Virginia Frances Sterrett: il talento di un’illustratrice da mille e una notte

Da “Arabian Nights” (1928)

Non conoscevo ancora la sua arte, ma proprio ieri, mentre cercavo un’immagine da abbinare all’estratto da “Le Mille e una Notte”, mi sono imbattuta in una delle sue illustrazioni: è stato amore a prima vista. Virginia Frances Sterrett, nata a Chicago nel 1900, si è imposta come una delle più grandi illustratrici del suo tempo. Eppure ha avuto una vita breve, è morta a soli 31 anni a causa della tubercolosi, e il destino l’ha messa alla prova duramente sin dall’infanzia. Dopo aver perso il padre, si trasferì in Missouri insieme alla famiglia. Ma non si trattò di un trasferimento di lunga durata: nel 1915 era di nuovo a Chicago, dove frequentò il liceo e potè iscriversi subito dopo alla School of the Art Institute grazie a una borsa di studio. Frequentava la Scuola da circa un anno quando sua madre si ammalò gravemente e fu costretta ad abbandonare gli studi. Cercò lavoro per sostentare la famiglia e lo trovò in un’agenzia pubblicitaria, ma ottenne anche un importante incarico: la Penn Publishing Company le commissionò una serie di illustrazioni per il volume “Old French Fairy Tales”, la raccolta di fiabe della Contessa di Ségur. Era il 1920, e Virginia Frances Sterrett si affermò immediatamente come uno dei talenti più abbaglianti dell’arte dell’illustrazione. La tubercolosi, all’epoca, le era stata già diagnosticata. L’anno successivo, la stessa casa editrice le chiese di illustrare “Tanglewood Tales”, un libro in cui l’autore statunitense Nathaniel Hawthorne rielaborava noti miti greci ad uso e consumo dei bambini. Nel 1923 fu la volta di “Arabian Nights” (“Le Mille e una Notte”), l’affascinante antologia di racconti risalenti all’età dell’oro islamica: questo lavoro, che Virginia realizzò mentre la tisi le stava minando la salute completamente, la rese celebre. Le illustrazioni che creò per il volume stupirono il pubblico e gli addetti ai lavori con il loro immenso fascino. I paesaggi, i luoghi e i personaggi sono impregnati di magia, di uno straordinario esotismo. Virginia Frances Sterrett non aveva mai avuto l’opportunità di visitare quelle terre lontane; paesi quali l’ Egitto, la Mesopotamia, la Persia, l’India, la Cina, rivivono nella sua fantasia come evocati da un sogno. “Arabian Nights” fu pubblicato nel 1928 e le tavole a colori dell’ illustratrice di Chicago vennero giudicate un vero e proprio cavolavoro. Tra il 1929 e il 1930, approfittando di un lieve miglioramento delle sue condizioni di salute, Virginia Frances Sterrett si trasferì in California, dove partecipò a svariati concorsi artistici e iniziò ad illustrare la raccolta “Myths and Legends”, un libro che non vide mai la luce: l’8 Giugno del 1931 Virginia morì, stroncata dalla tubercolosi.

 

Illustrazioni tratte da “Old French Fairy Tales” (1920)

 

Illustrazioni tratte da “Tanglewood Tales” (1921)

 

Illustrazioni tratte da “Arabian Nights” (1928)

 

Tutte le immagini by Virginia Frances Sterrett, Public Domain, via Wikimedia Commons

 

I bignè di San Giuseppe, il dolce tipico delle Marche per la Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, a San Giuseppe, ogni regione d’Italia ha un proprio dolce tradizionale da proporre. Nella mia, le Marche, si usa preparare i bignè di San Giuseppe, comunemente detti “migné”. Di che si tratta? Innanzitutto, di una golosità unica: sono bignè farciti di deliziosa crema pasticcera, cosparsi di zucchero a velo oppure alchermes. Li ritroviamo anche in altre regioni dell’ Italia centrale, ad esempio il Lazio, dove generalmente vengono fritti e riempiti di crema chantilly; una variante della farcitura (ma non in quella zona) può essere costituita dalla ricotta. I bignè di San Giuseppe sono soprattutto noti come dolce per la Festa del Papà di Roma. Nella capitale, in effetti, il 19 Marzo era una ricorrenza molto sentita, soprattutto intorno al 1500: la Confraternita dei Falegnami soleva organizzare svariate celebrazioni in onore del padre putativo di Gesù, concentrandole nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano. Proprio in questa chiesa, costruita sopra il Carcere Mamertino nel 1546, la Confraternita era solita riunirsi durante l’anno.

 

 

Ma che c’entra San Giuseppe con i bignè? Tutto, a quanto pare, nacque con la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. In quel periodo, Giuseppe avrebbe lavorato come friggitore itinerante per provvedere ai bisogni della moglie e del figlio. Non è un caso che il 19 Marzo, a Roma, si festeggiasse in un travolgente connubio di sacro e profano, tra miriadi di bancarelle di dolci fritti e funzioni liturgiche che celebravano la solennità dedicata al falegname di Nazareth. Tornando nelle Marche e al dolce tipico della mia regione, va detto che siamo soliti cuocere in forno gli squisiti “mignè”.

 

 

Per prepararli, è necessario procurarsi un bicchiere pieno d’acqua, 100 g di strutto,  quattro uova, una quantità di farina corrispondente a 300 g, e poi dello zucchero, l’alchermes, un po’ di sale e dell’ ottima crema pasticcera.  L’acqua va portata a ebollizione in una pentola insieme allo strutto, dopodichè l’impasto viene mescolato insieme alla farina per dieci minuti circa. Dopo averlo lasciato raffreddare si aggiungono le uova, che erano state sbattute precedentemente. A questo punto è possibile dar forma ai bignè, modellando tante piccole sfere che verranno riposte in una teglia imburrata. I dolcetti dovranno cuocere in forno per mezz’ora a 180°; appena sfornati, si lasceranno raffreddare e la crema pasticcera potrà essere inserita in dosi massicce attraverso un’apertura praticata nella parte superiore dei dolcetti. Per concludere, l’apertura andrà richiusa e si potrà procedere a cospargere i bignè di zucchero a velo (o di alchermes).

 

 

La strega: storia di una figura arcaica e della sua evoluzione

 

“Sì, faccio parte di una strana famiglia. Dormiamo di giorno e voliamo di notte, come aquiloni neri portati dal vento.”
(Ray Bradbury, da “La strega di aprile”)

 

“Strega”, dal latino “striga” e dal greco “stryx”, ovvero uccello notturno. Nel corso dei secoli, il termine assunse l’accezione odierna: la strega era colei che utilizzava la magia e ricorreva ai propri poteri soprannaturali per danneggiare gli esseri animati, inanimati o un’ intera comunità. Si riteneva che fosse in stretti rapporti con il demonio,  e che solesse venerarlo durante raduni detti “sabba”. La figura della strega, ricorrente nel folclore popolare occidentale, ha origini secolari. Tracce che testimoniano la sua esistenza risalgono addirittura al periodo antecedente al Cristianesimo: nell’ antico Egitto, in Assiria e in Babilonia, a quell’ epoca, sono presenti pratiche e riti magici sviscerati in libri come il Codice di Hammurabi. Nella mitologia greca e in quella romana proliferano le incantatrici, che amano succhiare il sangue degli infanti e portare gli uomini alla perdizione; vengono raffigurate per metà donne e per metà animali, basti pensare alle lamiae greche originate dal mito della dea-uccello (probabilmente Lilith, divinità della Mesopotamia che nell’ ebraismo assume le sembianze di una civetta). La Bibbia parla della strega di Endor, che oggi definiremmo una medium, la Grecia antica “colloca” le sue streghe nella regione della Tessaglia. In Italia, nelle isole Eolie, la leggenda vuole che esistano donne capaci di volare nottetempo. Nel Medioevo, un periodo in cui la cultura popolare è intrisa di elementi magici e di superstizione, la strega entra a far parte dei fabliaux (racconti in versi nati in Francia), delle novelle e persino delle prediche dei sacerdoti. Tra il 1000 e il 1100, con lo sviluppo della demonologia, le “strigae” vengono accostate per la prima volta alla figura del demonio. La tipologia della “lamia”(“strega” nel latino medievale) viene ben definita, e nel 1233 Papa Gregorio IX descrive la stregoneria nella sua bolla Vox in Rama. Non molti anni dopo, precisamente nel 1250, l’ inquisitore domenicano Stefano di Borbone racconta in modo dettagliato la pratica del sabba. E’ il 1275 quando a Tolosa viene appiccato il primo rogo; sono passati diciassette anni dal primo processo per stregoneria.

 

 

Nell’ epoca compresa tra il Tardo Medioevo e il primo Rinascimento, quando la Chiesa Cattolica si scaglia contro gli eretici, inizia un’ autentica campagna persecutoria nei confronti delle streghe. Sono accusate di essere delle eretiche, di adorare il demonio e di nuocere gravemente alla società. La strega costituisce un pericolo per la comunità e va eliminata con una violenza esemplare. Dal 1450 al 1750 si diffonde il fenomeno della “caccia alle streghe”: le presunte streghe vengono catturate, torturate allo scopo di estorcere loro una confessione, mandate sotto processo e condannate al rogo. La situazione peggiora con l’uscita del “Malleus Maleficarum” nel 1486. Questo trattato, redatto dal domenicano d’Alsazia Heinrich Kramer e dal teologo svizzero Jacob Sprenger, è una sorta di opus magnum della stregoneria. La strega, i suoi strumenti e i suoi malefici vengono descritti con dovizia di particolari, passando poi a una rassegna sui più efficaci metodi di cattura e ad argomenti come il processo e la condanna. L’ oscurantismo dilaga, l’ ossessione per le streghe cresce in maniera esponenziale. In un secolo, dal 1450 fino al 1550, più di centomila donne trovano la morte sul rogo. La tipica descrizione di una strega la vede far parte di una setta, a capo della quale c’è la cosidetta “strea mastra”: costei trasmette il suo sapere alle adepte, che prima di aderire alla congrega si sottopongono a un rituale di iniziazione. Non è raro che sia Satana in persona ad iniziarle ufficialmente, di solito al noce di Benevento: lì, le streghe si riuniscono per sei mesi tre volte alla settimana. Attorno all’ albero di noce ha luogo il sabba, un susseguirsi di riti orgiastici, balli sfrenati, pratiche magiche e blasfeme organizzato alla presenza del diavolo. Per raggiungere Benevento, non c’è problema: ogni strega può volare grazie a uno speciale unguento.

 

 

Nell’ ‘800, l’archetipo della strega malefica inizia a vacillare. La “striga”, in diverse opere letterarie, si dà semplicemente a pratiche di matrice pagana: riti remotissimi (e diffusisi prevalentemente nelle campagne) finalizzati alla guarigione tramite le erbe, all’ incremento della fertilità, al contatto con gli spiriti dei defunti. Tutti intenti benefici, insomma, o perlomeno associati a buone intenzioni. Nei primi anni del XX secolo, l’ antropologa britannica Margaret Murray porta avanti una tesi che identifica la stregoneria con un’antica tradizione misterica ed equipara la strega alla figura dello sciamano. Le vecchie convinzioni vengono completamente scardinate, la natura assume un ruolo di spicco nei rituali, nasce il Neopaganesimo e, negli anni ’50 del ‘900, la Wicca (detta anche “antica religione”) fa la sua comparsa. La strega non ha nulla che fare con il diavolo, non viene più rappresentata come una megera: crede nel divino immanente, inneggia ai cicli naturali, non fa distinzione tra magia e religione. La notte di Halloween, tuttavia, è l’iconografia convenzionale della strega a trionfare; quella di una donna “brutta e cattiva”, che cavalca la scopa e viene accompagnata dal tradizionale “famiglio”, l’animale diabolico che le fa da consigliere (può essere il classico gatto nero, ma anche un rospo, un gufo o una civetta). Grazie al cielo, come tutti ben sappiamo, si tratta di un’ immagine rivisitata con estro e con una buona dose di ironia.

 

 

 

La colazione di oggi: l’uovo, tra benefici e simbolismi primordiali

 

A pochi giorni da Pasqua, non si può prescindere dal mangiare uova: che siano di cioccolato, bollite, convertite in glassa o presenti nell’ impasto di deliziosi dolci tipici, il loro appeal rimane invariato. Ma sapevate che proprio all’ uovo sono associati innumerevoli, e soprattutto antichissimi, significati simbolici? Da sempre emblema di rinascita, l’uovo era un auspicio di fecondità. Rappresentava la potenza generatrice ed incarnava l’ archetipo della Creazione. Non sono pochi i popoli che, molti millenni orsono, credevano che avesse dato origine all’ Universo: il motto “Omne Vivum ex Ovo” (“ogni essere vivente proviene da un uovo”) ribadisce e rinforza questa teoria. La forma dell’uovo non contiene spigoli, perciò rimandava alla perfezione; in più, il tuorlo (giallo come il sole, dunque vessillo di energia e di vigore) veniva collegato al “maschile”, mentre l’ albume (bianco come la luna e dalla consistenza che richiama il liquido amniotico) si associava al “femminile”. L’ unione tra maschile e femminile era inevitabilmente connessa al concetto di procreazione. Nacque così il mito dell’ Uovo Cosmico, generatore di vita per un gran numero di civilità remotissime. A Creta e nella Caldea, su piedistalli appositi posti nelle tombe, si usava posare uova di struzzo come augurio di rinascita. Per il Taoismo l’ uovo è a tutt’oggi il Grande Uno, l’ embrione primordiale, e un significato simile gli conferivano anche le Bahyrivha Upanisad, dei testi indiani a carattere mistico-filosofico dove veniva definito “Embrione d’Oro”. Il Buddhismo lo identifica con l’ Anno, emblema del Tempo Cosmico, mentre nella mitologia giapponese cielo e terra (Izanagi e Izanami) erano uniti in un grande uovo al cui centro risiedeva un germe che originava la vita. Risale invece all’ antica tradizione alchemica il paragone con il mito della Fenice che, ciclicamente, risorgeva dall’ uovo sorto dalle sue ceneri. Gli alchimisti vedevano nella struttura dell’ uovo una rappresentazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), e proprio la schiusa di questo embrione corrispondeva alla nuova dimensione – spirituale ed iniziatica – dell’uomo.

 

 

Anche il Cristianesimo affidò all’ uovo il significato simbolico di “principio di vita”, ricollegandolo alla festività della Resurrezione. L’ uovo, di conseguenza, a Pasqua assume un ruolo centrale. Non è un caso che in alcune località italiane viga l’usanza di benedire le uova durante la messa,  prima di consumarle tutti insieme sul sagrato. Preparato in svariati modi o nella classica versione in cioccolato, l’uovo rientra tra le tradizioni più celebri della domenica di Pasqua. La consuetudine di scambiarsi e regalarsi uova ha radici molto lontane nel tempo; la ritroviamo tra i popoli della Persia, dell’ Egitto e della Grecia antica, dove venivano donate per festeggiare la rinascita primaverile. Con il Cristianesimo, la simbologia pagana che lo associava al risveglio della natura fu soppiantata e l’uovo passò ad emblematizzare la resurrezione di Cristo, la sua transizione dalla morte alla vita. Ma quali sono le  proprietà dell’ uovo dal punto di vista nutrizionale? Potremmo dire che è un alimento pressochè “completo”. Ricco di proteine e di elementi nutritivi, contiene un’ alta quantità di vitamine e minerali: alla vitamina A, E, B6, B12 e D, un toccasana per le ossa, si uniscono il ferro, il potassio, il calcio e il fosforo. Le proteine dell’ uovo immagazzinano l’ intera gamma degli amminoacidi essenziali per l’uomo; sono racchiuse nell’ albume, mentre le vitamine vengono custodite nel tuorlo. Qualunque sia l’uovo che deciderete di gustare a Pasqua, comunque, penso che sia importante tener sempre presente l’ affascinante, suggestiva storia connessa alla sua simbologia primordiale.