Il Calendario dell’Avvento, un concentrato quotidiano di magia natalizia

 

24 Dicembre, vigilia di Natale: l’ultima finestra, l’ultima casella da aprire, per tutti coloro che hanno acquistato (o ricevuto in regalo) un Calendario dell’Avvento. Ho aspettato fino all’ultimo, prima di parlarvi di questo celebre simbolo del periodo che inizia la quartultima domenica antecedente al Natale e termina la notte di Vigilia. Il Calendario dell’Avvento, scandendo giorno dopo giorno l’attesa per la nascita di Gesù bambino, ci accompagna in un percorso immensamente intriso di magia natalizia. Ma come e quando è sorta questa affascinante tradizione? In genere la si riconduce ai luterani che popolavano la Germania tra l’Ottocento e il Novecento: furono loro i primi a farne uso. In seguito, il Calendario dell’Avvento si diffuse anche presso la popolazione di fede cattolica sia europea che statunitense.

 

 

Il primo Calendario dell’Avvento così come lo intendiamo oggi, fu un’intuizione dell’editore tedesco Gerhard Lang. Era il 1908; fino ad allora, in Germania vigeva la tradizione dei piccoli pacchetti natalizi destinati ai bimbi: venivano scartati l’uno dopo l’altro dal 1 al 25 Dicembre in attesa della Natività. Lang rielaborò questo spunto dandogli una nuova connotazione. Creò un Calendario dell’Avvento di cartone, dalla forma rettangolare, in cui a ogni giorno corrispondeva un’illustrazione diversa. L’anno successivo, perfezionò ulteriormente la sua creazione. Ritagliò tante finestrelle coincidenti con ciascun disegno: celavano angeli, cherubini, il Bambinello, tutti riprodotti in materiale cartaceo, che furono in seguito sostituiti da cioccolatini  e dolcetti natalizi. Lo sfondo raffigurato sul Calendario mostrava dei tipici soggetti dell’Avvento, ma in chiave infantile e deliziosa. Era tutto un tripudio di stelle, angioletti, scene tratte dalla vita di Gesù bambino, Babbi Natale, e poi ancora giocattoli, paesaggi innevati e temi del folklore natalizio. In Germania, intorno al 1920, i Calendari dell’Avvento in cartone cominciarono ad essere richiestissimi. Venivano illustrati con la caratteristica iconografia del Natale e riempiti di leccornie tradizionali del periodo. Fu proprio a quell’epoca che l’usanza del Calendario dell’Avvento si propagò anche al di fuori dei confini tedeschi, dapprima approdando nel Nord Europa e poi in America.

 

 

Con il passar del tempo, il Calendario dell’Avvento subì un’evoluzione inarrestabile. I regimi totalitari lo utilizzarono a fini propagandistici, dopodiché presero piede calendari dalle tipologie più disparate: sacchetti di stoffa numerati, casette di legno, pacchetti realizzati con carta da regalo…Persino gli edifici cittadini, in anni recenti, si sono tramutati in enormi Calendari dell’Avvento: ad ogni finestra corrisponde un giorno. In Europa e in America non è difficile imbattersi in questi calendari viventi; a “travestirsi” sono musei, negozi, scuole, municipi e via dicendo, senza distinzioni di sorta. Lo status di must natalizio per bambini è stato ormai completamente superato. I brand più prestigiosi hanno puntato sul Calendario dell’Avvento per coccolare i consumatori, proponendone ogni anno uno più bello dell’altro. Le sorprese, va da sé, si sono evolute insieme all’oggetto: nelle caselle è possibile trovare prodotti per il make up, chicche di design, candele profumate, gioielli, articoli di cancelleria, attraverso i quali è possibile regalarsi qualcosa quotidianamente. E il conto alla rovescia per il Natale si arricchisce di un ennesimo tocco di incanto…

 

Foto via Pixabay e Unsplash

 

I dolci dell’Avvento: viaggio in Nord Europa

 

Quest’anno, durante l’Avvento, viaggiamo in Europa anche per quanto riguarda le delizie dolciarie. Ma quali sono i più famosi dolci dell’Avvento, nei paesi europei? Per rimanere in linea con gli ultimi articoli apparsi su VALIUM, oggi andremo alla ricerca delle specialità natalizie del Nord Europa. Noteremo che hanno in comune molti ingredienti, ad esempio le spezie e la frutta secca, e che sono rappresentate da prodotti da forno sotto molteplici forme: dalla torta ai biscotti, dalla brioche al pan dolce. Con un’eccezione che potrete scoprire leggendo l’articolo qui di seguito…

 

Germania: i Lebkuchen

Diffusi anche in Austria, Boemia, Polonia, nel Trentino Alto-Adige e nella Svizzera tedesca, sono biscotti a base di spezie non di rado ricoperti di glassa o cioccolato.

 

Danimarca: il risalamande

Servito come dessert, questo dolce danese è un budino che si prepara combinando il riso al latte con ingredienti quali la vaniglia, lo zucchero, la panna e le mandorle tritate. Viene gustato freddo dopo essere stato arricchito di una deliziosa salsa alle ciliegie.

 

Estonia: il Kringel

Si tratta di una brioche intrecciata a base di cannella guarnita con crema al cioccolato, frutta secca (soprattutto noci) e, a volte, mele: ne esistono varie versioni, una più squisita dell’altra.

 

Finlandia: la Joulutorttu

Conosciuti anche in Svezia, sono dolcetti natalizi dalla tradizionale forma di stella. Si preparano con la pasta sfoglia e una marmellata di prugne da leccarsi i baffi.

 

Lussemburgo: il Boxemännercher

Simile ai noti e amatissimi omini al pan di zenzero, il Boxemännercher è un dolce lussemburghese tipico della ricorrenza di San Nicola. Non è un caso, infatti, che sia molto diffuso in tutti i paesi in cui il Santo, la notte tra il 5 e il 6 Dicembre, si reca di casa in casa per portare regali ai bambini. L’omino plasmato su questa golosa brioche rappresenta proprio San Nicola, e solitamente viene guarnito con zucchero al velo, pasta di zucchero o uvette.

 

Paesi Bassi: il Kerststol

Nei Paesi Bassi il Natale si festeggia con un dolce che somiglia parecchio allo Stollen, il soffice pane tedesco ricco di spezie e di canditi. L’impasto è composto, tra gli altri ingredienti, di noce moscata, cardamomo, uva passa, canditi, brandy, mandorle, vaniglia e un tocco di pasta di mandorle che lo rende ancora più invitante.

 

Belgio: il Kerststronk

E’ un tronchetto di Natale preparato con pasta biscotto al cioccolato, farcito di crema e rivestito di crema al burro; in Francia prende il nome di Bûche de Noël. Si ispira alla tradizione millenaria del ceppo di Natale – o ceppo di Yule – di cui VALIUM ha parlato qualche tempo fa (rileggi qui l’articolo).

 

Austria: i Vanillekipferl

Questi squisiti biscotti alla vaniglia hanno la forma di un ferro di cavallo e sono abbondantemente ricoperti di zucchero a velo. Durante l’Avvento, vengono perlopiù degustati in occasioni come i brindisi in compagnia. Piacciono molto anche ai tedeschi e agli ungheresi…non è difficile capire il perchè.

Foto del risalamande di Pille from Tallinn, Estonia, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

Speciale “Il Luogo”: 5 città fiabesche da visitare a Natale

 

“A Natale tutte le strade conducono a casa.”

(Marjorie Holmes)

Eh, già, a Natale tutte le strade conducono a casa; il calore familiare è un elemento imprescindibile della festa più amata dell’anno. Eppure, non è raro che si desideri conoscere, esplorare altri modi di vivere la Natività, immergersi in atmosfere natalizie mai assaporate prima d’ora. Quale idea migliore, dunque, di un viaggio nei luoghi dove le festività assumono un aspetto fiabesco e sommamente magico? In diverse città europee, Natale è una ricorrenza incantata: palazzi che sembrano usciti da un racconto dei fratelli Grimm, mercatini affollatissimi, fiocchi di neve vorticosi e viuzze impregnate di storia si fondono con un caleidoscopio di luci e di colori. Vi propongo cinque capitali del Vecchio Continente dove potrete godervi appieno lo spirito del Natale: Amburgo, Praga, Salisburgo, Stoccolma e Strasburgo (in ordine rigorosamente alfabetico). Avete già fatto le valigie? Oggi le visiteremo insieme.

 

Amburgo

 

In Germania esistono delle vere e proprie “città del Natale”: Amburgo è una di queste. Basti pensare alla tradizione dei mercatini, che ha radici antichissime; il mercatino natalizio dello Striezelmarkt, a Dresda, è stato il primo al mondo ad essere definito tale. Nella cosiddetta “città sull’acqua”, il fiume Elba costituisce uno scenario di primaria importanza. Gli alberi di Natale galleggianti sono la norma, scintillanti luminarie lampeggiano sui moli  e sulle banchine del porto, l’Elbphilarmonie (Filarmonica dell’Elba), simile a una gigantesca onda in vetro, sprigiona bagliori cristallini. Anche il Rickmer Rickmers, uno splendido veliero del 1896 adibito a museo, si veste a festa, creando un suggestivo gioco di luci nel quartiere St.Pauli. In questo rione potete visitare uno degli incantevoli mercatini natalizi di Amburgo, ricco di eccellenze alimentari. La città, di mercatini, ne ospita più d’una trentina: è d’obbligo raggiungere quello di Piazza del Municipio, dai connotati di un’antica fiaba, per scoprire le meraviglie dell’artigianato locale e le prelibatezze gastronomiche stagionali. L’albero di Natale sul lago di Alster, che riflette le sue luci abbaglianti sullo specchio d’acqua, è un altro imperdibile must-see insieme al quartiere di Neuer Wall, incorniciato dai canali della zona nord di Amburgo; qui è possibile dedicarsi allo shopping di lusso tra miriadi di ghirlande, luminarie e addobbi.

 

 

Praga

 

Con le sue guglie gotiche e i suoi splendidi edifici, costruiti nei più disparati stili architettonici, Praga a Natale raggiunge il picco della suggestività. Anche perchè il freddo è intenso, e nevica spessissimo: il centro storico, di conseguenza, appare ancora più magico quando è ammantato di neve. Le viuzze acciottolate sono costeggiate di caffè e di lampioni a gas che generano un’atmosfera d’altri tempi. I mercatini rappresentano un punto di forza della Praga natalizia; quello della Città Vecchia, su cui incombe l’Orologio Astronomico Medievale, è il più celebre. Le bancarelle sono disseminate in tutta la piazza, dove regna un imponente albero di Natale, e propongono sia specialità dolciarie tradizionali (tra le altre, i biscotti e i cannoli alla cannella) che eccellenze artigianali locali come i cristalli di Boemia e le famosissime marionette ceche. Altri mercatini da non perdere sono il mercatino delle pulci del Castello di Praga, il mercatino di Piazza Venceslao e il mercato Havel, in puro stile medievale. Nel quartiere del Castello è tassativo visitare il Vicolo dell’Oro: fiabesco e ammantato di neve, era abitato dagli alchimisti della città; lo impreziosiscono antichi lampioni in ferro battuto e un tripudio di decorazioni in vischio sui portoni delle case.

 

 

Salisburgo

 

La Salisburgo natalizia, immancabilmente innevata, è uno splendore naturale e architettonico. La città di Wolfgang Amadeus Mozart concentra in sè tutto lo spirito del Natale. Si comincia a inizio Dicembre con la tradizionale parata dei Krampus, dove sfila un nutrito gruppo di demoni del folklore subalpino: abbiamo già conosciuto Krampus nelle vesti di aiutante di San Nicola; è lui lo spaventoso essere che accompagna il Santo e punisce i bambini cattivi. Il centro storico della città, ricco di palazzi storici, mercatini e antiche chiese, è meravigliosamente decorato e pullula di cantori. Risalta un albero di Natale dalle dimensioni enormi, imponente come il Duomo barocco del XVIII secolo; la spettacolare Residenzplatz, che alterna lo stile barocco a quello medievale, è stata incoronata Patrimonio Mondiale Unesco. La musica è il fiore all’occhiello di Salisburgo e dei suoi dintorni. E’ qui che, la notte di Natale del 1818, fu intonato per la prima volta il canto “Silent Night”: venne eseguito nella suggestiva Cappella di Obendorf, a pochi chilometri da Salisburgo. Visitandola durante la vigilia di Natale, vivrete la magia di una messa a lume di candela che si conclude con il famoso canto. Non mancate, poi, di visitare la casa dove nacque Mozart in Getreidegasse, e la fortezza di Hohensalzburg, un autentico simbolo della città.

 

 

Stoccolma

 

Gli addobbi ornano la città sin dal 13 Novembre: miriadi di luci a LED forgiano angeli, renne e piante tradizionali del Natale. Il nostro tour comincia dal Gamla Stan, la Città Vecchia, un intreccio di viuzze medievali che si aprono su piazzette mozzafiato. Qui si trovano i mercatini più caratteristici, pieni zeppi di delizie dolciarie e gastronomiche tradizionali, decorazioni natalizie e prodotti artigianali come giocattoli, maglioni e oggetti in vetro soffiato. Il glögg, versione scandinava del nostro vin brulé, non manca mai; una regola valida anche per i lussebullar o lussekatter, i tipici dolcetti allo zafferano di Santa Lucia. A Stoccolma, i mercatini natalizi abbondano: vale la pena di scoprirli tutti. Kungsträdgården è molto famoso per la sua pista di pattinaggio sul ghiaccio, mentre il mercatino di Skansen, situato sull’ isola di Djurgården, è quello di dimensioni maggiori nell’intera Svezia. Si trova, appunto, a Skansen, un museo a cielo aperto incentrato sulla storia e la cultura svedese dal 1700 ad oggi. Il mercatino vanta ben 150 bancarelle, o casette, dove è possibile acquistare tipicità gastronomiche e artigianato tradizionale assistendo a coinvolgenti performance folkloristiche.

 

 

Strasburgo

 

Il capoluogo dell’Alsazia, regione francese confinante con la Svizzera e la Germania, vanta tradizioni natalizie risalenti nientemeno che al 1500. Le celebrazioni iniziano già a fine Novembre e proseguono di evento in evento, con la magia che fa da filo conduttore. Le decorazioni, ricche e scintillanti, mozzano il fiato; per quanto riguarda i mercatini, Strasburgo vanta uno dei più antichi al mondo che è anche il più antico della Francia: nato nel XVI secolo, è stato battezzato Christkindelsmärik e si tiene in Place Broglie. Qui potete trovare una vasta gamma di articoli che spazia dall’artigianato tipico alle prelibatezze alimentari; il Christkindelsmärik è anche il mercatino ideale per la scelta dei regali natalizi. L’evento di punta della Natività strasburghese si identifica senz’altro con l’accensione dell’albero di Natale installato in Place Kléber: con i suoi trenta metri, è uno degli alberi di Natale più alti del pianeta. L’albero proviene dai boschi dell’Alsazia e viene addobbato sontuosamente. Secondo una tradizione pluriennale, i benestanti strasburghesi solevano depositare doni per i più poveri ai piedi dell’albero. Attualmente, invece, Place Kléber pullula di bancarelle associate a svariati enti di beneficenza. L’arte gotica che predomina nella piazza, tra lo splendore delle luminarie e degli addobbi, contribuisce a donare al mercatino un’atmosfera di fiaba. A Strasburgo, inoltre, è d’obbligo visitare il quartiere Patrimonio Unesco della Petite France, con il tripudio di case a graticcio e di canali della Grande Île, ma se viaggiate nei dintorni non mancate di raggiungere Colmar, una magica città medievale contraddistinta, anch’essa, dalle tipiche costruzioni a graticcio dell’Alsazia.

 

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Da San Nicola a Babbo Natale: l’evoluzione di un mito della Natività

 

Una vintage card olandese raffigurante San Nicola. In Olanda il Santo è accompagnato da Zwarte Piet, un servitore di colore

Cos’hanno in comune Babbo Natale e San Nicola, vescovo di Myra, di cui proprio oggi ricorre la solennità? Molto più di quanto possiamo pensare. Tantevvero che in molti paesi europei, come ho già scritto nell’articolo sulle tradizioni dell’Avvento (rileggilo qui), il Santo consegna regali ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 Dicembre. Ma come ha preso vita questo mito? San Nicola, nato nel 1270 a Pàtara, nell’attuale Turchia, nel Medioevo divenne popolarissimo grazie a una serie di miracoli e leggende che lo riguardavano. Si narra che permise a tre giovani donne molto povere di sposarsi, donando clandestinamente al padre il denaro per la loro dote, e che fece resuscitare tre bambini uccisi e messi in salamoia da un macellaio, improvvisatosi assassino per poter vendere la carne dei fanciulli. Proprio in virtù di tali episodi, il Santo fu sempre considerato un difensore dei più giovani e bisognosi. Nell’Europa medievale, così, si iniziò a commemorare San Nicola associandolo all’elargizione dei regali natalizi. La tradizione prosegue a tutt’oggi in paesi come la Germania, l’Austria, la Repubblica Ceca, l’Ungheria e persino l’Italia, dove è diffusissima in regioni quali il Trentino Alto-Adige, il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto e la Lombardia, ma anche nel barese (non è un caso che San Nicola sia il patrono del capoluogo della Puglia). La vigilia del 6 Dicembre, i bambini lucidano bene le loro scarpe e le mettono sul davanzale. Il Santo passerà di casa in casa quando farà buio, lasciando frutta e doni nelle calzature di tutti coloro che si sono comportati bene; dei più discoli si occuperà Krampus, il servitore di San Nicola, una figura demoniaca che esploreremo insieme agli altri miti oscuri del Natale.

 

Un bassorilievo di San Nicola ad Amsterdam, città di cui è il santo patrono

Con l’avvento del Protestantesimo, l’aspetto del Santo subì alcune modifiche: nei paesi che aderirono alla Riforma luterana si verificarono contaminazioni atte a sovrapporre alla figura di San Nicola quelle di determinati miti nordici.  Il vescovo di Myra cominciò ad essere rappresentato come un semplice benefattore dalla lunga barba e prese il nome di Santa Claus (nelle nazioni anglosassoni), Nikolaus (in Germania), Sinterklass (in Olanda e Belgio), Sinterklaos (nel Limburgo) e Samichlaus (in Svizzera). Ma il vero giro di boa avvenne nel 1823, anno in cui in America fu pubblicata una poesia dal titolo di “Una visita di San Nicola”, meglio conosciuta come “La notte prima di Natale”. Inizialmente anonimi e in seguito attribuiti a Clement Clarke Moore, i versi apparvero il 23 Dicembre su un quotidiano dello Stato di New York. Riscossero un successo incredibile, in quanto apportavano delle straordinarie innovazioni: descrivevano Santa Claus come un folletto burlone che la vigilia di Natale (non più il 6 Dicembre, quindi) si dedicava alla consegna dei regali a bordo di una slitta trainata da renne, precisamente otto, di cui venivano citati persino i nomi. Il direttore del quotidiano definì questa versione di Santa Claus/San Nicola “deliziosa”; il fatto che si calasse dai camini con il suo sacco straripante di regali, poi, era un dettaglio che accentuava la simpatia del personaggio. La poesia aveva forgiato l’aspetto odierno di Babbo Natale e sancito una nuova data di consegna dei doni, concomitante con la notte del 24 Dicembre.

 

 

Durante l’era vittoriana, in Gran Bretagna, la raffigurazione dello Spirito del Natale Presente che l’illustratore John Leech ideò per “Canto di Natale”, il racconto di Charles Dickens pubblicato nel 1843, entrò a far parte dell’iconografia natalizia: maestoso, con una corona di agrifoglio sul capo e vestito di un lungo abito verde bordato di pelliccia bianca, lo Spirito del Natale Presente combinava le caratteristiche di Santa Claus con quelle del Father Christmas del Regno Unito.

 

Lo Spirito del Natale Presente raffigurato da John Leech nella prima edizione di “Canto di Natale” di Dickens, pubblicato nel 1843 da Chapman & Hall.

L’aspetto di Babbo Natale assunse le sembianze attuali nel 1863: Thomas Nast, uno dei più grandi fumettisti americani, disegnò un Santa Claus inedito per il magazine Harper’s Weekly. Fu lui a creare il Babbo Natale paffuto, impellicciato e con una voluminosa barba bianca che tutti conosciamo e abbiamo amato nella nostra infanzia. Un’ulteriore versione si impose nel 1931, quando l’illustratore Haddon Sundblom realizzò il suo celebre Santa Claus per la pubblicità della Coca Cola. Sundblom si ispirò al San Nicola di “La notte prima di Natale” evidenziando il carattere allegro e bonario di un Babbo Natale che sfrecciava nel cielo su una slitta trainata dalle renne, proprio come il protagonista della poesia di Clement Clarke Moore. La novità era costituita dall’abito: per la prima volta, Santa Claus vestiva di rosso e bianco. Erano i colori della Coca Cola, ma rimasero per sempre le tonalità simbolo di Babbo Natale.

 

Un’immagine di Babbo Natale realizzata da Frances Brundage

Foto: bassorilievo di San Nicola ad Amsterdam di Rudolphous, CC BY-SA 3.0 NL <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/nl/deed.en> via Wikimedia Commons

 

I mercatini natalizi: la loro storia e la photostory

 

I mercatini di Natale vantano una storia millenaria: la loro tradizione affonda le radici nientemeno che nel Medioevo. Risale al 1300, infatti, la comparsa dei primi mercatini natalizi nell’Europa centrale. I paesi in cui venivano allestiti erano l’Alsazia, l’Austria e la Germania; avevano luogo il 6 Dicembre, in occasione della festa di San Nicola, e anche il loro nome era intitolato al Santo: si trattava di fiere chiamate, appunto, “mercato di San Nicola” e organizzate annualmente. A Vienna spetta l’onore di aver ospitato il mercatino più antico. Si tenne nel 1296, quando il duca d’Austria Alberto I d’Asburgo in persona consentì alla popolazione di creare un mercatino natalizio vero e proprio a cui fu dato il nome di Krippenmarkt. Anni dopo anche Monaco di Baviera, Bautzen e Francoforte, prendendo spunto da Vienna, inaugurarono i loro mercatini di Natale: Monaco nel 1310, Bautzen nel 1384 e Francoforte nel 1383. Soltanto nel 1434, tuttavia, venne prodotta una testimonianza scritta che attestava l’esistenza di un mercatino natalizio. Il mercato in questione era lo Striezelmarkt di Dresda, dove venivano vendute la carne e le cibarie necessarie per il pranzo del 25 Dicembre: a tutt’oggi è considerato il più antico al mondo.

 

Il mercatino natalizio di Dresda oggi

Nel 1517, con la Riforma luterana che aboliva il culto dei Santi, la situazione mutò radicalmente. I paesi di lingua tedesca cominciarono ad allestire i mercatini natalizi in concomitanza con la festa della Natività tralasciando San Nicola; il loro nome, di conseguenza, divenne Christkindlmarkt, mercatino di Gesù Bambino. Nel XVI secolo sorsero nuovi mercatini di importanza storica. Ricordiamo, tra gli altri, quelli di Norimberga e di Strasburgo, che videro la luce rispettivamente nel 1530 e nel 1570. Ma nel resto d’Europa, questa tradizione vigeva o meno? Sì e no. Anticamente, ad esempio, sia in Spagna che in Italia venivano realizzati mercatini natalizi in occasione della festa di Santa Lucia. In Spagna, a Barcellona, il mercatino intitolato alla Santa fece la sua comparsa nel 1786, mentre in Italia il primo mercatino di Santa Lucia nacque a Bologna in un anno imprecisato del XVIII secolo. Nel nostro paese, in particolare, l’usanza dei mercatini natalizi si diffuse massicciamente solo a cavallo tra gli anni 80 e 90 del Novecento. Non mi resta che invitarvi ad esplorare la photostory che ho abbinato all’articolo. Magari, chissà, ritorneremo sull’argomento nei prossimi giorni, e approfitteremo dell’occasione per approfondire determinati aspetti di questo affascinante fenomeno.

 

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L’Avvento in Europa: miti, credenze e tradizioni

La corona dell’Avvento

L’Avvento (dal latino “adventus”, “venuta”) è un periodo incantato che, giorno dopo giorno, ci accompagna verso la Natività. Rappresenta l’inizio dell’anno liturgico nella Chiesa d’Occidente e prende il via la quarta domenica prima di Natale: quest’anno, di conseguenza, è cominciato proprio ieri. In Europa, le tradizioni dell’Avvento sono innumerevoli. La maggior parte di esse ha radici antiche, e viene tramandata di generazione in generazione. Tra le più note ricordiamo le ghirlande, la corona dell’Avvento, i mercatini natalizi, il calendario dell’Avvento, oltre a una serie di dolci e bevande tipici (come lo sono il glögg nei paesi scandinavi e il nostro vin brulé): queste usanze, impregnate di una forte valenza simbolica, fanno da denominatore comune alla quasi totalità delle nazioni del Vecchio Continente.

 

Un mercatino natalizio a Riga, in Lettonia

La corona dell’Avvento è diffusissima. Creata nel 1833 ad Amburgo da Johann Henrick Wichern, un pastore protestante, comprendeva 24 candele, una per ogni singolo giorno dell’Avvento; le candele dedicate alle domeniche avevano dimensioni più grandi. Con il passar del tempo, il suo utilizzo si propagò soprattutto nei paesi anglosassoni e di lingua tedesca. La struttura della corona dell’Avvento è caratteristica. La base è composta da rami di sempreverde disposti in modo circolare: il cerchio, con la sua continuità, sta a simboleggiare la vita eterna di cui Cristo ci fa dono. I sempreverdi sono un emblema di speranza, mentre le candele, quattro come le domeniche di Avvento, vanno accese una alla volta l’ultimo giorno della settimana. Di solito sono bianche, per rappresentare la purezza, oppure viola (simbolo di sacrificio), rosse o rosa (simbolo di gioia). Del calendario dell’Avvento parleremo in un post specifico; in questo articolo ci soffermeremo sulle principali tradizioni dell’Avvento in alcuni paesi europei.

 

Germania

La stella di Natale, il fiore dell’Avvento tedesco

La stella di Natale è il fiore per antonomasia dell’Avvento: i tedeschi lo utilizzano abbondantemente per le decorazioni natalizie e per i loro regali. Il calendario dell’Avvento è popolarissimo sia tra i bambini che gli adulti. In questo periodo si prepara lo Stollen, un pane dolce arricchito di frutta secca e canditi, e ci si riunisce attorno alla corona dell’Avvento cantando inni natalizi. Una celebrazione molto importante è costituita dalla festa di San Nicola, che ricorre il 6 Dicembre: la notte precedente i bambini lucidano accuratamente le proprie scarpe mentre recitano una poesia. Le poseranno poi sul davanzale, insieme a un piatto di carote e biscotti, in previsione del passaggio del Santo in groppa al suo asino. Nikolaus riempirà le scarpe di regali e si rifocillerà con i biscotti, lasciando le carote all’asino. Ad accompagnarli ci sarà Krampus, una figura demoniaca e mostruosa munita di corna, campanacci che suonano mentre avanza e vestita con abiti consunti. Krampus porta sempre con sè una frusta con cui punisce i bambini che si sono comportati male.

 

Lo Stollen, un tipico dolce natalizio

Austria

Salisburgo in una notte d’Avvento

I festeggiamenti iniziano la vigilia di San Nicola, il 6 Dicembre, quando un uomo che impersona il Santo bussa di porta in porta e lascia regali ai bambini; il suo seguito è composto da un drappello di angeli e dal terrificante Krampus: secondo la mitologia cristiana, costui sarebbe stato un demone che San Nicola riuscì a sconfiggere. Da allora, Krampus fu obbligato a seguirlo nel ruolo di devoto servitore. Le domeniche vengono trascorse in casa, alternando i racconti natalizi all’accensione delle candele della corona dell’Avvento.

 

Norvegia

Lo Julebrød, letteralmente “pane di Natale”

La prima domenica di Avvento, a Oslo, lo shopping impazza e vengono accesi l’albero di Natale e le luminarie natalizie. Proliferano i mercatini, si tengono i concerti tipici del periodo. Una tradizione molto diffusa è la Julebord, che potremmo tradurre più o meno come “tavolata natalizia”: ad organizzarla sono i datori di lavoro, gli amici, gli studenti, i colleghi di ufficio, gli appartenenti a determinate associazioni e così via. Durante la Julebord, che può essere una cena o un pranzo, si assaporano i piatti natalizi in compagnia. Uno dei dolci più preparati è lo Julebrød, un pane soffice farcito con uva passa e canditi che somiglia vagamente al nostro panettone.

 

Svezia

Le candele dell’Avvento

Il 1 Dicembre si accende la candela dell’Avvento, che viene fatta ardere qualche millimetro al giorno fino alla notte di Vigilia. Le grandi celebrazioni hanno inizio con la festa di Santa Lucia, il 13 Dicembre, collegata tematicamente al Solstizio d’Inverno: è il trionfo della luce sul buio. Processioni di ragazze vestite di bianco e con una corona di candele vengono organizzate da mattina a sera; le ragazze intonano i canti tradizionali di Santa Lucia per le strade, negli istituti scolastici, nelle case e nei luoghi di culto (per saperne di più sul giorno di Santa Lucia in Svezia, clicca qui). I dolci tipici dell’Avvento sono i pepparkakor, biscotti speziati con cannella e zenzero, e le casette al pan di zenzero.

 

Regno Unito

Un Christingle

L’accensione dell’albero di Natale e delle luminarie sono importanti eventi cittadini, corredati da fastosi spettacoli e fuochi di artificio. Il calendario dell’Avvento è una tradizione molto comune, ma lo è ancor più il Christingle, un simbolo natalizio il cui nome deriva da Christkindl, in tedesco “Cristo bambino”. Per prepararlo servono un’arancia, emblema del mondo; un nastro rosso che circondi l’arancia, emblema del sangue di Gesù; una candela da infilare nell’arancia, emblema della luce che Cristo ha portato nel mondo; quattro marshmallow o frutta secca in egual numero, da infilzare in altrettanti stecchini: sono gli emblemi dei quattro punti cardinali, delle quattro stagioni e dei doni che ci offre la natura. I Christkindl vengono conservati fino alla fine delle feste e sono utilizzati a mò di veri e propri oggetti devozionali.

 

Repubblica Ceca

Il ramo di ciliegio “dei desideri”

I mercatini natalizi, soprattutto il più grande, quello allestito in Piazza della Città Vecchia, sono una delle meraviglie di Praga. La tradizione della corona dell’Avvento è molto sentita, ma accanto ad essa ne spicca un’altra, decisamente singolare: il 4 Dicembre, festa di Santa Barbara, i cechi recidono un ramo di ciliegio e lo inseriscono in un vaso pieno d’acqua che conservano nella loro dimora. Attendono poi la fioritura del ramo, che se avviene entro il 24 Dicembre farà sì che i desideri del padrone di casa si realizzino nel nuovo anno. Quella del ramo di ciliegio è una tradizione precristiana che ha origini molto lontane del tempo. Anche nella Repubblica Ceca, così come in Austria e in Germania, si festeggia San Nicola: il Santo, accompagnato da un angelo e da Krampus, vaga di casa in casa per portare doni e dolci ai bambini. Attualmente, è possibile incontrare il terzetto anche nei mercatini natalizi. Se vi capita, cercate di non lasciarvi spaventare troppo dai Krampus!

 

Polonia

L’Avvento a Varsavia

In Polonia esiste una tradizione particolarissima che risale nientemeno che al XIII secolo: la roraty, una Messa che in periodo di Avvento si celebra alle 6.30 di ogni mattina in tutte le chiese nazionali. Il nome roraty deriva da un termine latino, “rorate”, con cui esordisce il canto che dà il via alla Messa. Se però pensate che alla roraty assistano solo donne anziane, vi sbagliate di grosso. A partecipare sono soprattutto bambini e giovanissimi che si alzano di buon’ora per recarsi nelle chiese quasi buie, illuminate soltanto dal chiarore delle candele, tenendo in mano una lanterna accesa. L’atmosfera è estremamente suggestiva: lanterne e candele rischiarano l’edificio religioso, che si illumina completamente con la recita del “Gloria in excelsis Deo”. Ai bambini viene consegnato ogni giorno il tassello di un bellissimo puzzle come ricompensa per la loro assiduità.

 

Ungheria

I Mezeskalacs, biscotti al pan di zenzero ornati come pizzo pregiato

La corona dell’Avvento è l’usanza principale. Poi ci sono i mercatini di Natale, che anno dopo anno si sono moltiplicati a dismisura: nella sola Budapest, oltre al celebre Vörösmarty tér, ce n’è un numero illimitato. I bambini ungheresi ricevono regali sia a Natale che la notte di San Nicola. La sera del 5 Dicembre, dopo averle ben lustrate, lasciano le loro scarpe sul davanzale della finestra; quando San Nicola, in ungherese Mikulàs, passerà, depositerà una calza di arance e mandarini nelle scarpe dei bambini buoni. Chi non si è comportato bene, invece, riceverà un regalo da Krampus: un mucchio di ramoscelli di betulla. In Ungheria, inoltre, l’albero di Natale si prepara la notte di Vigilia e viene decorato con miriadi di golosità al cioccolato e al marzapane. Accanto al Bejgli, un dolce tipicamente natalizio, risaltano i Mezeskalacs, biscotti al pan di zenzero e miele decorati con arabeschi di glassa talmente raffinati da sembrare ornamenti in pizzo.

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Foto del Christingle di Vincent Angler from Gods waiting-room, Angleterre, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 

Il cappello della strega: le origini, la storia e la contemporaneità

 

Il cappello a punta, nero e rigorosamente a falda, rimanda da sempre a una figura ben precisa: quella della strega. Altre creature, come le fate ad esempio, indossano un cappello dalla forma conica, ma privo di falda; lo stesso vale per gli stjärngossar, i “ragazzi stella” che prendono parte alla processione svedese di Santa Lucia. Come nasce, dunque, il tipico cappello della strega? Oggi lo scopriremo insieme.

Le origini

In tempi antichissimi, tra il IX e il I secolo a.C., i ministri del culto indossavano un cappello a punta quando celebravano gli uffici divini. Questo tipo di copricapo, alto e “svettante” verso il cielo, rappresentava senza dubbio un trait-d’union tra l’uomo e le divinità. Reperti archeologici significativi in tal senso sono stati rintracciati sia in Sardegna che nell’area corrispondente all’antica Etruria: si tratta di piccole sculture in bronzo che riproducono religiosi vestiti di tutto punto e con un cappello conico in testa. Ma le preziose decorazioni che ornano i loro abiti sono tutto fuorchè trecce; le statuette rappresentano infatti degli aruspici, i sacerdoti che, nell’antica Roma, praticavano la divinazione tramite le viscere degli animali sacrificati sull’ara. Va da sé che quelle che sembrano trecce sono, in realtà, le interiora che gli aruspici utilizzavano per le preveggenze. Queste sculture, molto simili tra loro, affondano le radici in epoca nuragica ed etrusca; ad accomunarle è un dettaglio importante: il cappello a punta che sfoggiano i sacerdoti. Anche nell’antica Persia i ministri del culto indossavano un cappello a punta, nello specifico il berretto frigio, in uso a partire nientemeno che dal VI secolo a.C. Tutte le testimonianze appena descritte, ci inducono a trarre conclusioni ben precise: il copricapo conico era associato al prestigio, a un profondo senso di reverenzialità.

 

 

Il Medioevo

La situazione cambiò completamente con l’avvento del Cristianesimo. Nel Medioevo, epoca che coincide con la sua massima diffusione, la Chiesa Cattolica dovette prendere atto che, soprattutto nei villaggi e nelle aree più isolate del Sacro Romano Impero, il paganesimo rimaneva il culto a cui aderiva gran parte della popolazione. Cominciò quindi a sostituire feste, tradizioni e rituali pagani con i loro corrispettivi cristiani, ma anche ad avviare una campagna anti-pagana che snaturava e distorceva i più importanti simboli del paganesimo: le corna, ad esempio, antico emblema di forza e fecondità, vennero indissolubilmente associate al demonio. In quest’operazione di ribaltamento generale rientrò anche il cappello a punta, la cui storica autorevolezza fu soppiantata da una valenza di disonore e derisione. Prova ne è il fatto che nel 1215, durante il Concilio Lateranense, Papa Innocenzo III decretò che gli Ebrei dovessero indossare il cappello giudaico, o “pileus cornutus” (l’evoluzione del berretto frigio), per distinguersi dai cristiani. Tale imposizione, lungi dall’essere una semplice regola, cominciò ben presto ad apparire una sorta di discriminazione. Sempre nel Medioevo, tuttavia, il cappello a punta si tramutò in un accessorio di tendenza che, con il nome di hennin, tra il 1300 e il 1400 spopolò tra le dame europee. L’hennin derivava quasi certamente dal tipico copricapo delle donne mongole, che grazie a Marco Polo approdò nel Vecchio Continente. La moda dell’hennin esplose nelle Fiandre; era un cappello a cono alto circa 90 cm ornato di un velo che spesso arrivava a sfiorare il suolo. Avete presente il cappello indossato dalle fate nelle fiabe? Bene, si tratta proprio dell’hennin.

 

L’hennin di Isabella di Francia in un’opera anonima conservata nella Bibliothèque Nationale de France

In Europa veniva sfoggiato dalle donne aristocratiche, benestanti e acculturate. Ma a quei tempi, nel Regno Unito, si impose una nuova tipologia femminile: la alewife. Intorno alla metà del 1300, le vedove e tutte le donne in difficoltà economica avevano la facoltà di produrre e commercializzare birra artigianale. Le birraie gestivano le ale house, locande contraddistinte da una scopa di saggina a mò di insegna, oppure organizzavano banchetti ambulanti. Le alewife, però, non godevano di buona reputazione: a consumare birra erano più che altro gli uomini, inoltre l’alcol veniva considerato un potente afrodisiaco, una bevanda che eliminava i freni inibitori. Nell’immaginario collettivo, di conseguenza, le ale house vennero ben presto percepite come covi di stregoneria e prostituzione. E’ molto importante dire che le alewife vestivano rigorosamente di nero e indossavano un cappello (sempre nero) a punta che serviva a renderle riconoscibili: era una sorta di divisa, insomma. Ma anche il fatto che fossero vedove, ancor peggio nubili, ed economicamente autonome era mal visto: tutti elementi imperdonabili, per l’oscurantismo dell’epoca.

La caccia alle streghe

 

Era il 1484 quando Papa Innocenzo VIII, promulgando la bolla “Summis Desiderantes”, ordinò di inquisire e uccidere, dopo una serie di torture, tutte le streghe d’Europa. La caccia alle streghe raggiunse l’apice nel 1500 e perdurò fino alla metà del Settecento. Naturalmente, le alewife vennero bersagliate fin da subito. Molte di loro erano guaritrici, e utilizzavano le erbe a scopo terapeutico, ma furono accusate di servirsi dell’erboristeria per adulterare, o avvelenare, la birra che loro stesse producevano. Anche l’abbigliamento che caratterizzava le alewife venne assimilato a quello, tipico, delle streghe: gli abiti neri e il copricapo a punta entrarono a far parte dell’iconografia della perfida adoratrice del demonio, consolidandosi in particolar modo nell’età vittoriana, e forgiarono l’immagine della strega rimasta perennemente impressa nell’immaginario collettivo.

 

Francisco Goya, “Il tribunale dell’Inquisizione”, olio su tela (1812-1819 ca)

In un suo dipinto, “Il tribunale dell’Inquisizione”, Francisco Goya riprende il tema del carattere punitivo legato al cappello a punta e lo inserisce in un contesto che raffigura un processo per stregoneria: le presunte streghe, dopo la sentenza, erano tenute ad indossare un copricapo conico che fungesse da “segno di riconoscimento”. Il cappello, sul quale era scritta e disegnata la condanna, doveva renderle identificabili presso il popolo e contribuire alla loro emarginazione. In secoli più recenti, il motivo del cappello a punta come umiliazione e penitenza è riapparso sotto forma di punizione scolastica: gli alunni più svogliati esibivano il cosiddetto “cappello da asino” mentre erano in castigo dietro la lavagna.

Oggi

 

La Pop Culture contemporanea ha sdoganato la figura della strega, rendendola un’icona del nostro tempo. A questo hanno contribuito in gran parte i cartoon, i film (basti pensare a pellicole come “Ho sposato una strega” di René Clair, del 1942), i libri, le serie televisive. La strega non viene più dipinta come una creatura tenebrosa e legata al demonio; mantiene i suoi poteri magici, ma ha perso l’allure oscura. Un esempio? La strega Nocciola, all’anagrafe Nocciola Vildibranda Crapomena, che la Disney lanciò nei suoi fumetti e cartoni animati. Nocciola ha esordito nel cartoon “La notte di Halloween” del 1952; la sua unica malvagità? Prendere di mira Paperino per aiutare Qui, Quo e Qua a impossessarsi dei suoi dolcetti. Il cappello a punta rimane, ma a differenza del passato viene guardato con ironia e giocosità.

 

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Il Dirty Coffee, bevanda di tendenza alla conquista dell’Europa

 

E’la bevanda del momento, adorata dalla Generation Z ma non solo: il Dirty Coffee, dopo l’Asia, sta conquistando l’Europa ed è pronto a sbalordire il mondo intero. Nel Vecchio Continente si è inizialmente diffuso nei paesi del Nord per poi approdare in Italia, dove impazza in tutte le caffetterie. Sembra quasi incredibile che a comporlo siano due semplici ingredienti, il latte e il caffè espresso, eppure è proprio così. Ma il Dirty Coffee ha una marcia in più: si prepara versando un espresso molto caldo in un bicchiere di latte freddo, facendo attenzione a non mescolare le due sostanze. Il risultato è una bevanda squisitamente stratificata, dal gusto intenso e particolarissimo. Il nome che porta lo deve proprio a quel connubio: Dirty Coffee si riferisce allo shot di espresso bollente che, una volta versato nel latte freddo, crea un sorprendente “effetto macchia”. Il latte candido sembra sporcarsi con lo strato di caffè che lo ricopre, ma non lo compenetra; si ottiene una bevanda visivamente attraente, che prende le distanze dal caffellatte pur includendo i suoi stessi ingredienti.

 

 

Come si prepara il Dirty Coffee

Per gustare il drink di tendenza dell’Autunno, bastano un bicchiere di latte e uno shot di caffè espresso. Ma attenzione: il latte dev’essere rigorosamente vaccino, intero e avere una temperatura glaciale; solo questi requisiti permettono di conferire al Dirty Coffee la caratteristica stratificazione. L’espresso, al contrario, è necessario che sia caldo al punto giusto ed estratto alla perfezione. Per procedere alla preparazione, lo si versa nel bicchiere di latte con estrema lentezza. Il caffè dovrebbe depositarsi sulla superficie del latte senza mai amalgamarsi ad esso. Quel che si ottiene è una bevanda deliziosa, la nuova frontiera del caffellatte: la stratificazione non interferisce nel gusto, ma definisce l’estetica del Dirty Coffee. E’ il dettaglio che lo rende unico e speciale. In Giappone, la sua patria, viene arricchito di spezie, guarnito o combinato con sciroppi aromatici per sperimentare sempre nuove versioni del drink.

 

 

Dove è nato il Dirty Coffee?

Come vi ho già accennato, pare che sia nato nel Paese del Sol Levante; la sua paternità viene attribuita a Katsuyuki Tanaka, che fondò la celebre caffetteria Bear Pond Expresso di Tokyo. Secondo quanto riportato da vari siti, nel 2010 un’amica riferì a  Tanaka di aver comprato un caffellatte freddo da asporto; lungo la strada di ritorno, però, il ghiaccio si era sciolto e la bevanda si era completamente riempita d’acqua. Tanaka ebbe quindi un’idea: avrebbe preparato un caffellatte senza ghiaccio, versando l’espresso direttamente nel latte a bassissima temperatura. In tutta l’Asia, questa bevanda riscosse un enorme successo. Conquistò persino Pechino, dove i consumatori non erano ancora abituati all’espresso. In Europa cominciò a prendere piede a Varsavia prima di diffondersi a macchia d’olio.

L’importanza dei dettagli

L’aspetto estetico riveste una grande importanza, per il Dirty Coffee, e ha certamente contribuito al suo boom: l’espresso pigramente versato nel latte va a creare un forte contrasto cromatico che caratterizza e rende iconica la bevanda. Anche il bicchiere in vetro non è scelto a caso: permette di distinguere chiaramente la stratificazione, punto di forza del Dirty Coffee. Dulcis in fundo, questo prodotto può essere considerato una bevanda così come un dessert: un dualismo che senza dubbio accresce il suo fascino.

Foto, dall’alto verso il basso:

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Il Vin Santo, l'”oro liquido” della Toscana

 

L’Autunno è, senza dubbio, la stagione del vino. In nessun altro periodo dell’anno il vino si beve più volentieri: davanti al caminetto acceso, insieme agli amici o nell’intimità familiare. Ma anche da soli, la sera, per celebrare la fine di una lunga giornata di lavoro. Il vino novello, non a caso, viene immesso sul mercato dal 30 Ottobre in poi; e le ossa dei morti, i tipici biscotti del giorno della Commemorazione dei Defunti, si servono rigorosamente con il Vin Santo. Ecco, il Vin Santo appunto: oggi approfondiremo la storia, le curiosità e le caratteristiche di questo antichissimo vino toscano. Che sia stato ribattezzato “oro liquido” è tutto fuorchè casuale. Si tratta di un vino pregiato, raffinatissimo, che in tempi remoti veniva offerto agli ospiti – o alle persone – di prestigio compiendo un gesto di stima e di profonda riverenza nei loro confronti. Pare addirittura che il  procedimento per realizzarlo sia una sorta di “ricetta” segreta tramandata di padre in figlio.

 

 

Ma che cos’è, innanzitutto, il Vin Santo? Il Vin Santo è un vino passito, che viene cioè ricavato da uve lasciate appassire dopo essere state raccolte. Sul nome che gli è stato assegnato, così particolare, abbiamo notizie che sconfinano un po’ nella storia e un po’ nella leggenda. Un antico scritto senese attesta che, negli anni in cui la peste nera imperversava in tutto il Vecchio Continente, un frate appartenente all’Ordine Francescano si servisse del vino destinato all’Eucaristia per guarire i contagiati. Era il 1348:  due anni prima la peste bubbonica si era diffusa dall’ Asia in Europa, dove sarebbe rimasta per 500 anni. Dubitiamo che la terapia a base di vino funzionasse, ma molti ne erano fermamente convinti: fu chiamato Vin Santo perchè si riteneva che fosse miracoloso, in grado di curare la peste.

 

 

Sempre nel Medioevo, precisamente nel 1439, pare che fu il cardinale e umanista Giovanni Bessarione a imbattersi nel Vin Santo. Mentre il Concilio di Firenze era in corso, Bessarione assaggiò un vino e credette di riconoscere nella bevanda il “vino di Xantos”, ovvero Santorini. Lo affermò davanti a tutti, ma coloro che sedevano a tavola con lui udirono il termine “santos” al posto di “Xantos”: ciò li portò a credere che quel vino possedesse caratteristiche taumaturgiche. Secondo altre testimonianze, invece, il nome Vin Santo deriverebbe dal fatto che fosse utilizzato nella Santa Messa, durante la liturgia Eucaristica.

 

 

E le particolarità del Vin Santo, quali sono? Essendo un vino passito, come già detto, viene realizzato con uve sottoposte a una lunga fase di appassimento, o disidratazione. Durante il processo, l’acqua e gli acini si separano incrementando la concentrazione di zuccheri in modo esponenziale. Questo procedimento è piuttosto duraturo e, soprattutto, estremamente dispendioso. Il vino che si ottiene è contraddistinto da un’alta gradazione alcolica e un elevato residuo zuccherino. La produzione del Vin Santo si avvale di uve come la Malvasia del Chianti, il San Colombano, il Cenaiolo Bianco e il Trebbiano; quando vengono usate uve di tipo Sangiovese, prende il nome di Vin Santo occhio di pernice. Anche in Umbria, oltre che in Toscana, il Vin Santo è una bevanda tradizionale. Nella sua versione più dolce (ne esiste una dalle note che virano al secco) si abbina ai cantucci, biscotti secchi a base di mandorle che affondano le loro origini nella Toscana del 1500. Montefollonico, una frazione del comune di Torrita di Siena, viene considerato il “borgo del Vin Santo”: questa tipologia di vino è il simbolo del paese. Qui, ogni anno, il 7 e l’8 Dicembre si festeggia la produzione del cosiddetto “oro liquido” con l’evento “Lo gradireste un goccio di Vin Santo?”, dove con “goccio” si fa riferimento alla parsimonia con cui veniva offerto il prezioso vino toscano. Tra le attrazioni della festa sono incluse degustazioni, mercatini artigianali, passeggiate naturalistiche, ma il clou è costituito dal concorso “Il miglior Vin Santo fatto in casa”: viene assegnato un premio a tutti coloro che producono il Vin Santo artigianale più squisito.

 

Photo Credits, dall’alto verso il basso:

Vin santo e cantucci, foto 1: Popo le Chien, CC0, via Wikimedia Commons

Vin Santo e cantucci, foto 2: Popo le Chien, CC BY-SA 3.0 , via Wikimedia Commons

Uve appassite: Zyance, CC BY 3.0 , via Wikimedia Commons

 

Caronte: perchè si chiama così e chi era il terribile traghettatore degli Inferi

 

Caronte: ma chi ha dato, e perchè, questo nome all’anticiclone africano più torrido di sempre? La tradizione di affibbiare determinati nomi ai fenomeni atmosferici, in Europa, ha avuto inizio negli anni Cinquanta all’Istituto di Metereologia dell’Università di Berlino. Nel 1954 fu compilata una lista di dieci nomi di persona da assegnare ai principali eventi meteo; curiosamente, le aree di alta pressione atmosferica (associate al bel tempo) vennero denominate con nomi maschili, mentre quelle di bassa pressione (associate al cattivo tempo) con nomi femminili. Ciò provocò malcontento, in particolare tra le femministe, pochè una simile prassi fu considerata discriminatoria in base al genere. Negli anni Novanta si stabilì quindi che, annualmente, si sarebbero alternati nomi maschili e femminili in ordine alfabetico a prescindere dal fenomeno atmosferico. In conclusione, a battezzare gli eventi metereologici nel Vecchio Continente è l’Istituto berlinese da 70 anni a questa parte. Vale ora la pena di ricordare chi fosse Caronte.

 

Caronte in un’incisione di Gustave Doré, che illustrò la “Divina Commedia” (1861-1868)

Caronte è una figura che ritroviamo sia nella mitologia greca che romana: si occupava di traghettare le anime dal mondo dei vivi all’Ade, il regno dei Morti, attraverso il fiume Stige (come riporta Virgilio nell’Eneide) o Acheronte (come riporta Dante nella Divina Commedia). Caronte, però, svolgeva le proprie mansioni solo a beneficio di chi era stato seppellito con una cerimonia funebre oppure era in grado di pagargli un obolo per il viaggio. Tutti coloro che erano privi di questi requisiti venivano condannati a errare nel Limbo, un bosco spettrale ammantato di nebbia, per l’eternità. Se le anime in questione, invece, potevano permettersi di salire sull’imbarcazione di Caronte, venivano traghettate da una sponda all’altra del fiume Acheronte. Il traghettatore infernale viene descritto da Dante come un uomo spaventoso: un vecchio con barba e capelli lunghi e candidi accompagnati da occhi cerchiati di fuoco. Non a caso Caronte è il figlio di Erebo, la personificazione dell’oscurità degli Inferi, e di Notte, la personificazione della notte della Terra. L’obolo, il pedaggio da pagare per la traghettatura, è un dettaglio molto importante. Sia nell’antica Grecia che nell’antica Roma, infatti, vigeva l’usanza di seppellire i cadaveri con una moneta sotto la lingua o due monete sugli occhi: per evitare che i defunti vagassero nell’Ade come anime in pena, i loro familiari li dotavano dell’obolo da versare a Caronte. In Grecia, questa tradizione è stata abolita solo in tempi recenti. Il demoniaco traghettatore dell’Ade, tuttavia, non ha trasportato sull’altra sponda del fiume soltanto morti; tra i vivi saliti sulla sua barca figurano personaggi mitologici del calibro di Enea, Persefone, Teseo, Ercole, Orfeo, Psyche. L’elenco si allunga, in seguito, con San Paolo e Dante Alighieri.

 

Caronte in un dipinto di Joachim Patinir (1520-1524 circa) conservato nel Museo del Prado

Caronte appare in due pietre miliari della letteratura quali l’Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante Alighieri, dove entra in scena nel Canto III dell’Inferno. Anche il commediografo greco Aristofane, intorno al V secolo a.C., lo incluse nella sua pièce Le Rane, facendogli fare una breve comparsa. Se Caronte è una figura mitologica, i Caronti sono realmente esistiti.  Ma chi erano, esattamente? Nell’antica Roma, veniva chiamato Caronte colui che dava il colpo di grazia al gladiatore in fin di vita che aveva perso il combattimento. Il Caronte aveva un aspetto inquietante: celava il volto con una maschera che raffigurava il suo omonimo mitologico, e per portare a termine il suo compito si serviva di una mazza. Dopo essersi accertato che il gladiatore avesse esalato l’ultimo respiro, il Caronte caricava il suo corpo su un carro e lo trasportava nel cosiddetto “spoliarum”. In questa macabra stanza dell’anfiteatro, il gladiatore veniva spogliato  e i Caronti procedevano a impossessarsi del suo sangue. Costoro, infatti, avevano una sorta di seconda attività: vendevano il sangue dei gladiatori, reputato un potente amuleto e un antidoto a mali come l’astenia e la mancanza di virilità. Nella vita quotidiana, per rendere ancora più lugubre la loro figura, i Caronti usavano tingersi la pelle di verdognolo per rievocare la caratteristica tonalità della decomposizione cadaverica. Ma non voglio concludere questo articolo con racconti così funerei. Passiamo allora al motivo per cui l’anticiclone africano è stato battezzato con il nome del terribile nocchiero degli Inferi. La ragione è molto semplice: al Caronte sub-tropicale spetta il compito di “traghettarci” nelle infuocate estati del cambiamento climatico.

Immagini di Caronte: Public Domain via Wikimedia Commons