ognissanti, ma in determinate zone la tradizione anticipava o prolungava di diverse giorni il rito delle Lümere: sono noti casi in cui le zucche illuminate si preparavano già alla fine di Settembre e rimanevano in uso fino all’Epifania. A realizzarle erano i bambini, guidati dai nonni o comunque dagli anziani della famiglia. Ma a cosa servivano, di preciso, le Lümere? Innanzitutto a spaventare, a fare scherzi. I giovani erano soliti collocarle nei cimiteri, ai bordi dei sentieri, sempre e solo nei luoghi più bui. Oppure le infilzavano a dei bastoni e bussavano di casa in casa, dando vita a burle che oggi chiameremmo “prank”. Altrimenti, organizzavano vere e proprie processioni, avvolti in spettrali mantelli bianchi e reggendo la Lümera tra le mani.

 

 

Delle Lümere, però, non veniva fatto solo un uso goliardico: nelle notti del 31 Ottobre e del 1 Novembre, venivano poste in prossimità delle chiese e dei cimiteri per far luce alle anime dei defunti che transitavano tra l’aldilà e il mondo terreno. Avevano anche una funzione ornamentale, la stessa che hanno oggi. La vigilia di Ognissanti decoravano davanzali, muretti, portoni e balconi; ogni famiglia sceglieva le zucche accuratamente, anche in base alle dimensioni, perchè le più grandi erano riservate alle porte d’ingresso. Nel bresciano e nel canavese, la tradizione prevedeva che pendessero dai rami degli alberi. Nel Friuli si utilizzavano tante zucche quanti erano i morti che si desiderava omaggiare, e le candele al loro interno dovevano ardere tutta la notte affinchè la polpa del frutto si ammorbidisse e potesse nutrire il defunto. Oppure, in ogni zucca si inseriva una lettera per i defunti della famiglia; la mattina dopo era d’obbligo verificare se le anime erano effettivamente entrate in casa.

 

 

I nomi

I nomi delle zucche intagliate variano di zona in zona. Se in Piemonte, Lombardia e Emilia sono state battezzate Lümere, i veneti le chiamano Lumere o Suche Baruche. In provincia di Rovigo e in Romagna vengono denominate Lumazze, a Biella Teste da Mort, in Toscana le Morte Secche: l’antica simbologia celtica relativa alle zucche di Samonio riaffiora prepotentemente.

 

 

La Morte Secca toscana

Il cosiddetto “gioco dello zozzo” era tipico della cultura agreste toscana: tra il mese di Agosto e il mese di Ottobre si usava intagliare una zucca dotandola di occhi, naso e bocca, poi la si illuminava accendendo una candela al suo interno. La zucca veniva posizionata all’esterno della casa, in giardino oppure su un muretto, dove era più facile darle l’aspetto della testa di un mostro. A questo scopo venivano aggiunti degli abiti, o qualche straccio, per simulare l’esistenza di un corpo. Non restava che aspettare che calassero le tenebre per organizzare qualche scherzo, spaventando a morte chiunque si trovasse a passare di lì. Nel Lazio settentrionale vigeva un gioco simile che pare risalisse all’ Ottocento: la zucca intagliata, in questo caso, veniva chiamata La Morte; un nome a dir poco significativo, in virtù di quanto abbiamo appreso finora. Felice Halloween a tutti!

 

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Le Fave dei Morti, il tradizionale dolce marchigiano per i defunti: origini, storia, simbologia e ricette

 

In occasione delle ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, celebrate rispettivamente l’1 e il 2 Novembre, in Italia si usa preparare i cosiddetti “dolci dei morti”. Si tratta di dolcetti tradizionali preparati con ingredienti semplici e frugali, spesso a base di mandorle, diffusi in tutte le regioni della penisola: possono essere dei biscotti, la cui forma rimanda di frequente alle ossa umane (le “Ossa dei Morti” sono popolarissime in Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia, nel senese e nelle Marche),  delle specifiche tipologie di pane e di panini (rintracciabili in Trentino, Maremma, Sicilia e Lombardia), dei prodotti di pasticceria a base di marzapane (per esempio le “Dita di Apostolo” e la “Frutta di Martorana” della tradizione calabrese e siciliana), oppure varianti del torrone come il tipico “Torrone dei Morti” napoletano. Voglio soffermarmi, però, su un dolce caratteristico della mia regione, le Marche, oltre che di regioni del centro Italia quali il Lazio, l’Umbria e l’ Emilia Romagna: le “Fave dei Morti”.

 

 

Sono dei biscotti dalla forma generalmente ovale o tondeggiante, simili agli amaretti ma solo nell’ aspetto. Il denominatore comune di tutte le versioni, che differiscono a seconda della zona di provenienza, sono le mandorle tra gli ingredienti principali. Ma perchè il nome “Fave dei Morti”, e come è nata questa tradizione? Pare che l’usanza abbia avuto origine dall’antichissima credenza secondo cui i defunti, tra l’1 e il 2 Novembre, tornassero nel mondo dei vivi. In quell’occasione, veniva organizzata per loro un’accoglienza all’insegna della dolcezza. Ogni famiglia, all’epoca, manteneva ben saldo il legame con i propri antenati e ne onorava il ricordo costantemente. I dolci preparati durante le festività dei Morti, dunque, venivano offerti a questi ultimi (oltre che a tutti i familiari) per celebrare il loro ritorno dall’ aldilà. Bisogna innanzitutto precisare che la ricetta delle “Fave dei Morti” non ha niente a che vedere con le fave: in tempi remotissimi, questo legume era considerato un tramite tra l’Ade, il regno dei morti, e il mondo tangibile.  La fava veniva associata all’ oltretomba in tutta l’area del Mediterraneo. Gli antichi Romani, ad esempio, erano soliti omaggiare con delle fave il dio dei Morti e le consideravano un emblema delle anime dei defunti. Secondo alcuni studiosi, la fava assunse questa valenza simbolica in virtù del suo fiore: i petali candidi esibiscono una macchia nera che fu paragonata alla T di “Thanatos”, dal greco θάνατος ovvero “Morte”; lo stelo, inoltre, è lineare e ha radici che si sviluppano in profondità nel terreno. Entrambi i dettagli vennero interpretati come l’indizio di un collegamento tra la fava e l’aldilà, poichè si pensava che l’Ade fosse collocato nelle viscere del suolo.

 

 

Per certi popoli, l’anima dei defunti si celava proprio all’ interno della fava, e calpestarne qualcuna in un campo rappresentava un autentico sacrilegio; mangiare fave, al contrario, significava stabilire una connessione con una persona passata a miglior vita. Erano molti i rituali che rinsaldavano il nesso tra le fave e il regno dei Morti. Si usava, ad esempio, offrirle in dono a un defunto depositandole sulla sua tomba. Queste pratiche, non di rado, erano impregnate di superstizione. Per far sì che i trapassati riposassero in pace, si cospargevano di fave i loro sepolcri. Lanciare fave dietro le proprie spalle recitando litanie propiziatorie aveva, invece, una funzione redentrice. Durante i banchetti funebri, le fave costituivano la pietanza principale: quelle cotte erano riservate ai benestanti, mentre i poveri dovevano accontentarsi delle fave crude. Con l’avvento del Cristianesimo, il legame che associava la fava all’Ade non venne mai meno. Tra il 900 e l’anno 1000, l’abate benedettino Odilone di Cluny promulgò una riforma atta a far coincidere la Commemorazione dei Defunti con il lasso di tempo compreso tra i vespri del 1 Novembre e l’eucarestia del giorno seguente. Per permettere ai monaci di pregare tutta la notte, l’abate lasciava loro un gran numero di fave con cui sfamarsi. In occasione delle solennità dei Morti, inoltre, i poveri potevano usufruire di ciotole di fave poste ad ogni angolo di strada. Con Odilone di Cluny questo legume divenne cibo di precetto, ma diversi secoli dopo fu sostituito dai golosi dolcetti battezzati “Fave dei Morti”. I biscotti a base di mandorle, con la loro forma tondeggiante, simboleggiavano alla perfezione il viaggio di sola andata che l’anima compie verso il sonno eterno. In Umbria, non a caso, le Fave dei Morti venivano vendute nelle bancarelle che il 2 Novembre si posizionavano proprio accanto ai cimiteri.

 

 

La preparazione delle Fave dei Morti è piuttosto semplice: gli ingredienti principali sono le mandorle (pelate) e lo zucchero bianco, a cui si aggiungono la farina, il burro, la scorza di limone, i tuorli d’uovo e la cannella in polvere. Per l’impasto esistono diverse versioni; una di queste prevede che le mandorle e lo zucchero vengano pestati a parte, insieme, per poi essere uniti agli altri ingredienti. Un’altra ricetta suggerisce di mescolare la farina, le mandorle tritate, lo zucchero e il burro tagliato a pezzetti aggiungendo subito dopo la scorza di limone grattugiata, la cannella e le uova sbattute. A questo punto si ottiene un impasto morbido che va suddiviso in palline da cuocere in forno, a 180 gradi, per un quarto d’ora. Se le versioni delle Fave dei Morti sono molteplici, comunque, il risultato è unico: una delizia garantita.

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Novembre

 

L’anno è prossimo alla fine. Ottobre è il suo cielo al tramonto, novembre il tardo crepuscolo.
(Henry David Thoreau)

 

Novembre è arrivato all’ improvviso, come una sferzata. Le temperature sono scese a picco, il cielo è diventato scuro, le gradazioni del grigio e del nero hanno sostituito i toni rosso-arancio del foliage ottobrino. Quando la notte di Halloween si stempera nell’alba, questione di pochi giorni e lo scenario cambia completamente. Gli alberi perdono a poco a poco tutte le loro foglie, i rami delineano arabeschi color pece sul plumbeo fondale del cielo. Il freddo avanza, il sole splende sempre più di rado, calano le prime nebbie. Il 2 Novembre, data dedicata alla solennità della Commemorazione dei Defunti, sembra permeare l’intero mese di quiete e di velata malinconia. Ma a ravvivare l’atmosfera arriva l’ “estate di San Martino” (per gli anglossassoni “Indian Summer”), che ci restituisce i paesaggi assolati e le temperature miti nelle giornate che precedono la festa del Santo: si degusta il vino novello, si arrostiscono castagne, si gode appieno della natura prima che si assopisca definitivamente. Questa pausa (con la speranza che non venga annullata dai cambiamenti climatici) è una sorta di residuo d’estate lungo il percorso che conduce all’ inverno. La convivialità poi tornerà a rivivere davanti a un caminetto acceso, nel tintinno dei calici di vino, nei profumi e nei sapori della frutta e della verdura novembrine (un esempio su tutti? Le arance e i mandarini, perfetti per questo periodo perchè ricchi di vitamina C). L’undicesimo mese dell’anno, che conta solamente 30 giorni, ha un nome derivante dal latino “November”, da “nove”, poichè il Calendario Romano iniziava a Marzo. Tra le ricorrenze principali annovera le solennità di Ognissanti (il 1 Novembre), la Commemorazione dei Defunti (il 2) e la Festa della Madonna della Medaglia Miracolosa (il 27). Per quanto riguarda le festività internazionali, le più note sono probabilmente il Thanksgiving Day, che negli Stati Uniti si celebra il quarto giovedì di Novembre, e il Black Friday, il venerdì che segue quella data. I segni zodiacali compresi nel mese di Novembre sono lo Scorpione e il Sagittario, il colore che lo contraddistingue è il viola, le pietre portafortuna il topazio e il citrino: la prima si declina in una vastissima gamma di cromie, la seconda esplora sfumature che spaziano dal giallo chiaro al ruggine.

 

 

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Halloween e le sue tradizioni: dalle torte dell’anima al “Trick or Treat”

 

Il conto alla rovescia per Halloween è già iniziato: tutti ne parlano, gli eventi si moltiplicano, negozi e supermercati strabordano di zucche intagliate o da intagliare. Ma le tradizioni associate all’antico Capodanno Celtico non si limitano alla famosissima Jack-o’-lantern. Sapevate, ad esempio, dell’esistenza della soul cake? Questa “torta dell’ anima”, tondeggiante e ricca di spezie, ha le sembianze di un grande biscotto. Una croce la suddivide in quattro parti: può essere incisa sul dolce con il coltello oppure creata con una manciata di uvette, e in entrambi i casi simbolizza la sua valenza mistica. Le soul cakes sono nate nel Medioevo in Gran Bretagna e in Irlanda. Inizialmente le si preparava per i defunti, giacchè si credeva che sarebbero tornati a far visita ai vivi alla vigilia di Ognissanti (quindi ad Halloween o, come lo chiamavano gli antichi Celti, Samhain). Poi, però, prese piede una nuova consuetudine. Le soul cakes vennero destinate ai soulers, i questuanti che a Samhain bussavano di porta in porta cantando e dichiarando che, in cambio di un “dolce dei morti”, avrebbero recitato preghiere per i defunti. I soulers, in genere bambini o persone indigenti, venivano ricompensati con le torte dell’anima: si pensava che ogni torta mangiata avrebbe liberato un’anima dal Purgatorio.

 

 

L’a-souling era una tradizione molto simile al wassailing e ai Christmas Carols, due cardini del folclore britannico. Queste usanze si basavano sui canti natalizi porta a porta: la prima contemplava che i cantori portassero con sè una coppa beneaugurale di wassail (sidro di mele con spezie); la seconda, sorta in età vittoriana, vedeva protagonisti soprattutto i benestanti impegnati nel sociale, che grazie ai loro canti raccoglievano denaro per i poveri. I soulers, invece, in cambio delle torte dell’ anima recitavano preghiere. Ma come si preparavano, le soul cakes? Le loro varianti erano innumerevoli, accomunate però da un abbondante ripieno di spezie: non mancavano la noce moscata, lo zenzero, la cannella, il pimento, lo zafferano, mentre l’uvetta veniva utilizzata per le guarnizioni. La croce che le contraddistingueva era fondamentale, stava ad indicare che i dolci erano opere di bene. Le torte dell’ anima venivano impastate il giorno di Halloween e il 2 Novembre, solennità della commemorazione dei defunti. Il souling, invece, si praticava sia in occasione di queste date che nel periodo natalizio. E’ molto probabile che dall’usanza derivi il contemporaneo “Trick or Treat”, “dolcetto o scherzetto”, la frase pronunciata dai bambini ad Halloween nel corso della loro questa di caramelle. Verso la fine del XIX secolo, la tradizione del souling e delle torte dell’anima andò scemando. Alle porte delle case, ormai, bussavano perlopiù fanciulli ai quali si regalavano delle mele o qualche scellino.

 

 

I canti dei soulers, le cosiddette souling songs, per la loro particolarità e bellezza furono accuratamente trascritti nel corso dei secoli, mantenendo viva una tradizione di spicco del folklore inglese. E le soul cakes? Ho una buona notizia per voi: continuano ad essere preparate. Non sono destinate a una questua, ma con la loro valenza simbolica rendono Halloween ancora più speciale.

 

 

Foto: Yaroslav Shuraev via Pexels

Foto delle Soul Cakes: Samantha from Haarlem, Netherlands, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons