Ode al bosco e ai suoi animali

 

“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.”

(Henry David Thoreau)

 

Il bosco, in Autunno, è un’autentica meraviglia. Dello spettacolo del foliage abbiamo già parlato molte volte, è straordinario di per sé. Gli animali costituiscono un’altra magica attrazione della foresta: nel suo fitto vivono scoiattoli, cervi, daini, cerbiatti, cinghiali, porcospini, volpi, lupi, lepri, orsi…e l’ elenco è ancora lungo. Molti di essi si preparano per il letargo, chi parziale, chi totale, ma intanto animano il bosco con la loro presenza. Non ricordo più chi disse che gli animali mantengono intatta la purezza e l’innocenza (che alcuni siano dei predatori non c’entra, fa parte delle caratteristiche intrinseche della loro specie), perchè non sono stati cacciati dal Paradiso terrestre. E’ una frase che fa pensare, che si creda in Dio o meno. Perchè la natura, e quindi il bosco con i suoi alberi, i suoi ruscelli, i suoi stagni, i suoi sterpi, e non ultimo i suoi animali, è capace di stupirci e di emozionarci ogni volta, di farci apprendere immancabilmente qualcosa sulla sua perfezione. La nuova photostory di VALIUM è dedicata alla fauna del bosco immortalata nel periodo più incantevole dell’anno.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

I nomi e i luoghi

 

” Frate Lino da Padova tirò fuori bottiglie di grappa alle erbe. Lampone, mirtillo, asperula, asparago selvatico, genziana. Assaggiare il ginepro, un liquido marrone dal forte sapore catramato, fu come sfregare la lampada di Aladino. Mille odori uccisi dalla modernità igienista sbucarono dal nulla e ne chiamarono altri all’ appello. Rividi una sequenza olfattiva folgorante: il profumo di cembro di una vecchia camera da letto della Val di Zoldo, con mio padre che richiudeva le imposte spalancate dalla bufera; la sciolina da neve bagnata messa a scaldare accanto a sci finlandesi di legno privi di lamine, marca Jarvinen; mia nonna che apriva d’inverno la marmellata di albicocche messa a bollire l’estate; formaggi appesi ad affumicare sotto il camino di una malga; l’odore dei materassi di paglia in una locanda carnica anni cinquanta, a Comeglians, con un catino e una brocca come lavabo. Ritorno al Giau, non voglio che la luce mi sorprenda. Ormai le stelle accelerano, cadono quasi in verticale oltre il Col di Lana. Fu importante quella notte con Lino il Priore. Parlammo dello zoccolo di rosso porfido che fa da basamento e scantinato alle dolomie più recenti, un fondale marino antichissimo che affiora ogni tanto in superficie con fossili di fantastiche piante tropicali. Parlammo anche della memoria. “Non c’è via d’uscita”, brontolò il frate. “Persino nella savana o nei monasteri del Tibet entra la globalizzazione. Niente si salva dalla TV, niente. Temo che resterà solo il deserto.” (…) Quando dopo molte grappe uscii e Lino chiuse il pesante uscio del convento, pensai di ripetere i nomi di quelle montagne, come un esorcismo contro la desertificazione. Cercai le magiche scogliere e le invocai, nella foresta. Sciliar, Vaèl, Renon, Vaiolett. Nel bosco passai accanto a una croce coperta di neve. Sotto, una montagna di pietre portate dai pellegrini come voto dalla Val d’Adige. Finchè ci saranno i nomi, pensai, ci saranno i luoghi. “

Paolo Rumiz, da “La leggenda dei monti naviganti”