“La Befana”, una poesia di Giovanni Pascoli

 

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! la circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.

Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello,
ed il gelo il suo pannello,
ed è il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.

 

 

E si accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare,
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.

Che c’è dentro questa villa?
Uno stropiccìo leggero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?

Guarda e guarda… tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda… ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini…

 

 

Coi suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Coi suoi doni mamma è scesa.

La Befana alla finestra
sente e vede, e si allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra:
trema ogni uscio, ogni finestra.

 

 

E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?

Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra le cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…

 

 

E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
Veglia e piange, piange e fila.

La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.

 

 

La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride:
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.

 

Cinque uccelli che cantano (anche) di notte e perchè lo fanno

 

Succede soprattutto in Primavera, e anche d’Estate. A notte fonda, quando non manca molto all’alba, gli uccelli iniziano a cantare dando vita a dei veri e propri gorgheggi corali. Molti di noi, da profani, attribuiscono il loro cinguettio alla gioia per l’arrivo della stagione calda: le cose, però, non stanno esattamente in questo modo. Innanzitutto c’è da dire che in città i volatili subiscono il disagio dell’inquinamento luminoso e acustico, per cui a tarda notte si sentono più liberi di vivere in armonia con l’ambiente che li circonda. E poi, i loro canti fanno parte del rituale di corteggiamento: non è un caso che le melodie provengano da esemplari di sesso maschile, che marcano il proprio territorio e cantano per attirare le femmine della specie. Prima si inizia a gorgheggiare, meglio è. Ogni specie di uccello, infatti, ha un suo orario caratteristico e anticiparlo significa surclassare un rivale; per fare un esempio, il codirosso spazzacamino comincia a cantare un’ora e mezzo prima che il sole sorga, mentre il merlo precede l’alba solo di un’ora. La cinciallegra e la capinera, invece, non iniziano che con la luce dell’aurora.

 

 

In questo periodo, in piena fase di riproduzione, gli uccelli emettono gorgheggi più che mai “sopra le righe”, elaborati e complessi. Naturalmente, si tratta di un modo per farsi notare dalle femmine. Oppure, le vocalizzazioni notturne permettono loro di comunicare con i compagni: per fargli sapere dove si trovano, ad esempio, o avvertirli della presenza di un predatore. Le specie che cantano anche di notte sono diverse: scopriamone cinque insieme.

 

L’usignolo (Luscinia megarhynchos)

 

Gli anglosassoni lo chiamano “nightingale”, un omaggio al suo canto notturno: l’usignolo, nelle ore buie, gorgheggia senza sosta soprattutto nel periodo della riproduzione. Il suo è un canto melodioso, raffinato, quasi ipnotico, che crea un’atmosfera incantata e mira ad attrarre le femmine della specie. Il canto dell’usignolo, infatti, è un potente strumento di seduzione; tant’è che di giorno i maschi gareggiano tra loro per affinare le proprie doti. Questo uccello della famiglia dei Muscicapidi vive essenzialmente nei boschi, dove è distinguibile anche grazie ai suoi inconfondibili gorgheggi.

 

Il pettirosso (Erithacus rubecula)

 

Il suo aspetto è inconfondibile, con quella chiazza arancione che esibisce frontalmente. Lo contraddistingue un gorgheggio che esordisce secco e ritmico diventando a poco a poco melodioso; ma il pettirosso è tanto dolce esteriormente quanto aggressivo a livello caratteriale: difende il suo territorio con tutta la tenacia possibile persino dalla compagna con cui si riproduce. Ed è proprio durante la stagione dell’amore che il suo canto si ascolta anche di notte. C’è da dire, inoltre, che questo uccello è particolarmente colpito dall’inquinamento acustico e preferisce gorgheggiare al buio per far sì che le femmine ascoltino meglio il suo richiamo.

 

Il merlo (Turdus merula)

 

E’ molto popolare, come d’altronde il pettirosso e l’usignolo. Famoso per la leggenda dei “giorni della merla” che lo vede protagonista in pieno Inverno, in Primavera e in Estate il merlo canta anche di notte. I  suoi gorgheggi sono vivaci, brevi e terminanti con un acuto; si esibisce in notturna durante la fase di riproduzione, e secondo alcuni esperti ciò è dovuto principalmente alla stimolazione dei lampioni: il merlo è un uccello altamente fotosensibile, e vivendo soprattutto nei parchi e nei giardini pare che la luce artificiale stimoli il suo desiderio di accoppiamento. L’inquinamento luminoso, quindi, avrebbe provocato squilibri nell’orologio biologico del Turdus merula spingendolo a scambiare la notte con il giorno.

 

Il succiacapre (Caprimulgus europaeus)

 

Si chiama così perchè secondo una leggenda secolare, che Plinio Il Vecchio riportò nella sua Historia Naturalis, il Caprimulgus Europaeus si cibava del latte delle capre, che poi rendeva cieche. Altre credenze lo associavano a particolari più lugubri, descrivendolo come un uccello che traeva il proprio nutrimento dal sangue del bestiame ed era legato a determinati riti di sepoltura. Ciò probabilmente dipendeva dal suo misterioso aspetto: il succiacapre si mimetizza alla perfezione con l’ambiente circostante e sembra dotato della virtù dell’invisibilità. E’ un uccello notturno e il suo canto, una sorta di ronzio che nelle fasi acute somiglia quasi ad un martello pneumatico, comincia al crepuscolo e si intensifica a notte fonda. Tra gli autori che lo hanno incluso nelle proprie opere letterarie troviamo Howard Phillips Lovecraft, che lo ha menzionato ne “L’orrore di Dunwich”, ma anche Stephen King e Cormac McCarthy: il succiacapre appare nei loro rispettivi romanzi “Jerusalem’s Lot” e “Figlio di Dio”.

 

L’assiolo (Otus scops)

 

E’ un rapace notturno appartenente alla famiglia degli Strigidi, come la civetta e il gufo. In Primavera e in Estate, nelle campagne il suo canto è una costante delle ore buie. Peraltro, non si fa fatica a riconoscerlo: può essere descritto come una nota acuta, monosillabica, ripetuta ad intervalli equidistanti. Al pari di molti altri uccelli, l’assiolo canta per difendere il territorio ed attrarre le femmine della sua specie. I gorghecci ipnotici che lo contraddistinguono rimandano alla notte e alla sua atmosfera sospesa; Giovanni Pascoli ne rimase affascinato al punto tale da dedicargli una poesia, “L’assiuolo”. L’assiolo comincia il suo canto al tramonto e prosegue fino all’alba. Curiosamente, dopo la mezzanotte le vocalizzazioni si interrompono per circa due ore. Un’altra curiosità? L’assiolo spesso duetta con la propria partner, che si distingue per l’intonazione più acuta e la cadenza meno regolare dei gorgheggi.

Foto via Pexels e Unsplash. Foto del succiacapre di Fabio Usvardi – www.italianwildlife.it, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

“Canzone di Marzo”, la poesia che Giovanni Pascoli dedica al terzo mese dell’anno

 

Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
su lunghe parole.

Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo.
Guizzavano, udendo l’estate,
le verdi cicigne tra il timo;
battevan la coda sul limo
le biscie acquaiole.

Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento:
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l’incantamento.
In sogno gettavano al vento
le loro pezzuole.

(Giovanni Pascoli)

 

10 Agosto, notte di San Lorenzo: la magia delle stelle cadenti tra astronomia e leggenda

 

A volte, di notte, dormivo con gli occhi aperti sotto un cielo gocciolante di stelle. Vivevo, allora.
(Albert Camus)

 

Avete già pensato ai desideri da esprimere stasera? Il grande momento è arrivato. 10 Agosto, notte di San Lorenzo: la notte delle stelle cadenti, uno degli appuntamenti più magici dell’estate. Quest’ anno potremo ammirare lo sciame delle meteore Perseidi tra il 10 e il 14 Agosto, anche se si prevede un picco tra il 12 e il 13 dalle ore 22 in poi. Pare che quella notte pioveranno dal cielo oltre 50 Perseidi l’ora! Conviene pensare immediatamente a una location per osservarle al meglio, e per calarsi appieno nella meraviglia di uno spettacolo cosmico che si rinnova di anno in anno. L’orario segnalato dagli esperti va dalle 22 alle 4 del mattino: in quel lasso di tempo, le stelle cadenti raggiungeranno l’apice della visibilità. L’evento si preannuncia persino più straordinario del solito. La pioggia di Perseidi incrocierà infatti lo sciame di altre meteore, le Delta Acquaridi, che vagano nel cielo già dal 12 Luglio. Ci aspettano, insomma, notti sfavillanti di stelle cadenti, un’autentica gioia per gli occhi e per lo spirito. Ma cosa sono le Perseidi, dette appunto “stelle cadenti” o anche “lacrime di San Lorenzo” in virtù di un’antica leggenda?  Lo scopriremo subito.

 

 

Bisogna innanzitutto partire dal fenomeno delle comete, corpi celesti composti di ghiaccio, polvere e gas che orbitano intorno al Sole seguendo interminabili percorsi. La cometa Swift-Tuttle è una di queste: nel tragitto che compie ogni 133 anni intorno al Sole, arriva a raggiungere la minima distanza (detta Perielio) dall’ astro infuocato. Ciò fa sì che il calore riversato dal Sole sulla sua superficie provochi il disgelo del ghiaccio di cui la cometa è composta. I detriti originati dallo scioglimento, di conseguenza, vanno ad allinearsi sulla sua orbita formando un’infinita scia. Quando il nostro pianeta la attraversa (un evento annuale che si verifica dal 17 Luglio al 24 Agosto), l’impatto dei detriti con l’atmosfera terrestre dà vita a uno spettacolo mozzafiato: i detriti, che viaggiano alla velocità lampo di 200.000 km/h, si frantumano in scie infuocate risplendenti nella notte. Queste meteore, le Perseidi, sfrecciano nel cielo l’una dopo l’altra, e si infittiscono in modo direttamente proporzionale al numero dei detriti con cui la Terra viene a contatto. Se i detriti sono abbondanti, si avrà una vera e propria pioggia di meteore. Ma attenzione: esiste anche la possibilità di osservare la discesa dei bolidi, lunghe scie incandescenti che solcano il cielo con suggestiva lentezza.

 

 

E’ davvero meraviglioso che il cosmo continui a offrirci dei simili spettacoli: in un mondo sempre più avaro di bellezza, la natura rimane l’unica vera dispensatrice di tale dono. Dove ammirare, quindi, la magia delle stelle cadenti? In primis, è essenziale individuare un’ampia “porzione” di cielo buio e non invaso da alcun tipo di luce artificiale. No ai lampioni, all’illuminazione metropolitana, alle insegne al neon. L’ideale sarebbe spostarsi in aperta campagna, in montagna, davanti al mare, oppure – dovendo rimanere in città – in un grande parco. Dopo aver individuato la location, bisogna attendere una ventina di minuti affinchè gli occhi si abituino all’oscurità; in questo modo, le stelle cadenti saranno perfettamente visibili. E’ essenziale, poi, munirsi di pazienza e abbandonarsi a un completo relax: potrebbe passare un buon lasso di tempo tra la discesa di un gruppo di meteore e quello successivo. Per individuare l’esatto punto da cui “piovono” le Perseidi, basta volgere lo sguardo a Nord-Est. Tale punto (detto Radiante) è identificabile nella Costellazione di Perseo, ben nitida nel cielo a partire da mezzanotte. La si può rintracciare proprio sotto la Costellazione di Cassiopea, contraddistinta dalla forma di una “W”.

 

 

Al di là dell’ aspetto scientifico, il fascino delle stelle cadenti è sempre stato alimentato da una nota leggenda: il fatto che appaiano il 10 Agosto, data del martirio di San Lorenzo, non è casuale. Nel 258, l’imperatore Valeriano emanò un editto che decretava la condanna a morte di tutti i vescovi, i diaconi e i presbiteri. San Lorenzo, allora Arcidiacono della Chiesa di Roma, subì uno dei supplizi più terribili: quello dei carboni ardenti. Alcune testimonianze dell’ epoca riportano che fu martirizzato su una graticola, uno strumento messo successivamente in dubbio ma rimasto, a tutt’oggi, a simboleggiare il Santo. La leggenda vuole che le Perseidi, con il loro sciame infuocato, rappresentino l’ emblema dei carboni ardenti o le lacrime versate dal cielo per il martirio di San Lorenzo: Giovanni Pascoli avvalorò questa tesi nei versi di una sua celebre poesia, “X Agosto”, che pubblicò nel 1896.

(Immagini via Pixabay )

 

Il maggiociondolo, uno sfarzoso tripudio di fiori gialli tra leggende e tradizioni

 

Fiorisce a Maggio, come suggerisce il suo nome. E se vi è capitato di vederlo, potete star certi non lo dimenticherete: i suoi grappoli di fiori gialli pendono dai rami come una rigogliosa cascata. La somiglianza con quelli del glicine è evidente. A differenziarli è il colore, un giallo brillante che cattura lo sguardo e lo riempie di meraviglia. La pianta di cui sto parlando è il maggiociondolo (nome botanico Laburnum anagyroides), un piccolo albero che appartiene alla famiglia delle Fabacee. La sua altezza è compresa tra i 4 e i 6 metri e sfoggia grappoli del colore del sole che raggiungono i 25 cm di lunghezza. I fiori, profumatissimi, ciondolano dai rami ad ogni alito di vento: da qui il nome “maggiociondolo”.

 

 

Il legno del tronco è molto scuro e super resistente. I frutti dell’ albero si presentano come baccelli contenenti innumerevoli semi neri, ma nascondono un’insidia: sono ricchi di citisina (un alcaloide), il che significa che sono estremamente velenosi per l’uomo e per alcune specie animali. La brutta notizia è che del maggiociondolo non risultano velenosi solo i semi. Quest’ albero, infatti, è velenoso nella sua interezza. “Guardare e non toccare” potrebbe essere il motto che lo rappresenta. Gli animali a maggior rischio avvelenamento sono i cavalli, le capre, le mucche: se queste ultime brucano i rami della pianta, c’è il pericolo che la tossicità si trasmetta finanche nel loro latte. I semi sono particolarmente letali, soprattutto se non ancora maturi. Ci si può intossicare anche ingerendo un solo seme, e consumandone molti si mette a rischio la propria vita. Misteriosamente, tuttavia, animali selvatici quali le lepri, i cervi e i conigli si nutrono dei semi del maggiociondolo senza incorrere in spiacevoli conseguenze: è uno dei motivi per cui questa pianta viene considerata magica sin da tempi remotissimi. Ed è proprio in virtù di ciò che vi parlo del maggiociondolo, un albero altamente simbolico, associato a molteplici leggende e a secolari tradizioni, nello specifico quelle della notte di San Giovanni.

 

 

Il Laburnum cresce nelle zone temperate ed è diffuso principalmente nell’ Europa del Sud: l’area sudorientale della Francia, catene montuose come le Alpi e gli Appennini, i rilievi della Penisola Balcanica. L’habitat in cui si sviluppa è il bosco. Il legno scurissimo e solido del maggiociondolo, che negli esemplari anziani accentua queste sue caratteristiche, è valso alla pianta l’appellativo di “falso ebano”, poichè può sostituirlo perfettamente.  Antiche leggende ricollegano l’albero alla figura delle streghe: pare che, nel Medioevo, si servissero dei suoi semi per la preparazione di elisir e pozioni magiche, mentre durante i Sabba erano solite cavalcare bastoni ricavati dal suo legno. Ma il maggiociondolo non è un albero che rimanda unicamente a connotazioni “malefiche”. I riti della notte di San Giovanni, ad esempio, prevedevano che venissero accesi dei falò con i rami di sette alberi, tra cui, appunto, il maggiociondolo. I falò ardevano con valenza purificatoria, in omaggio al sole e per alimentare l’energia interiore. Tale usanza persiste in molte aree geografiche.

 

 

Tornando alle streghe, vale la pena di approfondire alcuni aspetti del loro utilizzo del maggiociondolo. Le pozioni che preparavano con i componenti dell’albero sortivano effetti psicotropi: “liberavano” dal peso del corpo, davano l’illusione di poter levitare nell’aria. Lo scopo era quello di alterare lo stato di coscienza per esplorare nuove dimensioni. Questa pratica, chiamato “volo della strega”, veniva effettuata nel corso dei raduni. Il bastone di maggiociondolo utilizzato durante il sabba, invece, era un palese simbolo fallico, ma anche una sorta di strumento di riconoscimento che decretava lo status di strega. Simboleggiava inoltre il volo, il trionfo nei confronti della materia e delle costrizioni corporali. Pare che proprio da tale tipo di verga nacque la leggenda della “scopa volante”: per sfuggire agli inquisitori, le streghe usavano cammuffare i loro bastoni tra mazzi di saggina. Davano così l’impressione di essere delle normalissime scope.

 

 

In tempi remoti, il maggiociondolo era chiamato anche “pioggia d’oro” per la teatralità dei suoi grappoli fioriti. La chioma dell’ albero, un tripudio sfarzoso di giallo, è stata celebrata da poeti e letterati. Il poeta inglese Francis Thompson, in un suo componimento, definisce il maggiociondolo “miele di fiamme selvagge”. J.R.R. Tolkien, l’autore de “Il Signore degli Anelli”, inserisce la pianta nell’ opera mitologica “Il Silmarillon” e lo identifica con Laurelin, l’Albero d’Oro della terra primordiale di Valinor. Anche Sylvia Plath cita spesso il maggiociondolo nei suoi versi; la poesia “The arrival of the bee box” recita: “C’è il laburno, con i suoi biondi colonnati,/E le gonnelle del ciliegio”. Persino Giovanni Pascoli lo nomina ne “La capinera”.

 

 

Per concludere, una leggenda che fa riferimento al territorio abruzzese. Si narra che la Frigia, una remota regione situata in Asia Minore, fosse popolata da guerriere gigantesse chiamate “Majellane”. Maja, una di loro, ebbe un figlio da Giove che partorì in Arcadia, sulle alture del Monte Cillene. Hermes – così fu battezzato il bambino – divenne un giovane di bellissimo aspetto e imponente come sua madre. Un giorno, dopo che rimase ferito durante una terribile battaglia, Maja lo condusse in un luogo dove proliferavano erbe officinali di ogni genere: il Monte Paleno, nell’attuale Abruzzo.  Purtroppo, però, quando raggiunsero il Monte si accorsero che era completamente ricoperto di neve e per Maja risultò impossibile procurarsi la pianta di cui era in cerca. Hermes morì e sua madre cadde nella disperazione più totale. Il pianto della gigantessa risuonò tra le valli del massiccio montuoso per un anno intero, dopodichè fu stroncata dal dolore. Sceso sul Monte, Giove provò un’enorme sofferenza nel constatare che Maja era morta. In suo ricordo, allora,  creò il maggiociondolo, un alberello che “esplodeva” di fiori gialli, e le dedicò il mese di Maggio (poichè era il mese della fioritura). Sebbene non fosse più in vita, Giove elevò la madre di Hermes a ninfa delle selve e delle sorgenti del Monte. Ordinò che il Paleno fosse ribattezzato Monte Majella, un nome che onorava la memoria di Maja, e stabilì che sarebbe diventato il tempio eterno della donna che aveva amato suo figlio di un amore così profondo.