La notte di San Giovanni e le sue erbe magiche

 

“La notte di San Giovanni, ogni erba nasconde inganni”

(Proverbio Popolare)

 

Notte di San Giovanni, la più magica e affascinante dell’estate. Non è raro che, in moltissimi luoghi, le tradizioni e i rituali solstiziali si sovrappongano a quelli della solennnità di San Giovanni Battista: ciò ebbe inizio con l’avvento del Cristianesimo, quando la Chiesa, per arginare le credenze pagane associate al Solstizio, sostituì le celebrazioni della “festa del Sole” con la commemorazione della nascita del Santo che battezzò Gesù nelle acque del Giordano. La notte tra il 23 e il 24 Giugno è sempre stata intrisa di mistero. Persisteva l’usanza dei falò con tutte le valenze ad essi associate, ma si pensava che, al calar del buio, le streghe volassero a Benevento per partecipare a un sabba sotto il celebre noce. Anche le erbe rivestono un ruolo importante, in questa notte incantata: sin da tempi remotissimi, si soleva raccoglierne diverse per bruciarle nei falò tradizionali. Secondo le credenze popolari, le erbe della notte di San Giovanni erano impregnate di poteri portentosi che la rugiada accentuava. Ma come venivano utilizzate? In vari modi. Ad esempio, per proteggersi dagli incantesimi. In questo caso se ne legavano alcuni mazzetti a una corda contenente sette nodi, poi la corda si fissava ai portoni delle case. Oppure, insieme a dei fiori spontanei, si usavano per preparare la celebre “acqua di San Giovanni”: la raccolta veniva effettuava nella notte, dopodichè la misticanza di erbe e fiori si immergeva in un recipiente pieno di acqua lasciato all’aperto fino all’alba affinchè potesse godere dei potenti influssi della rugiada. La mattina del 24 Giugno, lavarsi con quell’acqua propiziava la fortuna, la salute e l’arrivo dell’ amore o l’armonia della coppia. Tra le erbe di San Giovanni (oltre a molte altre) sono inclusi l’iperico, la lavanda, l’artemisia, la ruta, la verbena, il rosmarino. Scopriamo perchè venivano privilegiate quelle erbe e qual era il loro significato simbolico.

 

 

L’iperico. I suoi fiori color giallo brillante, raccolti in infiorescenze, sono ricchi di un pigmento rosso chiamato ipericina. E’ proprio questo dettaglio che ha fatto sì che l’iperico venisse rinbattezzato “erba di San Giovanni”: la tonalità dell’ ipericina rievocava il sangue che il primo santo e ultimo profeta versò a causa della sua decapitazione (richiesta a Erode da Salomé). L’ iperico, detto comunemente scacciadiavoli, aveva il potere di neutralizzare i malefici delle streghe e delle entità malvagie. Secoli orsono era considerato un’erba curativa efficace contro le malattie respiratorie, il diabete e la depressione, ma si era rivelato anche un ottimo cicatrizzante: in particolare, nel Medioevo se ne faceva largo uso per sanare in fretta le ferite da punta e taglio.

 

 

La lavanda. Questo magnifico fiore dal colore che spazia tra l’azzurro e il viola aveva la funzione di proteggere dalle streghe. Per allontanarle, durante la notte di San Giovanni si fissavano dei mazzi di lavanda sui portoni: se si fossero trovate nei paraggi, non sarebbero potute entrare in una casa senza prima aver contato tutti i fiori e le foglie di lavanda collocati sulla porta d’ingresso. A furia di contare, però, sarebbe spuntata l’alba e il sorgere del sole avrebbe obbligato le streghe alla fuga. I fiori di lavanda, così come quelli di iperico, hanno notevoli proprietà medicamentose: combattono i reumatismi, gli spasmi muscolari, le infezioni. Inoltre, favoriscono la diuresi e hanno funzione sedativa.

 

 

L’artemisia. Era considerata l’erba della dea Diana, ovvero Artemide, poichè a lei se ne attribuiva la scoperta. I druidi utilizzavano l’artemisia abbondantemente: facevano seccare con cura i suoi rami prima di bruciarla nei falò del Solstizio. L’artemisia proteggeva dagli incantesimi, in particolare da quelli lanciati contro il bestiame. A questo scopo, si realizzavano grandi ghirlande con questa pianta che avrebbero tenuto a distanza le entità malvagie. Persino Plinio Il Vecchio menzionò l’artemisia nella “Naturalis Historia“: ne esaltava le virtù e incoraggiava a portarla con sè durante i lunghi viaggi a piedi, poichè avrebbe alleviato la stanchezza ed attirato la fortuna. Le proprietà medicamentose della pianta erano leggendarie. Si diceva che, nella notte di San Giovanni, le radici dell’artemisia sprigionassero una polvere nera, un portentoso antidoto contro l’epilessia e la peste che teneva anche i fulmini a debita distanza.

 

 

La ruta. I suoi fiori gialli possiedono generalmente quattro petali e hanno la forma di una croce, il che la rendeva un simbolo divino. Proprio per questo veniva adoperata per scacciare gli spiriti maligni, ma anche per proteggersi dalle streghe: bastava indossare una collana con un ciondolo che racchiudesse le sue foglie essiccate, oppure custodire queste ultime in un sacchetto da portare accanto al petto. La Chiesa si era dimostrata in linea con tali credenze; le famiglie potevano esibire la ruta sui davanzali delle finestre o fissarla alla porta d’ingresso, ma prima avrebbe dovuto essere benedetta. La ruta sconfiggeva la paura ed eliminava il malocchio. Le sue virtù impedivano anche che in casa si intrufolassero vipere, insetti molesti o roditori. Gli alchimisti la ritenevano in grado di padroneggiare la mente e di volgere in positivo la negatività.

 

 

Il rosmarino. Ha fiori violetti ed è noto per le sue proprietà benefiche sin da tempi antichissimi. Era considerato innanzitutto un potente antisettico, perciò, soprattutto quando cominciò a imperversare la peste, si usava per purificare l’aria ed evitare il contagio: in casa ne venivano bruciati i rametti allo scopo di disinfettare l’ambiente. Ma il rosmarino svolgeva un’azione benefica anche per la digestione, combatteva il dolore, eliminava l’ansia, rafforzava la memoria, regolarizzava l’intestino e favoriva la diuresi. In più, per avere un sonno privo di incubi, bastava posizionarlo sotto il proprio cuscino. Persino il legno del rosmarino vantava miracolose virtù. Un cucchiaio in quel materiale era efficacissimo per combattere il veleno, mentre un pettine scongiurava la calvizie. Nell’antichità, il rosmarino veniva reputato un rimedio per ogni male, impossibile citarli tutti. Gli si attribuivano finanche virtù ringiovanenti, portentose per la memoria e per i travasi di bile. Nel 1300, composti a base di rosmarino e altri ingredienti si utilizzavano per preparare la Pece Greca, un disinfettante che, bruciando, purificava gli ambienti chiusi (e qui torniamo al discorso delle pandemie).

 

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Pasqua, una solennità ricca di simboli

 

Giovedì abbiamo parlato dell’uovo, ma la Pasqua è una solennità piena zeppa di simboli che affondano le loro radici nella religione, nella cultura e nel folklore. La Resurrezione di Cristo, avvenuta tre giorni dopo la sua sepoltura, rappresenta la festività più importante del Cristianesimo: con il passar dei secoli si è andata ammantando, quindi, di molteplici connotazioni simboliche. Di alcuni di questi emblemi si sono perse le origini, mentre altri sono diventati così celebri da essere dati per scontati. Facciamo un po’ di chiarezza e addentriamoci nella ricca iconografia pasquale.

 

L’agnello

 

Simbolizza il sacrificio di Gesù, che ha dato la vita per l’uomo. La tradizione di mangiare agnelli risale alla Pasqua ebraica, il cui nome, Pesah, indicava originariamente la liberazione, ad opera di Mosè, dai lunghi anni di schiavitù che gli Ebrei sperimentarono in Egitto. Fu Mosè, infatti, a guidare il loro esodo verso la Terra promessa. Durante la Pasqua ebraica era tassativo cibarsi degli agnelli per commemorare la salvezza: quando Dio inviò l’ultima piaga, che uccise ogni primogenito egiziano, gli Ebrei (su direttive di Mosè) sacrificarono degli agnelli. Li mangiarono insieme al pane azzimo e tinsero gli stipiti delle porte con il loro sangue. In questo modo, Dio avrebbe potuto riconoscere le loro dimore e risparmiare i loro primogeniti.

 

La campana

 

Il giorno di Pasqua, le campane suonano festosamente per celebrare la Resurrezione di Gesù. Il loro suono comunica gioia, simboleggia la gloria di Gesù risorto. Il Venerdì Santo, invece, giorno della morte di Gesù, le campane suonano a lutto.

 

La colomba

 

Simboleggia la Pace, ma anche lo Spirito Santo, ovvero il Terzo Membro della Santissima Trinità. La Colomba è una figura strettamente legata al Diluvio Universale. Quando il Diluvio si placò, Noè ordinò a una colomba di volare fuori dall’ Arca. La terza volta che lo fece, la colomba tornò con un ramoscello d’ulivo nel becco. Per Noè fu un chiaro simbolo della riconciliazione tra Dio e l’uomo. La colomba divenne quindi un emblema di Pace e della rinascita di Gesù, che si immola sulla croce per la nostra Redenzione: Gesù auspica un mondo all’insegna della Pace e della comunione tra gli uomini. All’inizio del XX secolo, la forma di una colomba cominciò a identificare il dolce pasquale per eccellenza.

 

Il coniglio

 

La lepre, con l’avvento del Cristianesimo, era un simbolo di Cristo. Questo animale infatti non ha una tana, in Primavera vaga liberamente nel bosco. E Cristo si era definito privo di una dimora, di un luogo che lo ospitasse, che gli garantisse il dovuto riposo. Il coniglio vero e proprio, in particolare il coniglio bianco, è una figura molto presente nei paesi del Nord Europa e in quelli anglosassoni (se vuoi saperne di più, rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato): viene chiamato Easter Bunny e ha il compito di distribuire ai bambini le uova di cioccolato. Probabilmente il coniglio, essendo un animale molto prolifico e che fa la muta in Autunno e in Primavera, divenne un emblema di rinnovamento e di rinascita.

 

La croce

 

All’epoca dell’Impero Romano, una croce di legno veniva utilizzata per dare la morte ai condannati: li si crocifiggeva infliggendo loro un supplizio che provocava una lenta agonia. A rendere ancora più atroce il tormento era la flagellazione che lo predeceva. Gesù venne condannato a morte per crocifissione in quanto la Palestina, all’epoca, faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente. Quando Gesù risorse, i credenti cristiani assursero la Croce a simbolo della loro religione e tramutarono quello strumento di tortura in un potente emblema di fede.

 

Il fuoco

 

Con il fuoco che tradizionalmente arde davanti alle chiese la notte di Pasqua, viene acceso il cero pasquale. E’ un rito molto importante a cui i fedeli assistono in massa: il fuoco simboleggia, la vita, la luce, il calore che sconfiggono la morte, l’oscurità e il gelo, ma anche il rinnovamento dello spirito e la luminosità che ci guida verso lo splendore eterno.

 

L’acqua

 

In questo caso, l’acqua è quella del fonte battesimale: durante la veglia pasquale, infatti, si celebra un gran numero di battesimi. L’acqua ha una valenza purificatrice, e il battesimo è un momento di passaggio dal buio alla luce. Battezzandosi si diventa figli di Dio, si abbraccia la luce e si lasciano le tenebre del peccato alle spalle. Con il battesimo rinasciamo a vita nuova proprio come Gesù è morto e risorto.

 

L’ulivo

 

Quando la colomba dell’ Arca ritornò da Noè con un ramoscello di ulivo nel becco, Noè capì subito che l’ira di Dio nei confronti degli uomini era terminata. Il Diluvio Universale si era concluso, la Terra poteva ricominciare a popolarsi. L’ulivo, dunque, divenne un emblema di pace. La Domenica delle Palme, quella che precede la Pasqua, i rami d’ulivo vengono benedetti in ricordo dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, dove venne salutato da una folla entusiasta che agitava rami di palma e ulivo.

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I bignè di San Giuseppe, il dolce tipico delle Marche per la Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, a San Giuseppe, ogni regione d’Italia ha un proprio dolce tradizionale da proporre. Nella mia, le Marche, si usa preparare i bignè di San Giuseppe, comunemente detti “migné”. Di che si tratta? Innanzitutto, di una golosità unica: sono bignè farciti di deliziosa crema pasticcera, cosparsi di zucchero a velo oppure alchermes. Li ritroviamo anche in altre regioni dell’ Italia centrale, ad esempio il Lazio, dove generalmente vengono fritti e riempiti di crema chantilly; una variante della farcitura (ma non in quella zona) può essere costituita dalla ricotta. I bignè di San Giuseppe sono soprattutto noti come dolce per la Festa del Papà di Roma. Nella capitale, in effetti, il 19 Marzo era una ricorrenza molto sentita, soprattutto intorno al 1500: la Confraternita dei Falegnami soleva organizzare svariate celebrazioni in onore del padre putativo di Gesù, concentrandole nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano. Proprio in questa chiesa, costruita sopra il Carcere Mamertino nel 1546, la Confraternita era solita riunirsi durante l’anno.

 

 

Ma che c’entra San Giuseppe con i bignè? Tutto, a quanto pare, nacque con la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. In quel periodo, Giuseppe avrebbe lavorato come friggitore itinerante per provvedere ai bisogni della moglie e del figlio. Non è un caso che il 19 Marzo, a Roma, si festeggiasse in un travolgente connubio di sacro e profano, tra miriadi di bancarelle di dolci fritti e funzioni liturgiche che celebravano la solennità dedicata al falegname di Nazareth. Tornando nelle Marche e al dolce tipico della mia regione, va detto che siamo soliti cuocere in forno gli squisiti “mignè”.

 

 

Per prepararli, è necessario procurarsi un bicchiere pieno d’acqua, 100 g di strutto,  quattro uova, una quantità di farina corrispondente a 300 g, e poi dello zucchero, l’alchermes, un po’ di sale e dell’ ottima crema pasticcera.  L’acqua va portata a ebollizione in una pentola insieme allo strutto, dopodichè l’impasto viene mescolato insieme alla farina per dieci minuti circa. Dopo averlo lasciato raffreddare si aggiungono le uova, che erano state sbattute precedentemente. A questo punto è possibile dar forma ai bignè, modellando tante piccole sfere che verranno riposte in una teglia imburrata. I dolcetti dovranno cuocere in forno per mezz’ora a 180°; appena sfornati, si lasceranno raffreddare e la crema pasticcera potrà essere inserita in dosi massicce attraverso un’apertura praticata nella parte superiore dei dolcetti. Per concludere, l’apertura andrà richiusa e si potrà procedere a cospargere i bignè di zucchero a velo (o di alchermes).

 

 

2 Febbraio, Festa della Candelora

 

“Per la santa Candelora, se nevica o se plora, dell’inverno siamo fora; ma se l’è sole o solicello siamo sempre a mezzo inverno”

(Proverbio popolare)

 

Un tripudio di luci, fiammelle di candele che baluginano nella buia sera di Febbraio: è la festa della Candelora, che celebra la Presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme. E come prevede la tradizione, durante la Messa si benedicono le candele simbolo di Cristo, definito da Simeone “luce per illuminare le genti”. In tempi molto antichi la Candelora si festeggiava il 14 Febbraio, la stessa data in cui i romani, durante i Lupercali, organizzavano  lunghe fiaccolate in onore della dea Febris (detta anche Iuno Februata) a scopo purificatorio: le torce accese erano un emblema della luce che squarcia l’oscurità propiziando il fertile risveglio della natura. Quando Papa Gelasio I abolì i Lupercali tra il 492 e il 496, la solennità cristiana della Candelora andò a sostituire quei festeggiamenti pagani. Fu però l’Imperatore Giustiniano I il Grande, nel VI secolo, ad anticipare le celebrazioni al 2 Febbraio. Il concetto di “purificazione” accomuna, tuttavia, entrambe le festività. Se i romani consacravano i loro riti purificatori a Iuno Februata (dal latino “februare” ovvero “purificare”), i cristiani celebravano la Purificazione della Beata Vergine Maria: le leggi ebraiche ritenevano il primogenito maschio offerto a Dio e bisognava riscattarlo con un’offerta; al tempo stesso, la madre veniva considerata impura nei 40 giorni successivi al parto. Maria e Giuseppe, quindi, si recarono al Tempio 40 giorni dopo la nascita di Gesù. Quando Simeone vide il Bambinello, riconobbe subito in lui il Messia venuto a illuminare il mondo e le persone. Gesù è la luce del mondo, e per simbolizzare il suo fulgore ogni anno, il 2 Febbraio, si benedicono le candele prima di distribuirle ai fedeli. Da qui il termine “Candelora”, derivante da “candelorum” che significa, appunto, “benedizione delle candele”; ed è a questo suggestivo oltre che sacro rito che dedico la nuova photostory di VALIUM. Buona Festa della Candelora a tutti.

 

 

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Quando si spengono (realmente) le luci del Natale

 

Avete già smontato l’albero di Natale, il presepe e le decorazioni natalizie? La maggior parte di noi credo che l’abbia fatto: dopo l’Epifania, quando riaprono le scuole e si ritorna al lavoro, le festività sono considerate concluse. Eppure, c’è chi non ha nessuna voglia di privarsi delle luci e degli addobbi che ammantano la casa di un alone di magia, che immergono in una perenne atmosfera natalizia. Se è il vostro caso, sappiate che siete pienamente autorizzati a farlo: le ricorrenze associate alla Natività, infatti, terminano solo il 2 Febbraio. Il percorso ha inizio il 24 Dicembre, la notte di Vigilia, e prosegue il 25, a Natale, quando si celebra la nascita di Gesù. Il 6 Gennaio, Epifania, è il giorno dell’arrivo dei Re Magi e della manifestazione del Bambino al mondo; la prima domenica dopo l’Epifania coincide con il battesimo di Cristo, che il 2 Febbraio, Festa della Candelora, viene presentato al Tempio di Gerusalemme. Il 2 Febbraio si commemora anche la purificazione di Maria: la legge di Mosè, un cardine dell’ebraismo, prevedeva che un primogenito maschio dovesse essere simbolicamente offerto al Signore 40 giorni dopo la sua nascita, e nella stessa data terminava il periodo di impurità della donna che lo aveva partorito. La Festa della Candelora, che cade esattamente 40 giorni dopo il Natale, è di cruciale importanza per la Chiesa Cattolica. Il termine “Candelora” deriva dal suggestivo rito della benedizione delle candele che ha luogo durante la celebrazione eucaristica: un emblema della luce che Cristo è venuto a portare nel mondo, di Gesù che è “luce per illuminare le genti”, come lo definisce Simeone quando, nel Tempio, realizza di avere davanti a sè il Messia. E’ con la Festa della Candelora, dunque, che viene decretato il termine della stagione natalizia e delle solennità che ad essa si ricollegano.  Ecco perchè l’albero, il presepe e le luci ornamentali fino al 2 Febbraio hanno la loro ragion d’essere.

 

5 leggende di Pasqua

 

Nessuno sa dire a quando risalgano queste leggende pasquali: probabilmente a tempi molto antichi. Sono arrivate fino a noi perchè tramandate nel corso dei secoli, e tuttora risultano estremamente toccanti. Somigliano a favole brevi intrise di pietas, ispirano coinvolgimento e commozione. Il loro denominatore comune è la semplicità: raccontano con toni delicati storie che si intrecciano alla Passione di Gesù, instaurando un legame profondo tra la sofferenza di Cristo e i tre regni della Natura (in particolare, quello animale e quello vegetale). Quasi certamente, le leggende che riporto sono sorte per favorire la comprensione del Mistero della Pasqua anche presso i ceti più umili. Eppure, risultano altamente suggestive proprio nella loro poetica genuinità.

Il coniglio e il sepolcro di Gesù

Un coniglio si nascose fortuitamente nel sepolcro dov’era seppellito Gesù. Osservava, non visto, il viavai di tutti coloro che piangevano la sua morte e rimase molto colpito dalla vicenda. Si chiese chi fosse quell’ uomo, ripromettendosi di scoprirlo al più presto. Ma quando all’ alba della domenica lo vide alzarsi e uscire dal sepolcro dopo che un angelo aveva rimosso la pietra tombale, realizzò che era il figlio di Dio. Pieno di gioia, il coniglio avrebbe voluto annunciare a tutti l’ incredibile notizia. Avrebbe voluto gridare che Gesù era risorto, rendere partecipe il mondo intero della sua contentezza. Purtroppo, però, i conigli non hanno il dono della favella. Così, pensò di recarsi di casa in casa e di portare a chiunque un uovo colorato che simboleggiava la vita e la felicità per la resurrezione di Cristo. Ancora oggi, a Pasqua, il coniglio regala uova colorate a tutte le famiglie del mondo in ricordo del giorno in cui Gesù sconfisse la morte.

 

 

Gesù e il salice

Gesù, con la croce in spalla, avanzava a fatica verso il monte Calvario. A un certo punto, stremato, cadde di fronte a un salice. Tentò di rialzarsi afferrando il suo tronco, ma era talmente esausto che non ci riuscì. Il salice, allora, addolorato per la grande sofferenza di Gesù, piegò i rami fino a terra di modo che potesse aggrapparsi a loro. Il salice rimase nella stessa posizione anche quando il Signore proseguì il cammino. L’ albero, con le fronde che sfioravano il suolo, sembrava che piangesse (e certamente lo faceva). Da quel momento in poi, fu chiamato “salice piangente”.

 

 

Il pettirosso e il sangue di Cristo

Un uccellino che volava nei pressi del monte Calvario notò, un giorno, una scena raccapricciante: tre uomini stavano morendo sulla croce. Uno di essi era Gesù, talmente sofferente e sanguinante che mosse a compassione il volatile. Aveva il corpo ricoperto di ferite e una corona di spine che gli lacerava il capo. L’uccellino rimase impressionato: l’uomo, agonizzante, non riusciva quasi più neanche a respirare. Allora tentò di confortarlo e poi, servendosi del suo becco, iniziò ad estrarre le spine che gli si erano conficcate nella fronte. Mentre svolgeva questa operazione, il sangue versato da Cristo gli macchiò il collo e il petto. L’ uomo sembrava provare sollievo grazie all’ aiuto dell’uccellino, ma poco dopo esalò l’ultimo respiro. Le macchie di sangue, da allora, rimasero indelebili sul corpo dell’animale: in particolare quelle sul petto, le più vicine al cuore. La storia commovente che lo aveva visto protagonista insieme a Gesù valse all’uccellino il nome di “pettirosso”.

 

 

Gli apostoli e la melagrana

Lungo il cammino verso il Calvario, Gesù subiva il tormento della corona di spine e delle numerose ferite che gli dilaniavano il corpo. Uno degli apostoli, mentre lo seguiva a distanza senza farsi notare, raccoglieva i sassi dove cadevano le gocce del suo sangue e li racchiudeva in un sacchetto. Ma quando la sera volle mostrare ai compagni quel plasma benedetto, si accorse che al posto dei sassi c’era uno strano frutto: era polposo, pieno di chicchi dello stesso colore del sangue di Cristo. A quel frutto venne dato il nome di “melagrana”.

 

 

La Passione e la passiflora

Quando Gesù fu deposto dalla croce, una sua lacrima e alcune gocce del suo sangue caddero su una pianta non ancora sbocciata. In quell’ istante, i petali si dischiusero improvvisamente: le corolle dei fiori erano singolarissime, sembravano riprodurre i simboli della Passione. Potevano distinguersi forme e colori simili ai chiodi, al martello, alla corona di spine, alcuni degli strumenti utilizzati durante la crocifissione di Gesù. Il nome con cui fu battezzato quel fiore non è casuale. Si chiama “passiflora”, vale a dire “fiore della Passione”.

 

 

 

VALIUM accende le luminarie

Il primo weekend di Dicembre, puntualmente, VALIUM accende le luminarie. Perchè mai come nel periodo natalizio la luce riveste una valenza così speciale: diventa gioia, magia, condivisione. Le vie, le piazze, gli esterni delle case private e dei palazzi si ornano di bagliori multicolor che emanano una straordinaria aria di festa. Quando si tratta di luminarie, è pressochè impossibile optare per il minimalismo. Intermittenze e giochi cromatici sembrano essere la regola, coniugata con una massicia dose di sontuosità. La luce, d’altronde, possiede da sempre un potente valore simbolico e spirituale: Gesù nasce per portare luce nel mondo, è la luce che sconfigge le tenebre e che ci salva dalla morte. I luoghi sacri, non a caso, sono illuminati dal suggestivo baluginio delle candele. Quel chiarore esprime un profondo senso di devozione, lo stesso a cui si ispirano – su vasta scala e in modo decisamente più eclatante – le luminarie natalizie. La Festa con la F maiuscola, la festa per antonomasia, va onorata come merita: luci che si rincorrono, che lampeggiano, che riproducono l’ iconografia (sacra e profana) del Natale, accendono il buio creando un’ esplosione di sfarzosa giocosità. E l’ambiente circostante diventa subito un Paese delle Meraviglie

 

Foto n. 14 (dall’ alto) di HarshLight from San Jose, CA, USA, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons