Le streghe d’Italia, regione per regione: alla scoperta di una figura chiave del nostro folklore

 

C’è un’apertura tra i due mondi: il mondo degli stregoni e quello degli uomini viventi. C’è un luogo dove i due mondi si incontrano: l’apertura è lì. Si apre e si chiude come una porta al vento…

(Carlo Castellaneta)

Halloween, come ben saprete, viene anche detta “La notte delle streghe”. Ma chi era, realmente, la strega? Basta citare l’origine di questo nome per percepire l’alone sinistro che ha sempre circondato la sua figura: “strega” deriva dal latino “strix”, ovvero “strige”, un rapace notturno appartenente alla specie degli strigiformi; nella Roma antica si diceva che attirasse la sfortuna e che si nutrisse degli esseri umani e del loro sangue. Con il passar del tempo, su tali suggestioni si forgiò l’immagine della strega così come la conosciamo ora: una vecchia orripilante, perfida e dotata di poteri magici che la rendono in grado di compiere le più crudeli nefandezze. Rappresentata spesso a cavallo di una scopa, la strega poteva assumere innumerevoli sembianze; durante il Medioevo, quando il Cristianesimo si diffuse in tutta Europa, la si considerava un’adoratrice del demonio; da ciò prese vita il fenomeno di isteria di massa della “caccia alle streghe”, iniziata nel 1480. Per approfondire le caratteristiche di questo personaggio del folklore, rileggete qui l’articolo che le ho dedicato. Oggi, invece, parleremo di come viene vista la strega, regione per regione, nella cultura popolare e nella tradizione magica italiana.

 

 

La figura della strega nelle regioni italiane

Cominciamo dal PIEMONTE e dalla VALLE D’AOSTA, dove la strega e lo stregone sono conosciuti, rispettivamente, con il nome di Masca e Mascone. Si pensa che questi termini abbiano origine dal longobardo, che chiamava “maska” l’anima dei defunti, oppure da “mascar”, che in provenzale significava “borbottare”: la strega borbotta incantesimi o maledizioni indifferentemente. La condizione di Masca si eredita dai propri antenati. E insieme ai poteri soprannaturali si riceve in eredità il Grimorio, un libro magico che impazzò tra il tardo Medioevo e il Settecento: le sue pagine contengono calcoli astrologici, formule per gli incantesimi e le evocazioni, ricette per realizzare pozioni (non sempre curative), vademecum per la preparazione dei talismani. E’ stata rinvenuta una matrice celtica, nell’origine delle Masche. Le radici di queste streghe, non a caso, vengono collocate nelle aree colonizzate dai Celti in Italia.

Strie è il nome che viene assegnato alle streghe in LOMBARDIA; da qui il termine striaria per indicare la stregoneria. Alcuni studi, poi, hanno rinvenuto similitudini tra la figura di Arlecchino e quella del dio Pan, il cui culto, nel XIX secolo, venne equiparato dai cristiani a quello per il demonio. Pare infatti che i costumi e il tipico volto imbrattato dei sacerdoti pagani durante i rituali in onore di Pan fossero stati d’ispirazione nella creazione della celebre maschera bergamasca. Anche il Badalisc, personaggio mitologico della Val Camonica, viene storicamente accostato a Pan: le piccole corna issate sulla testa di legno, i capelli di pelo di capra, gli occhi di fuoco e la bocca smisurata evidenziano una certa somiglianza con la divinità greca della vita agreste. Badalisc, inoltre, dimora nei boschi proprio come Pan.

Le Anguane, streghe del TRENTINO, sono spiriti dell’acqua molto avvenenti. Il loro nome deriverebbe da “Adganae”, un termine che designava le matrone celtiche, e la leggenda vuole che si celebrino molti matrimoni tra le Anguane e gli umani. Non si tratta di streghe temibili: ad esse vengono fatte offerte per ingraziarsi i loro favori, oppure si omaggiano tramite rituali in cui abbondano i falò e pietanze di ogni tipo.

 

 

Le streghe del VENETO, chiamate Bele Butèle, non di rado vengono presentate come fate o ninfe dell’acqua. Le loro dimore sono le cavità calcaree dei Colli Berici o altre insenature di montagna. Appaiono nottetempo, quando in cielo splende la luna piena, e si dileguano allo spuntar dell’alba. Sono estremamente astute, delle abili ingannatrici: si presentano come donne attraenti in modo da imbrogliare chi prendono di mira, ma in realtà hanno un aspetto orribile. Esibiscono orecchie lunghissime, zampe di capra al posto delle gambe, braccia come quelle di una scimmia. Incontrarle è certamente un pericolo per chiunque. A Belluno, poi, esiste la “stria della diassa”, la “strega del ghiaccio”. Si dice che abbia il potere di far esplodere bufere e tempeste, ma nessuno sa come sia fatta.

Le Bagiue, o Bazure, sono le streghe della LIGURIA. Secondo le credenze popolari, si danno appuntamento nelle notti tra il mercoledì e il giovedì e tra il venerdì e il sabato per organizzare i loro convegni esoterici, che raggiungono munite di scope a cui agganciano delle candele.

Scendendo verso il centro-sud, giungiamo in ABRUZZO. La festa di San Domenico di Sora Abate, celebrata a Cocullo i primi di Maggio, contiene molti indizi che si rifanno ad antichissime divinità locali. Una ventina di serpenti viene avvolta attorno alla statua di San Domenico, portata in processione mentre la accompagna il suono della banda del paese. La devozione a San Domenico di Sora Abate, sancita dalla cosiddetta “festa dei serpari”, sarebbe una versione cristianizzata del culto di Angizia (il cui nome deriva da “angius”, “serpente” in latino), dea dei Marsi: questo antico popolo si era stanziato nei pressi del lago Fucino nel I millennio a.C. Angizia, divinità associata al culto dei serpenti, veniva considerata una maga, una sorta di strega che utilizzava sapientemente le piante medicinali ed era in grado di curare i morsi di serpente. Essendo dotata di poteri soprannaturali, governava le leggi della natura e si serviva dei veleni per scopi terapeutici; inoltre, riusciva a uccidere i serpenti con un semplice tocco.

 

 

La Janara è una nota strega della CAMPANIA. Originaria di Benevento, la figura della Janara è molto diffusa anche a Napoli e in diverse zone della regione. Secondo le leggende è nata la notte di Natale, sotto il chiarore della luna piena, oppure si è consacrata alla magia in quella stessa notte. La Janara è una strega ambivalente: da un lato viene rappresentata come una solerte guaritrice, dall’altro provoca dolore, inquietudine e malasorte. In particolare, la Janara ha il potere di minare irrimediabilmente la fertilità. Il popolo la considera un’adoratrice del demonio, e per tenerla a debita distanza si serve di stratagemmi ben precisi: davanti al proprio portone versa un pugno di sale, in alternativa mette una scopa capovolta. La strega, impegnata a contare i granelli del sale o le setole della scopa, rimarrà sulla soglia per la notte intera e all’alba, con l’arrivo della luce del sole, dovrà fuggire suo malgrado. Se la Janara è riuscita a entrare in casa, invece, la si deve cacciare prendendola per i capelli. Il nome Janara potrebbe derivare da “Dianara”, un termine che designava le seguaci della dea Diana (molto numerose localmente) ai tempi della Roma antica.

Le Magàre CALABRESI sono esperte conoscitrici delle arti magiche. Guariscono attraverso le erbe e i rimedi naturali, tolgono il malocchio, realizzano filtri d’amore. Ma con la stessa facilità con cui liberano il prossimo dalle iettature, sono in grado di eseguire sortilegi potentissimi. A San Fili, in provincia di Cosenza, è stata istituita una “Notte delle Magàre” che le fa rivivere ogni estate: ci si maschera da streghe in un tripudio di spettacoli e degustazioni.

 

 

Le streghe della PUGLIA si suddividono in due versioni, che occasionalmente si sovrappongono l’una all’altra: ci sono le Stiare, malvagie e dannosissime, capaci di provocare persino la morte. Di notte diventano gatti e si riuniscono  sotto un noce per divertirsi e stare in compagnia. Le Masciare hanno gli stessi poteri, ma sono più benefiche: guariscono servendosi delle erbe, aiutano il prossimo, tolgono il malocchio e le fatture. Però non è una regola, quindi bisogna stare attenti. La facoltà di trasformarsi in gatti  è valso loro il soprannome di Gatte Masciare. In Puglia, anche al ballo della pizzica sono sempre stati attribuiti accenti quasi soprannaturali. Chi veniva morso dalla tarantola, se voleva guarire doveva danzare; pare che tutto ciò derivi da antichi riti dionisiaci, che con l’avvento del Cristianesimo furono opportunamente modificati: San Paolo sostituì Dioniso e divenne il Santo protettore dei tarantati.

Arrivando in SICILIA, troviamo le Animulari: sono streghe che hanno come unico fine il male. Si ritrovano di notte con un intento comune, danneggiare il prossimo. Amano nascondersi in buchi e cavità come quelli dei camini e delle serrature, ed è possibile scorgerle mentre vagano per la casa quando cala il buio; le riconoscerete, perchè portano un arcolaio sempre con sè. Leggenda vuole che siano state loro a generare il diavolo, vendendogli l’anima per ottenere i poteri soprannaturali.

 

 

Concludiamo con le streghe vampire della SARDEGNA, chiamate Cogas. Affamate di sangue umano, sono anche note con il nome di Surtoras o Surbiles; provengono da Villacidro, un comune della Sardegna del Sud. E’ difficile accorgersi di loro, poichè hanno la facoltà di tramutarsi in animali o di diventare del tutto invisibili, ma possono essere smascherate grazie alla minuscola coda che sfoggiano o alla croce pelosa che decora la loro schiena. Per una Cogas, la condizione di strega è impressa nel DNA: si diventa Cogas, infatti, se quando si nasce si è la settima di sei sorelle nate precedentemente.

 

La banshee, eterea e fantasmatica creatura del folklore irlandese

 

Ho spesso parlato delle radici irlandesi di Halloween, che per i Celti dell’ Isola di Smeraldo era Samhain. E irlandese è anche la banshee, un mitico spirito del folklore locale: il nome che porta, letteralmente “donna delle fate”, deriva da “bean” (“donna” in gaelico) e “sidhe” (proveniente da “sith”, che sempre in gaelico significa “fata”). Conosciutissima in Irlanda e in Scozia, la banshee viene raffigurata come una giovane donna dai lunghi capelli vestita di bianco, o di rosso, dalla testa ai piedi. Secondo altre rappresentazioni, indossa un abito verde a cui abbina una mantella grigiognola, oppure un velo che la ricopre completamente donandole un alone di mistero. La banshee a volte canta, più spesso ha il volto rigato dal pianto e presto vedremo il perchè. Può apparire sotto svariate forme, ma le sue urla lancinanti permettono di distinguerla senza possibilità d’errore.

Chi è e da dove proviene la banshee?

Questa creatura del mito irlandese fa parte del piccolo popolo (in gaelico “sidhe”), ovvero il popolo fatato degli gnomi, gli elfi, i folletti, le fate, i leprechaun e molti altri personaggi ancora: tutti spiriti che dimorano abitualmente nel regno della Natura. Le leggende più remote collocano la banshee nei paraggi dei fiumi, dei ruscelli e delle paludi; a volte, invece, gli scenari che la vedono protagonista sono le verdi colline irlandesi. E’ importante sapere che la banshee viene considerata lo spirito protettore di determinate famiglie d’Irlanda, in particolare tutte coloro che hanno un cognome iniziante per ‘O o per Mac. Il suo segno distintivo sono le grida strazianti che emette per annunciare la morte imminente di una persona vicina a chi le ode: la banshee urla e piange disperata, in particolare quando ad essere in fin di vita è un membro delle famiglie che lei protegge. I brividi che provocano le sue grida, il terrore che queste incutono, fanno sì che la banshee venga annoverata tra gli spiriti maligni. In realtà, le antiche leggende irlandesi non la dipingono come tale.

 

 

A proposito di leggende: si dice che, proprio per l’ambiguità che circonda la sua figura, non bisognerebbe mai posare lo sguardo su una banshee; potrebbe usare i propri poteri contro chi la osserva, oppure sparire misteriosamente. Bisogna aggiungere, però, che è rarissimo avvistare questa fantasmatica “donna delle fate”. Pare che si mostri solo a chi è prossimo a morire, quindi al destinatario delle sue urla. Il fatto che la si identificasse con un presagio di morte, a partire dall’VIII secolo, ha determinato la sua inclusione tra le entità malvagie: un’appartenenza a cui ha senza dubbio contribuito anche la superstizione popolare.

 

 

Tre leggende

Il fiume Daelach, nella contea di Clare, viene soprannominato “Banshee’s brook”, ovvero “il ruscello della banshee”. Questo appellativo deriva dal fatto che, nei periodi di piogge scarse, il corso d’acqua assume una sinistra colorazione rosso sangue. Scientificamente, ciò potrebbe essere causato dalla risalita di notevoli quantità di ferro dall’ alveo del fiume, ma la leggenda dà al fenomeno una spiegazione ben diversa: ogni volta il Daelach diventa color sangue, echeggiano le grida di una banshee. E le acque tornano della loro tonalità originaria, guarda caso, solo dopo la morte di un abitante del luogo.

Nel 1014, prima di affrontare la battaglia di Clontarf, il re irlandese Brian Boru aveva visto la banshee Aibhill sulla sponda di un fiume. Aibhill era intenta a lavare i vestiti dei soldati del re, ma dopo un po’ l’acqua si tingeva di un rosso insanguinato. Nonostante l’avvertimento, il sovrano decise di scendere in campo: inutile dire che perse la vita nel combattimento.

Il magnifico castello di Duckett’s Grove, fatto edificare nel XVII secolo da William Duckett nella contea di Carlow, è celebre per la sinistra leggenda che lo circonda. Oggi è ridotto a un rudere a causa di un incendio che lo devastò nel 1933, ma i suoi immensi giardini e i suoi campi verdeggianti rimangono intatti: tantevvero che la tenuta è visitabile. Alla sua sciagura, secondo la leggenda, contribuì una banshee. Pare che William Duckett fosse legato a una giovane donna che morì dopo essere caduta da cavallo nei dintorni di Duckett’s Grove. La madre della ragazza, disperata, maledisse la tenuta: da quel giorno, una banshee si installò nel castello e vaga nelle sue stanze. Alcuni assicurano di averla vista muoversi dietro alle finestre, eterea e spaventosamente inquietante.

 

Foto: Vitaliy Shevchenko via Unsplash

 

Pasqua, una solennità ricca di simboli

 

Giovedì abbiamo parlato dell’uovo, ma la Pasqua è una solennità piena zeppa di simboli che affondano le loro radici nella religione, nella cultura e nel folklore. La Resurrezione di Cristo, avvenuta tre giorni dopo la sua sepoltura, rappresenta la festività più importante del Cristianesimo: con il passar dei secoli si è andata ammantando, quindi, di molteplici connotazioni simboliche. Di alcuni di questi emblemi si sono perse le origini, mentre altri sono diventati così celebri da essere dati per scontati. Facciamo un po’ di chiarezza e addentriamoci nella ricca iconografia pasquale.

 

L’agnello

 

Simbolizza il sacrificio di Gesù, che ha dato la vita per l’uomo. La tradizione di mangiare agnelli risale alla Pasqua ebraica, il cui nome, Pesah, indicava originariamente la liberazione, ad opera di Mosè, dai lunghi anni di schiavitù che gli Ebrei sperimentarono in Egitto. Fu Mosè, infatti, a guidare il loro esodo verso la Terra promessa. Durante la Pasqua ebraica era tassativo cibarsi degli agnelli per commemorare la salvezza: quando Dio inviò l’ultima piaga, che uccise ogni primogenito egiziano, gli Ebrei (su direttive di Mosè) sacrificarono degli agnelli. Li mangiarono insieme al pane azzimo e tinsero gli stipiti delle porte con il loro sangue. In questo modo, Dio avrebbe potuto riconoscere le loro dimore e risparmiare i loro primogeniti.

 

La campana

 

Il giorno di Pasqua, le campane suonano festosamente per celebrare la Resurrezione di Gesù. Il loro suono comunica gioia, simboleggia la gloria di Gesù risorto. Il Venerdì Santo, invece, giorno della morte di Gesù, le campane suonano a lutto.

 

La colomba

 

Simboleggia la Pace, ma anche lo Spirito Santo, ovvero il Terzo Membro della Santissima Trinità. La Colomba è una figura strettamente legata al Diluvio Universale. Quando il Diluvio si placò, Noè ordinò a una colomba di volare fuori dall’ Arca. La terza volta che lo fece, la colomba tornò con un ramoscello d’ulivo nel becco. Per Noè fu un chiaro simbolo della riconciliazione tra Dio e l’uomo. La colomba divenne quindi un emblema di Pace e della rinascita di Gesù, che si immola sulla croce per la nostra Redenzione: Gesù auspica un mondo all’insegna della Pace e della comunione tra gli uomini. All’inizio del XX secolo, la forma di una colomba cominciò a identificare il dolce pasquale per eccellenza.

 

Il coniglio

 

La lepre, con l’avvento del Cristianesimo, era un simbolo di Cristo. Questo animale infatti non ha una tana, in Primavera vaga liberamente nel bosco. E Cristo si era definito privo di una dimora, di un luogo che lo ospitasse, che gli garantisse il dovuto riposo. Il coniglio vero e proprio, in particolare il coniglio bianco, è una figura molto presente nei paesi del Nord Europa e in quelli anglosassoni (se vuoi saperne di più, rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato): viene chiamato Easter Bunny e ha il compito di distribuire ai bambini le uova di cioccolato. Probabilmente il coniglio, essendo un animale molto prolifico e che fa la muta in Autunno e in Primavera, divenne un emblema di rinnovamento e di rinascita.

 

La croce

 

All’epoca dell’Impero Romano, una croce di legno veniva utilizzata per dare la morte ai condannati: li si crocifiggeva infliggendo loro un supplizio che provocava una lenta agonia. A rendere ancora più atroce il tormento era la flagellazione che lo predeceva. Gesù venne condannato a morte per crocifissione in quanto la Palestina, all’epoca, faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente. Quando Gesù risorse, i credenti cristiani assursero la Croce a simbolo della loro religione e tramutarono quello strumento di tortura in un potente emblema di fede.

 

Il fuoco

 

Con il fuoco che tradizionalmente arde davanti alle chiese la notte di Pasqua, viene acceso il cero pasquale. E’ un rito molto importante a cui i fedeli assistono in massa: il fuoco simboleggia, la vita, la luce, il calore che sconfiggono la morte, l’oscurità e il gelo, ma anche il rinnovamento dello spirito e la luminosità che ci guida verso lo splendore eterno.

 

L’acqua

 

In questo caso, l’acqua è quella del fonte battesimale: durante la veglia pasquale, infatti, si celebra un gran numero di battesimi. L’acqua ha una valenza purificatrice, e il battesimo è un momento di passaggio dal buio alla luce. Battezzandosi si diventa figli di Dio, si abbraccia la luce e si lasciano le tenebre del peccato alle spalle. Con il battesimo rinasciamo a vita nuova proprio come Gesù è morto e risorto.

 

L’ulivo

 

Quando la colomba dell’ Arca ritornò da Noè con un ramoscello di ulivo nel becco, Noè capì subito che l’ira di Dio nei confronti degli uomini era terminata. Il Diluvio Universale si era concluso, la Terra poteva ricominciare a popolarsi. L’ulivo, dunque, divenne un emblema di pace. La Domenica delle Palme, quella che precede la Pasqua, i rami d’ulivo vengono benedetti in ricordo dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, dove venne salutato da una folla entusiasta che agitava rami di palma e ulivo.

Foto via Pexels e Unsplash

 

Tomte e Nisse: i folletti del Natale scandinavo

 

Nell’articolo sul Natale a Copenaghen, che ho pubblicato lunedì scorso (rileggilo qui), ho parlato di una figura onnipresente nelle festività scandinave: il folletto. Questo personaggio, insieme ai suoi simili, prolifera ovunque. Tant’è che, come vi dicevo, è raro visitare un mercatino natalizio senza incontrarne almeno uno. Oggi scopriremo qualcosa in più su di lui, una creatura ricorrente nel folklore del Grande Nord. Il suo nome varia a seconda del paese di provenienza: in Danimarca e Norvegia il folletto è stato battezzato Nisse, in Svezia viene chiamato Tomte. Le origini del Nisse e del Tomte affondano nella cultura agreste, il tardo Medioevo è l’epoca in cui compaiono le prime illustrazioni e testimonianze che li riguardano. In quel periodo, il folletto è un’entità che ha la funzione di proteggere la tenuta agricola. Il nome svedese che lo designa è indicativo: “tomt” significa “terreno”, per cui viene considerato una sorta di “guardiano della fattoria” che ha il compito di aiutare l’agricoltore nelle incombenze giornaliere e nella gestione del bestiame. Il folletto ama gli animali e se ne prende cura; ha un debole per i cavalli, tantevvero che di notte è solito riempire la loro criniera di treccine talismaniche. Vive nascosto, generalmente nei camini e nelle soffitte. Ma che aspetto ha un Nisse o un Tomte che dir si voglia? Innanzittutto, è alto all’incirca due spanne. Fisicamente è simile a uno gnomo, sul volto da anziano spicca una lunga barba candida; indossa un cappuccio rosso a punta e i tipici abiti dei contadini scandinavi del 1600. In Danimarca e Norvegia svolge le medesime funzioni del Tomte svedese, anche se Nisse deriva dal nome proprio Niels, diminutivo di Nikolas. C’è da dire che il carattere del folletto non è esattamente accomodante. Nonostante sia laborioso, discreto (lavora durante la notte, in gran segreto, mentre gli abitanti della fattoria dormono placidamente), preciso e attento, se nota qualche negligenza o ritiene di essere trattato male va su tutte le furie: rompe, disfa, fa dispetti…minaccia di andarsene per sempre. Per evitare di scatenare la sua ira, e a mò di ringraziamento, l’agricoltore deve lasciare un pasto per lui ogni sera. La ciotola che rimane vuota dopo qualche ora è la prova della sua esistenza. A Natale, poi, il folletto ha diritto a un alimento speciale di cui è golosissimo: il tomtegröt, un tipico budino di riso svedese. Lo pretende con zucchero, burro e cannella abbondanti, altrimenti esplode in sonore arrabbiature.

 

 

Anticamente, la figura del folletto era molto controversa. C’era chi ringraziava il cielo per averne uno che badava alla fattoria e chi riduceva quest’atteggiamento positivo nei suoi confronti a una sorta di idolatria. Accudire un folletto, per alcuni, era come adorare il diavolo; non è un caso che il Tomte e il Nisse fossero spesso tirati in ballo durante i processi per stregoneria. I cristiani consideravano i folletti creature pagane e guardavano a loro con diffidenza. In più erano collerici, vendicativi, si diceva che rubassero persino…Solo intorno alla fine dell’800 l’immagine del Tomte e del Nisse venne riabilitata. Gli artisti e i letterati cominciarono a ricondurli alla figura di San Nicola, ma l’autentica svolta si ebbe quando l’illustratrice svedese Jenny Nyström li raffigurò come folletti bonari a corredo del componimento “Tomten” dello scrittore e filosofo Viktor Rydberg. Questo testo descrive un Tomte che trascorre la gelida notte di Natale completamente immerso in meditazioni filosofiche. Il folletto non è più l’entità dispettosa e irascibile del folkore: diventa un essere pensante, mansueto, che ama gli animali e ha a cuore il bene della fattoria. Ma cosa c’entrano il Tomte e il Nisse con il Natale?

 

 

Il legame tra il folletto e il Natale si instaurò nientemeno che in Italia, precisamente nel 1836. In quel periodo erano molti gli artisti e gli intellettuali scandinavi che si trasferivano nel nostro paese. A far conoscere il Nisse nella tiepida e assolata Roma fu il pittore danese Constantin Hansen, un esponente della corrente del Romanticismo. In molti notarono l’addobbo natalizio raffigurante un Nisse durante una festa che Hansen diede nella sua abitazione: da allora, il folletto scandinavo venne considerato una creatura del Natale e si moltiplicarono le sue rappresentazioni a tema. Anche l’artista Johan Thomas Lundbye (danese come Hansen) incluse un Nisse intento a mangiare il budino di riso in una sua illustrazione natalizia del 1845.

 

 

Non molto tempo dopo, l’apparizione della versione femminile del folletto gli diede addirittura la possibilità di metter su famiglia. Attualmente, la figura del Tomte e del Nisse ha raggiunto un giusto equilibrio tra l’irriverenza e la permalosità delle origini e la bonarietà rassicurante e pacifica che acquisì nel XIX secolo: d’altronde, un folletto che non sia dispettoso non si è mai visto! E il Tomte e il Nisse, appartenenti al mondo delle innumerevoli creature che animano i boschi, i monti, i mari e le tenute agricole delle innevate lande del Grande Nord, hanno fatto della loro “dispettosità” un tratto distintivo e inconfondibile. Concludo con un particolare che non può essere tralasciato: in Svezia, Babbo Natale si chiama Jultomte. Ma in comune con Santa Claus ha solo il cappello rosso, perchè lo Jultomte non è altro che il folletto “delle fattorie”. Lo Jultomte porta i doni ai bimbi e in questo ruolo ha preso il posto dello Julbock, ovvero la celebre capra di Natale del folklore scandinavo.

 

Tutte le illustrazioni sono di Jenny Nyström (Public Domain)

 

La leggenda di Santa Lucia: il 13 Dicembre del folklore

 

 

Santa Lucia diffondeva la luce dei suoi occhi sulla lunga notte del solstizio.
(Martirologio Romano)

 

Arriva Santa Lucia, la Santa della luce: una delle ricorrenze più importanti del periodo dell’Avvento. VALIUM ha sempre trattato questa festa approfonditamente, evidenziandone vari aspetti a partire dalle celebrazioni organizzate in Svezia (rileggi qui l’articolo). Oggi, invece, rimarremo in Italia e ci concentreremo sulla Lucia del folklore. Perchè la Santa, in certe zone del nostro Paese, è una sorta di precorritrice di Babbo Natale. Ma come nasce questa usanza? Le sue origini si radicano in una leggenda. Santa Lucia, dopo la sua morte, viveva una vita tranquilla nei paesaggi idilliaci del Paradiso. Da San Pietro e gli altri Santi venne accolta con tutti gli onori, fece subito molte amicizie. Però, a poco a poco, la sua serenità iniziale si tramutò in tristezza. Quando San Pietro le chiese quale fosse il problema, Lucia rispose che il pensiero dei bambini che vivevano sulla Terra, in particolare i più bisognosi, le dava tanta malinconia. Allora San Pietro le donò una chiave dorata e le disse che, aprendo una porticina, avrebbe potuto vedere tutti i bambini del mondo. Ma dopo averli guardati per un po’, Lucia scoppiò a piangere: sulla Terra c’erano troppi bambini affamati, che pativano il freddo e non avevano giocattoli con cui giocare. San Pietro, quindi, le diede un’altra chiave e le indicò una nuova porta da aprire. Quando la Santa la spalancò, vide un vero e proprio cumulo di giocattoli, dolciumi, coperte e caldi cappotti. San Pietro le spiegò che appartenevano a dei bambini ricchi e capricciosi: dopo un po’, si erano stancati di quei regali e se ne erano sbarazzati. Aggiunse poi che Lucia avrebbe potuto portare tutto ai bambini poveri, ma aveva a disposizione solo quella notte. Lei accettò con gioia, tuttavia raccogliere la roba accumulata nella stanza non era un compito semplice; San Pietro chiamò dunque Castaldo, un giovanotto robusto che aiutò la Santa di buon grado. Ben presto, il carretto di legno che San Pietro si era procurato si riempì di doni. Lucia era pronta, rimaneva da cercare chi avrebbe trainato il carretto. Insieme a Castaldo e a San Pietro, così, sondò gli animali suoi amici. Ma quando chiese se qualcuno di loro era disposto ad aiutarla, ricevette solo risposte negative. Il gatto disse che l’avrebbe aiutata volentieri, ma era troppo piccolo e gli era impossibile trainare il carretto; il cane che era il miglior amico dell’uomo e doveva rimanere al suo fianco, il bue che era troppo lento, il cavallo che il carretto pesava troppo…Lucia, disperata, si mise a piangere. Il tempo a sua disposizione si sarebbe esaurito velocemente e i bambini poveri avrebbero continuato a patire il freddo carichi di tristezza. Improvvisamente, però, si udì un lungo raglio: era arrivato un asinello, che dichiarandosi forte e veloce si offrì di trainare il carretto ricolmo di doni. Lucia ne fu felicissima, lo abbracciò e prese a battere le mani. Da allora, nella notte tra il 12 e il 13 Dicembre, Santa Lucia, Castaldo e l’asinello tornano ogni anno a portare regali ai bimbi buoni.

 

 

La tradizione di Santa Lucia portatrice di doni è diffusa in molte regioni e province dell’ Italia settentrionale: la ritroviamo in Trentino, a Udine e nella sua provincia; in Lombardia Santa Lucia si festeggia nelle province di Brescia, Bergamo, Lodi, Cremona e Mantova, mentre in Veneto il carretto della Santa “arriva” a Verona e nell’area Sud-Ovest della regione. In Emilia Romagna, invece, sono coinvolte le province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia. Secondo il folklore popolare, la sera del 12 Dicembre Lucia scende dal cielo vestita interamente di bianco, un chiaro emblema di luminosità (non dimentichiamo che, in questo periodo dell’anno, gli antichi popoli celebravano il graduale ritorno della luce). Il carretto ricolmo di doni viene trainato dall’asinello e accanto alla Santa c’è Castaldo, che l’aiuta nella consegna dei regali. L’usanza vuole che sul portone di casa o sul davanzale si lascino biscotti e vin santo per Lucia e fieno e carote, oppure latte, per l’asinello, un animale generoso e umile che aiuta l’uomo nei lavori più pesanti. Quando il carretto percorre le vie dei paesi, Santa Lucia suona un campanellino d’argento: in quel momento i bambini devono essere tutti a letto, altrimenti non riceveranno alcun dono. E a chi non dorme, o rimane sveglio per vederla entrare nella propria casa, la Santa lancerà cenere negli occhi per impedirgli di scorgerla e dimenticarla nel caso l’abbia vista. La conditio sine qua non per ricevere i regali, insomma, è essere un “bravo bambino”. E i bravi bambini vanno a letto presto, ma soprattutto non cercano di spiare il passaggio di Santa Lucia.

 

 

Anche perchè ai bambini che si comportano male, la Santa consegna del carbone anzichè i regali: un dettaglio che rievoca la figura della Befana. C’è un altro particolare importante, legato alla tradizione. La stesura, cioè, di una lettera dove i bambini scrivono l’elenco dei doni che vorrebbero ricevere, con la promessa di tenere, in cambio, un comportamento impeccabile in qualsiasi circostanza. La lettera (che ricorda quelle scritte a Babbo Natale) viene affiancata agli omaggi per la Santa e l’asinello la sera del 12 Dicembre. La mattina dopo, i bambini potranno ammirare i propri doni in tutta la loro magnificenza.

 

 

Le tradizioni che variano di zona in zona mirano a tener viva la leggenda di Santa Lucia, e la onorano in diversi modi. In provincia di Cremona, ad esempio, i bimbi preparano personalmente i biscotti che offrono alla Santa: si mettono al lavoro nel pomeriggio per averli già pronti per la sera. La “strozega”, invece, è una parata che i bambini effettuano in Trentino e nell’area del Garda; mentre avanzano, trascinano una corda a cui sono legati svariati barattoli di latta: un modo per farsi udire da Santa Lucia, che non può vederli essendo priva degli occhi. Questa sfilata viene organizzata ogni 12 Dicembre. Non mancano, poi, le fiere e i mercatini intitolati alla Santa. A Verona, dal 10 al 13 Dicembre si tiene una fiera composta da oltre 300 bancarelle: i Banchetti di Santa Lucia. Tra prodotti dolciari, tipicità gastronomiche, decorazioni natalizie e artigianato locale non mancano le caratteristiche  “frolle” di Santa Lucia, dei biscotti a base di farina, burro e zucchero a forma di stella, albero di Natale, cuore e così via. La sera del 12, tutta la famiglia è coinvolta dall’arrivo della Santa: dopo cena, ognuno mette a tavola un piatto vuoto cosicchè, durante la notte, Lucia lo possa riempire di dolciumi. Anche a Bergamo è in programma un mercatino, dove i profumi e i sapori del Natale danno vita a un appuntamento irrinunciabile; secondo la tradizione, inoltre, i bambini consegnano le loro lettere a Santa Lucia nella chiesa che le è stata dedicata. In molti paesi della provincia di Bergamo, la Santa distribuisce i suoi doni in piazza: i bambini, per riceverli, si riuniscono proprio lì. Questo tipo di evento è generalmente organizzato dai vari Comuni. Com’è ovvio, è impossibile citare qui tutte le iniziative dedicate alla festa del 13 Dicembre; ciò che conta, è cogliere il significato atavico insito nelle celebrazioni di Santa Lucia: la luce che trionfa, seppure impercettibilmente, sul buio; il bene che trionfa sul male. Perchè il giorno che segue alla cosiddetta “notte più lunga dell’anno” assume una profonda valenza simbolica. Da qui l’importanza rivestita dalle candele, emblemi di luminosità per eccellenza insieme alle fiaccole e i falò che si accendono, non a caso, durante il Solstizio d’Inverno.

 

 

Illustrazione di copertina di Jenny Nyström, immagini via Pixabay

 

11 Novembre: San Martino, ma anche “festa dei cornuti”

Cesare Breveglieri, “San Martino” (1932)

 

“Da San Martino l’inverno è in cammino”, “Per San Martino si buca la botte del miglior vino”, “A San Martino il grano va al mulino”, “Chi vuol far buon vino zappi e poti a San Martino”, “A San Martino si sposa la figlia del contadino”…I proverbi sulla festa di San Martino, solennità che ricorre l’11 Novembre (VALIUM ne ha parlato qui), sono innumerevoli. Questa data, in effetti, ha sempre assunto un’importante valenza simbolica nel folklore italiano ed europeo: a San Martino venivano rinnovati i contratti agricoli, se ciò non avveniva i mezzadri erano costretti a traslocare; l’11 Novembre era una sorta di “Capodanno contadino”, poichè sanciva un decisivo passaggio stagionale. Non bisogna dimenticare, poi, che gli antichi Celti si erano insediati in molti paesi europei (tra cui la Francia, dove a Tours venne seppellito il corpo di San Martino), e festeggiavano il Capodanno proprio a cavallo tra Ottobre e Novembre. Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa conferì il massimo risalto alla festa in onore del Santo, e finì per soppiantare i riti e le tradizioni celtiche del periodo. Tuttavia, soprattutto nell’ ambito della cultura agreste, quella data rimase perennemente associata a una fase di transizione: al Capodanno Celtico si sostituivano le celebrazioni commemorative di San Martino, nel Medioevo popolarissimo in tutto l’Occidente, ma la valenza rimaneva pressochè invariata. Con il passar del tempo, tuttavia, dalle tradizioni popolari è scaturita una nuova definizione per l’11 Novembre: festa dei cornuti. Ma cos’ha a che vedere tutto questo con il Santo? Assolutamente nulla.

 

 

Il nesso tra la “festa dei cornuti” e quella di San Martino è tuttora avvolto nel più fitto mistero. Alcune teorie, però, rimandano alle antiche fiere del bestiame che si tenevano proprio intorno all’11 Novembre: buoi, caproni e montoni sono dotati di corna, non a caso dire “becco” è come dire “cornuto”. Durante quelle fiere, il tradimento diventava una possibilità reale; gli uomini si allontanavano da casa e – tra caldarroste e vino novello – non mancava l’occasione di fare bisboccia, magari in compagnia di qualche gentil donzella. Le donne, rimaste a casa sole, cedevano facilmente alla tentazione di una scappatella. Le fiere duravano diversi giorni e permettevano di concedersi al mezzadro o a qualsivoglia spasimante. Il vino dell’ ultima vendemmia  fungeva da potente euforizzante: l’ebbrezza alcolica favoriva la spregiudicatezza, rendeva tutti più audaci. E spuntavano le corna…Una metafora ispirata, appunto, dalle corna del bestiame. Altre ipotesi riguardano il Capodanno Celtico e la Cabala ebraica. Partiamo subito dalla prima. Le celebrazioni dei Celti si concludevano attorno all’ 11 Novembre, e alcuni ritengono che durante quei festeggiamenti abbondassero la promiscuità e i rituali licenziosi. A tutto ciò si aggiunge l’utilizzo del corno potorio, un corno di bovide dal quale si beveva vino a fiumi: riappare l’associazione tra ebbrezza alcolica e spudoratezza, un’equazione che dà come risultato il tradimento. Nella Cabala ebraica, invece, il numero 11 viene collegato alle corna. Ma l’11 è altresi connesso con due termini che potremmo definire evocativi: “Dibah”, ovvero “maldicenza”, e “Zad”, che significa più o meno “impertinente”. E’ una spiegazione piuttosto nebulosa, ma rientra tra le ipotesi relative alle origini della “festa dei cornuti”. La teoria riguardante le fiere del bestiame risulta, tutto sommato, la più plausibile. Eppure, non c’è nessuna certezza. Quel che è certo è che in cittadine italiane come Roccagorga (in provincia di Latina), Santarcangelo di Romagna (in provincia di Rimini), Grottammare (in provincia di Ascoli Piceno) e Ruviano (in provincia di Caserta), la “festa dei cornuti” viene a tutt’oggi celebrata in un tripudio di giocosità e goliardia: un modo per mantenere vivo il legame con il mondo agreste e le sue tradizioni ancestrali.

 

Immagine di copertina: Fondazione Cariplo, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Foto del bestiame via Unsplash

 

Il luogo: la Feria de Abril di Siviglia, per catturare lo spirito della cultura andalusa

 

Siviglia è speciale perché emoziona e commuove, perché dà corpo alla bellezza e alla grazia dei sogni. Perché è Musa e Artista al tempo stesso, perché vive nel presente proiettando la sua Storia nel futuro”

(Plácido Domingo)

 

La Primavera inoltrata è il periodo migliore per visitare Siviglia, una città dove si respira la quintessenza dello spirito della Spagna. E quale occasione migliore della Feria de Abril, per volare nella capitale dell’ Andalusia? Fondata nell’ VIII secolo a.C., Siviglia è attraversata dal fiume Guadalquivir e abbonda di edifici, piazze, giardini e monumenti che recano le impronte dell’antica dominazione araba. In città il flamenco si balla ad ogni angolo di strada, i “bailaores” proliferano; nelle taverne le “tapas” si degustano con celeberrimi vini locali quali il Fino, la Manzanilla e lo Jerez. La movida è alle stelle, e lo splendore di opere architettoniche del calibro degli Alcazar, l’ Archivio delle Indie, la Cattedrale e la Giralda è valso loro il titolo di Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ma che cos’è la Feria de Abril, e quando si tiene esattamente?

 

Il manifesto della Feria de Abril del 1961

Questa straordinaria settimana di festa, la più eclatante manifestazione folclorica dell’ intera Andalusia, si svolge ogni anno dopo circa 15 giorni dalla Settimana Santa. Quindi, nel pieno della Primavera: il periodo ideale per ritrovarsi tutti insieme nel “recinto ferial” (collocato tra i quartieri di Los Remedios e Tablada) e mangiare, bere Rebujito (una bevanda a base di vino Fino o Manzanilla mescolato alla gazzosa), divertirsi e ballare flamenco da mattina a sera. Quest’ anno, la Feria inizierà il 23 e terminerà il 29 Aprile. A partire dal 2017, tuttavia, i festeggiamenti cominciano il sabato sera per poi protrarsi fino alla notte del sabato successivo, quando si chiudono con uno strabiliante show di fuochi d’artificio sulle rive del Guadalquivir. Perciò l’inaugurazione vera e propria, imperdibile, si terrà sabato 22 Aprile: quella sera si potrà assistere alla cerimonia dell’ “alumbrao de la Portada”, l’accensione della spettacolare porta d’ingresso al cosiddetto Real de la Feria (lo spazio che la Feria occupa), e si svolgeranno le “cene del pescaito”, a base di pesce fritto, che vengono preparate in ogni stand. L’ inaugurazione è un momento importante, ma non è necessario indossare il classico “traje de flamenca”. Dal giorno dopo in poi, invece, via libera all’ abbigliamento tradizionale!

 

La Portada del 2013 in tutto il suo splendore

L’area adibita alla Feria, che occupa oltre 450.000 metri quadrati, è ricoperta di “albero”, un terriccio arancione simile alla sabbia proveniente da Alcalà de Guadaira, ed è solcata da 15 vie che prendono il nome da altrettanti storici toreri sivigliani. Ogni “calle” è illuminata da miriadi di “farolillos“, lampadine racchiuse in scenografiche sfere cartacee, e i 1051 stand sono denominati “casetas”, casette, perchè quel che riproduce la Feria è un’autentica città in miniatura: un microcosmo dove, per una settimana, ci si può immergere nella cultura andalusa più verace. E’ importante dire che la struttura della “portada”, la gigantesca porta d’ingresso, varia di anno in anno, ispirandosi ogni volta a un monumento o a una caratteristica del luogo. L’accensione della porta rappresenta un momento cruciale: per molti è come un Capodanno, il preludio ad istanti che traboccano di gioia e di emozioni. La Feria de Abril concentra in sé tutto il sentire di un popolo, le sue tradizioni, i segni distintivi della sua storia…Lungo le calles ci si sposta a cavallo oppure in carrozza (le distanze sono notevoli), le casette sono in gran parte private proprio per evocare l’idea di una mini-città. Solitamente, quindi, è possibile visitarle su invito, a parte le casette del Comune, quelle che rappresentano i quartieri di Siviglia e quelle dei partiti politici. I colori, gli addobbi e gli ornamenti, non c’è bisogno di dirlo, sono incredibili e riprendono cromie ed elementi tipici dell’ Andalusia. Lo stesso discorso vale per i “farolillos”, 237.000 in totale, che illuminano suggestivamente ogni calle. All’ interno delle casette predominano i fiori, affiancati a tavoli e sedie variopinte per lasciar spazio alla convivialità. Nel Real de la Feria è anche presente un immenso parco giochi chiamato Calle del Inferno. Qui si trovano attrazioni come una ruota panoramica e un centinaio di “cacharritos”, le giostre per i più piccoli.

 

 

L’aria di Aprile, a Siviglia, è mite anche di notte; veicola il fermento e l’entusiasmo al pari dell’aroma del pesce fritto e delle note di chitarra che accompagnano il flamenco. La gente è ospitale, allegra, cordialissima. Non è difficile, per i turisti, essere invitati a bere o a mangiare nelle casette: la socializzazione è uno dei punti cardine della festa. Potrete scoprire le delizie gastronomiche ed enologiche locali in un clima assolutamente unico, improvvisarvi “bailaores”, lasciarvi contagiare dall’ amore che i sivigliani nutrono per la propria cultura.

 

 

Tutto grazie alla Feria de Abril, una Feria dove è d’obbligo, per gli uomini, indossare il tradizionale “traje corto” (composto da un giacchino che termina all’ altezza della vita, pantaloni aderenti e stivali) abbinato al “cordobés”, un cappello a falda larga con calotta piatta, mentre alle donne è richiesto di sfoggiare le “faralaes”, i caratteristici abiti da flamenca ricchi di balze, colorati e tempestati di grossi pois. Questo look viene impreziosito da fiori tra i capelli, enormi orecchini a cerchio, mantillas o grandi scialli ornati di frange.

 

 

La Feria de Abril nacque come fiera del bestiame nel 1847. Ad organizzarla furono il catalano Narciso Bonaplata e il basco José Maria Ybarra. La prima edizione si svolse il 18 Aprile nel Prado di San Sebastiàn con il benestare della Regina Isabella II. Nel 1848, la Feria aveva già cambiato volto: a contribuire alla metamorfosi fu la presenza delle casette del Comune di Siviglia, del Casinò cittadino e del Duca e la Duchessa di Montpensier. L’evento esplose nel pieno degli “anni ruggenti”, gli anni ’20 del ‘900, e da allora il suo successo fu costantemente in ascesa. Basti pensare che oggi, ogni giorno, vanta 500.000 visitatori! Se avete intenzione di viaggiare a Siviglia in occasione della Feria de Abril, non mancate di ammirare le innumerevoli meraviglie cittadine: la Cattedrale con la torre campanaria della Giralda, appartenente a un’antica moschea, la stupefacente Plaza de Espana, solcata da un canale che è possibile percorrere in barca, l’Alcazar, fortezza reale araba dall’architettura sbalorditiva e corredata di splendidi giardini interni, la Torre del Oro, una torre di sorveglianza duecentesca edificata sulle rive del Guadalquivir, i suggestivi quartieri moreschi con le loro viuzze strette e le numerose piazzette…In questo caso, vi consiglio il Barrio de Santa Cruz. Ho citato solo alcune delle principali attrazioni situate nella capitale andalusa. Lascio a voi il compito di scoprire Siviglia a poco a poco, compresi gli angoli meno battuti dai turisti: l’ intera città è intrisa di un fascino tale da mozzare il fiato.

 

 

Foto della Feria de Abril, dall’ alto verso il basso:

Manifesto Feria de Abril 1961 di Halloween HJB, CC0, via Wikimedia Commons. Portada del 2013 di Agustín Macías, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons. Gruppo di donne in abito flamenco fotografate di spalle di Sevilla Congress & Convention Bureau, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons. Donne in abito flamenco davanti a casetta con strisce bianche e rosse di Tom Raftery via Flickr CC BY-NC-SA 2.0. Panorama della Feria serale dall’alto di Zifra Ra, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons. Gruppo di donne in abito flamenco con fiori tra i capelli di Sevilla Congress & Convention Bureau from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette in pieno giorno con farolillos via Joaquin O.C. from Flickr CC BY-NC 2.0. Casetta con strisce bianche e rosse di Radio Sevilla  di Frobles, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons. Carrozza via Julie Raccuglia from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette fila a sinistra con farolillos di Sandra Vallaure, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons. Feria de Abril di notte panorama con Portada di Sevilla Congress & Convention Bureau from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette sullo sfondo a destra con donne in abito flamenco e farolillos di EdTarwinski, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons. Tutte le altre foto via Piqsels, Unsplash, Pixabay e Pexels.