Un Halloween da paura

 

“Halloween è il giorno in cui ci si ricorda che viviamo in un piccolo angolo di luce circondati dall’oscurità di ciò che non conosciamo. Un piccolo giro al di fuori della percezione abituata a vedere solo un certo percorso, una piccola occhiata verso quell’oscurità.”
(Stephen King)

 

Nel corso degli anni, VALIUM ha più o meno raccontato tutto su Halloween, che in origine era Samhain (in irlandese antico, “fine dell’estate”): le sue radici celtiche, la sua valenza di spartiacque tra il semestre della luce e il semestre oscuro. Per i Celti, l’anno iniziava con quest’ ultimo. A Samhain si festeggiava il Capodanno, un momento cruciale rispetto al ciclo delle stagioni; nel calendario agricolo, sanciva il passaggio dall’ ultimo raccolto alla preparazione alla semina. Ma perchè il 31 Ottobre viene da sempre associato alle tenebre, al funereo, all’ orrore? In realtà si tratta di caratteristiche che hanno enfatizzato, distorcendolo, lo spirito originale della festa. A Samhain, la mezzanotte era un’ ora fondamentale. Contrassegnando il termine di un ciclo e il principio di quello successivo, apparteneva a un livello atemporale: era un tempo che andava al di là del tempo. Il fatto che non avesse una collocazione cronologica ben definita, eliminava ogni barriera tra la realtà tangibile e le altre dimensioni. Lo scoccare della mezzanotte coincideva, quindi, con l’istante magico in cui il mondo dei vivi e il mondo dei morti si incontravano, entravano in comunicazione. L’ oltretomba, tuttavia, non era legata ad alcuna valenza orrorifica. I Celti celebravano la vita nella morte, perchè ogni morte è un nuovo inizio e una rinascita in un’altra dimensione. Il contatto con il soprannaturale si manifestava anche nella pratica della divinazione, che in questo periodo era diffusissima. Samhain veniva festeggiato con banchetti che andavano avanti per giorni: si brindava all’ultimo raccolto dell’anno, si mangiava la carne del bestiame macellato a causa della scarsità di foraggio. Il fuoco era un elemento molto importante. Simboleggiava la scintilla della nuova vita, della risurrezione primaverile. La sera del 30 Ottobre (Samhain, con ogni probabilità, si celebrava in una notte di luna piena della fine del mese) il fuoco doveva essere spento in tutte le case, dopodichè gli abitanti dei villaggi si recavano sulle colline dove attendevano che la stagione della luce lasciasse il posto alla stagione oscura. In quel preciso istante, nel silenzio generale, il buio veniva squarciato dalle fiamme del sacro fuoco che i Druidi avevano acceso.

 

 

I festeggiamenti avevano inizio, la gioia esplodeva e coinvolgeva tutti i partecipanti. Poi, all’ alba, ognuno scendeva dalla collina munito di una torcia che ardeva del sacro fuoco dei Druidi: con quella torcia avrebbe riacceso il focolare nella propria casa. Il fuoco della notte di Samhain rivestiva un ruolo specifico anche per gli spiriti dei defunti. Illuminava la strada alle anime smarrite, le aiutava a raggiungere o a ritrovare la dimora eterna. Parlando di spiriti entrano in scena i rituali, le antiche tradizioni. In Scozia, i giovani celebravano il Capodanno Celtico annerendosi il volto, velandolo o celandolo tramite maschere per impersonare i defunti. La barriera tra il regno dei vivi e quello dei morti crollava generando scompiglio, confusione: i ragazzi si vestivano da ragazze e viceversa, si ordivano scherzi come lo scambio dei cavalli o la sparizione degli aratri. Riemerge costantemente l’ambivalenza tra vita e morte, luce e oscurità. La stessa dea della Terra incarnava una forza oscura, che versa lacrime perchè il suo amante, il dio della Vegetazione, è sparito nell’ oltretomba, ma porta in grembo il seme della vita futura che fiorirà in primavera. Una delle tradizioni più note della notte di Samhain era quella di apparecchiare la tavola anche per i defunti: si lasciava loro del cibo, si sistemavano le sedie davanti al focolare in previsione di una loro visita. Le finestre e le vie venivano illuminate per guidare gli spiriti lungo il percorso, ma a questa funzione adempiva altresì la luna piena.

 

 

I falò che si accendevano su tutte le colline della Britannia e dell’ Irlanda avevano lo scopo di ridar vigore al dio morente, di portare nel nuovo anno la sua luce. L’usanza di indossare una maschera, di dipingersi il volto o vestirsi di nero, invece, era tipica delle streghe ai tempi dell’Inquisizione: quei travestimenti le aiutavano a mimetizzarsi nella notte e a terrorizzare gli inquisitori quando si spostavano da una congrega all’altra. La paura e i cammuffamenti, con il passar del tempo, sono diventati parte integrante della festa di Samhain. E a tutt’oggi rimangono intatti: dopotutto, come dice lo sceriffo Brackett nel film “Halloween – La notte delle streghe” di John Carpenter, “E’ Halloween: tutti hanno diritto a un bello spavento!”

 

 

 

Tradizioni ed emblemi pasquali: dalla dea Eostre all’ Easter Bunny

 

Vi siete mai chiesti perchè il coniglio è uno dei più celebri emblemi pasquali? Il motivo risale a Eostre, la divinità germanica della fertilità e della rinascita. Il suo nome potrebbe derivare da “Aus”, ossia “Est”. E’ un’ ipotesi plausibile se pensiamo che Beda il Venerabile, monaco e storico anglosassone vissuto tra il 600 e il 700 d.C., nel trattato “De temporum ratione” descrisse la dea come l’ incarnazione del punto cardinale dove sorge il sole (l’ est, appunto). In quanto divinità della rigenerazione, e data la prolificità dei lagomorfi, Eostre veniva spesso raffigurata con le sembianze di una lepre o di un coniglio. In altre rappresentazioni aveva le fattezze di una fanciulla, ma esibiva la testa di una lepre. Oppure ancora, era ritratta insieme a un coniglio sullo sfondo della luna piena. Il profondo significato simbolico di questa iconografia instaurò, nel tempo, un legame indissolubile tra la Pasqua e il tradizionale coniglietto. Antichi popoli come i Celti identificavano la dea Eostre con l’ Equinozio di Primavera e diedero a quest’ ultimo il nome di “Eostur-Monath”, poi evoluto in “Ostara”. Le popolazioni anglosassoni battezzarono “Eostre-monath” il periodo del risveglio della natura, del ritorno della luce, della rinnovata fertilità della terra. Quel periodo, com’è ovvio, era la Primavera; potremmo equipararlo all’ attuale mese di Aprile, allora dedicato quasi in toto alle celebrazioni e ai rituali in onore di Eostre. Con l’ avvento del Cristianesimo, l’ Equinozio di PrimaveraOstara – e i suoi festeggiamenti vennero inglobati nella Santa Pasqua. Non è un caso che la Domenica della Risurrezione, in alcuni paesi del Nord Europa, abbia assunto denominazioni derivanti da “Ostara” e “Eostre”: Pasqua è “Easter” in inglese, “Ostern” in tedesco.     

 

 

Emblemi primaverili quali il coniglio e l’uovo (un altro simbolo della fertilità, l’ embrione della Vita per eccellenza) entrarono a far parte della più importante festività cristiana. Narra un’ antica leggenda che un leprotto avesse l’ abitudine di tingere le uova di tutti i colori possibili in omaggio a Eostre. Per accattivarsi la simpatia della dea lasciava uova variopinte ovunque, finchè un giorno le offrì personalmente alla giovane divinità. Eostre, felicissima di ricevere quel dono, suggerì al leprotto di regalare le sue uova in tutto il mondo: ecco come nacque la tradizione del coniglietto pasquale, nei paesi anglosassoni “Easter Bunny”, che oggi è solito donare ai bimbi uova di cioccolato di ogni tipo e dimensione.

 

Santa Lucia

 

” Il 13 Dicembre, al mattino presto, quando freddo e oscurità regnavano sulla terra del  Värmland fino ai tempi della mia infanzia, santa Lucia di Siracusa entrava in tutte le case sparse tra le montagne della Norvegia e il fiume Gullspång. Portava ancora, almeno agli occhi dei bambini, una veste bianca di luce di stelle e sui capelli una ghirlanda verde con fiori ardenti di luce, e svegliava sempre chi dormiva con una bevanda calda e profumata che versava dalla sua brocca di rame. Mai mi capitò all’ epoca visione più meravigliosa di quando la porta si apriva e lei entrava nel buio della mia stanza. E vorrei augurarmi che mai smetta di apparire nelle fattorie del Värmland. Perché è lei la luce che sconfigge le tenebre, è la leggenda che vince l’oblio, è quel calore interiore che rende le contrade gelate ammalianti e piene di sole nel cuore dell’inverno. “

Selma  Lagerlöf, da “La leggenda della festa di Santa Lucia” (ne “Il libro di Natale”)

 

La rubrica Le perle di VALIUM si fonde con il post odierno per celebrare la Festa di Santa Lucia, la “Santa della Luce”. Voglio omaggiarla tramite un estratto che ho selezionato da “Il libro del Natale” (1933) di Selma Lagerlöf, scrittrice svedese Premio Nobel per la Letteratura nel 1909. Tra gli otto racconti a tema natalizio in cui Lagerlöf esplora ricordi, atmosfere, fiabe popolari della tradizione scandinava, ne appare infatti uno intitolato “La leggenda della festa di Santa Lucia”. E’ suggestivo e magico, e volevo proporvene il finale. Perchè Santa Lucia è una delle feste dell’ Avvento che mantiene un’ impronta indelebile nell’ immaginario collettivo. Il nome stesso della Santa, che deriva dal latino “Lux” (“luce”), sembra emanare un avvolgente alone luminoso: un dettaglio indicativo, nel periodo in cui le notti si allungano a dismisura. Non è un caso che, anticamente, il 13 Dicembre coincidesse con i festeggiamenti per il Solstizio d’Inverno, giorno più corto dell’ anno ma anche punto di partenza del nuovo ciclo di ascesa del Sole. Dodici mesi fa ho dedicato un approfondimento alle celebrazioni svedesi di Santa Lucia (rileggi qui l’articolo). Il magnetismo sprigionato da questa ricorrenza mi spinge oggi a soffermarmi sulla sua storia e sulle sue leggende in terra italica.

 

 

Dove a Lucia ci si riferisce sempre come a “Santa della Luce”, seppure con motivazioni leggermente diverse. Se nelle lande del Nord Europa il suo bagliore inaugura il primo baluginio di luminosità dell’ Inverno, in Italia viene associato alla vista (nello specifico, a leggende inerenti al sacrificio dei suoi occhi) e al chiarore delle candele che la accompagnava durante l’ operato svolto a sostegno del cristianesimo. Si narra infatti che portasse segretamente i viveri ai cristiani rifugiatisi nelle catacombe per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano, e che per farsi strada nel buio li raggiungesse con una corona di candele fissata sul capo. L’ agiografia descrive Lucia come una giovane di nobili origini nata nel 283 d.C. a Siracusa. Profondamente cattolica, Lucia consacrò la sua verginità a Cristo sin da bambina. Era orfana di padre e viveva con la madre, Eutychia, malata da tempo. Dopo un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata, che Lucia invocò affinchè la aiutasse a guarire, la donna riacquistò la salute miracolosamente. Sant’ Agata apparve in sogno a Lucia esortandola ad onorare la fede a cui si era votata con tanta dedizione. La giovane donna, quindi, decise di dedicarsi alla carità: rinunciò al suo patrimonio devolvendolo ai bisognosi, dai quali si recava per portare aiuto, e supportava i cristiani perseguitati in seguito all’ editto che Diocleziano emise nel 303 d.C. . Tutto ciò provocò l’ira del promesso sposo di Lucia, un nobile pagano, che si vendicò denunciandola in quanto cristiana e la costrinse a sottoporsi a un processo conclusosi con il martirio della ragazza. Era il 13 Dicembre del 304 d.C.. Secondo alcune leggende, Lucia perse gli occhi quando fu martirizzata, altre raccontano che se li strappò dalle orbite spontaneamente. Altre ancora, che li offrì in sacrificio a un pretendente. Quando glieli donò, posati su un piattino, venne dotata per miracolo di occhi addirittura più splendenti. L’ innamorato, furibondo, pretese che glieli sacrificasse nuovamente, ma al suo rifiuto la uccise pugnalandola al cuore. Nacque in questo modo il culto di Santa Lucia come protettrice degli occhi e della vista. Luce, occhi e vista si uniscono dunque in un affascinante amalgama che rimanda a svariati miti pre-cristiani.

 

 

Alcuni di questi si ricollegano proprio alla tradizione scandinava: pare che ciò sia dovuto ai Longobardi, stanziatisi nel Nord Europa durante il I secolo a.C.. Quando invasero l’ Italia nel 568, diffusero il culto di Lussi (il cui nome significava “luce”), divinità che in Scandinavia regnava sugli spiriti dell’ Aldilà e sul “piccolo popolo” (gnomi, elfi, fate e folletti). Lussi dominava la notte del 13 Dicembre, la più lunga dell’ anno, chiamata “Lussinatt”, ed era solita volare sui tetti seguita da un bizzarro corteo di anime erranti. Puniva i bambini malvagi, che venivano trascinati su per il camino e condotti nel regno dei morti, e le famiglie che non si stavano preparando adeguatamente alla festa di Yule (il Solstizio d’Inverno). In quella notte fatata, si pensava anche che gli animali avessero facoltà di parola.

 

 

Ma Lussi non era l’unica figura ad appartenere a questo patrimonio mitico. Nella Roma Imperiale veniva venerata la dea Lucina, divinità del parto. Lucina, il cui nome (come quello di Lucia) risalirebbe a “Lux” e potrebbe essere tradotto con “colei che porta i bambini verso la luce”, era anche battezzata Candelifera poichè i parti si svolgevano a lume di candela. Un cero votivo, inoltre, veniva acceso dalle partorienti che invocavano la protezione della dea. La festa di Lucina, di conseguenza, era celebrata nel mese di Dicembre, il periodo del “Dies Natalis Solis Invicti”: quando il Sole, cioè, “rinasceva” e il giorno cominciava progressivamente ad allungarsi dal Solstizio d’Inverno in poi.

 

 

Innumerevoli fattori hanno contribuito a combinare la figura di Santa Lucia con quella di Lussi e della dea Lucina. Generalmente, si ritiene che l’ evangelizzazione cristiana in Scandinavia fu determinante nella propagazione della storia della Santa. Tra popoli che sperimentavano tanto spiccatamente il divario tra buio e luce, la martire di Siracusa che squarciava le tenebre con la sua luminosità divenne popolare al punto tale da dar origine a una festa – quella di Santa Lucia, appunto – celebrata sin dagli inizi del Medievo. Ciononostante, moltissimi altri elementi della tradizione pagana e pre-cristiana germanica ebbero il loro peso nel diffondere il culto di Lucia. Il tema della luce che trionfa sul buio, non a caso, è uno dei cardini portanti della ricorrenza di Yule, anticamente salutata con un tripudio di rituali, convivialità e banchetti. Diamo quindi il benvenuto alla giornata di Santa Lucia: la Festa della Luce.

 

 

Foto di Santa Lucia in Svezia (la 2 dall’ alto) di Claudia Gründer, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

Calendimaggio, un’ode a Flora e a Dioniso

Sir Lawrence Alma-Tadema, “Spring” (1894), particolare

Il 1 Maggio, oltre che Festa del Lavoro, è anche Calendimaggio. Ne parlo con due giorni di ritardo, ma non importa: l’ incanto che circonda questa ricorrenza rimane intatto. Con il Calendimaggio, gli antichi popoli festeggiavano la Primavera ormai giunta al suo apice. Il nome deriva da “calende”, ossia il primo giorno del mese (calcolato in base alla luna nuova) del calendario romano. Durante le “calende” di Maggio si celebrava Flora, la dea della fioritura, e venivano compiuti numerosi rituali. Uno di questi vedeva protagonisti gli alberi, emblemi della natura e della sua fertilità ritrovata, associati alla prosperità immancabilmente: la tradizione voleva che i giovani uomini, la notte del 30 Aprile, si inoltrassero nei boschi per procurarsi rami fioriti o interi arbusti.

John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrs” (1897), particolare

Li avrebbero posti davanti alle finestre o ai portoni delle fanciulle a mò di rito di corteggiamento. Ma gli alberi venivano trapiantati nei luoghi più disparati, come le piazze, i cortili, addirittura accanto alle abitazioni delle personalità del villaggio. Probabilmente questi riti si ricollegavano all’ “albero cosmico” su cui per nove giorni e nove notti si rifugiò Odino, la massima divinità della mitologia norrena, prima che apprendesse la potente simbologia delle rune celtiche. Tra le usanze più famose e amate, tuttora diffusa in molte zone d’ Italia, c’è poi quella dei Canti del Maggio: il primo giorno del mese (o la notte precedente), i “maggianti”, anche detti “maggerini”, si recano di casa in casa – o percorrono le vie dei borghi, soprattutto in tempi di Covid – cantando versi gioiosi e pieni di brio intrisi di termini dialettali. Si tratta perlopiù di stornelli, accompagnati da chitarre, tamburelli e violini, che inneggiano al risveglio della natura e al ritorno di Dioniso (originariamente, il dio della vegetazione). In onore all’ allegria che sprigionano questi canti, i maggianti ricevono omaggi enogastronomici: un bicchiere di buon vino, una fetta di dolce, delle uova, uno spuntino…Simili soste consentono di osservare da vicino gli ornamenti a base di rose, viole, foglie di ontano e maggiociondolo sfoggiati dai maggerini, tutti fiori e piante tipici del mese appena iniziato e ricorrenti nel Cantamaggio. Che questa tradizione sia connotata da una forte valenza propiziatoria è ovvio, e anche qui risiede il suo fascino; non è un caso che affondi le radici presso popoli che attribuivano valori ben precisi alla ciclicità della natura: in particolare i Celti, affiancati dagli abitanti dell’ antica Etruria e dai Liguri.

Charles Daniel Ward, “The Progress of Spring” (1905), particolare

Per concludere, cari lettori di VALIUM: è Maggio, uno dei mesi più belli dell’ anno. La Primavera è esplosa in pieno e l’ Estate, con la sua afa, è ancora lontana. Mi piace pensare ai 28 giorni che ci aspettano immaginando di avventurarmi, rigorosamente al tramonto, lungo un sentiero fiancheggiato da cespugli di rose…

Il luogo

 

Venezia, oggi, compie 1600 anni. Era il 25 Marzo del 421 quando sulla Riva Alta (Rialto), dove ebbe luogo il primo insediamento lagunare,  venne consacrata la Chiesa di San Giacomo (così riporta il manoscritto del Chronicon Altinate). La città di Venezia fu fondata allora, e 1600 anni dopo festeggia il suo anniversario con un caleidoscopio di eventi, mostre, percorsi alla scoperta degli splendori locali, conferenze e chi più ne ha, più ne metta. L’ avvio alle celebrazioni è fissato per le 11 in punto: nella Basilica di San Marco, il Patriarca Francesco Moraglia officierà una messa divulgata  in diretta TV su Antenna 3 e via social sulla pagina FB di Gente Veneta. Dalle 16 in poi, la Serenissima verrà invasa dal suono delle campane. Tutte le chiese contribuiranno a dar vita a questo speciale “concerto”, un tributo alla città da parte di tutto il Patriarcato di Venezia. Alle 18,30, invece, i festeggiamenti proseguiranno con un omaggio televisivo: lo speciale Venezia tramite cui Rai 2 racconterà la storia della perla lagunare in un connubio di musiche suggestive e spettacolari immagini. “1600 Venezia speciale anniversario” – questo il titolo del programma –  sarà introdotto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un inizio solenne così come solenne è la commemorazione della nascita di una città unica e preziosa, una vera e propria meraviglia che nessun altro luogo al mondo riuscirà mai a uguagliare. I più sentiti Auguri, Serenissima!