Florigrafia: i fiori e il loro intrigante linguaggio

 

Che anche i fiori parlino, è risaputo. Il noto slogan “Ditelo con i fiori”, a tal proposito, è indicativo: ogni fiore veicola un messaggio, comunica qualcosa. Si associa, cioè, a un determinato significato simbolico. E attraverso la florigrafia, una disciplina diffusissima nell’ Ottocento, può sostituire le parole tramite l’accezione che viene data al suo colore e alla sua specie. I fiori sono stati collegati a specifici concetti sin dall’ epoca dell’antica Roma: esistevano tipologie di fiori con cui onorare le divinità, allontanare la sfortuna e propiziare la buona sorte. Durante il Medioevo e il Rinascimento, quella consuetudine andò evolvendosi e cominciò a identificarsi con nozioni morali da attribuire a ogni pianta. Il linguaggio dei fiori così come lo conosciamo oggi è stato introdotto in Europa da Mary Wortley Montagu, la consorte dell’ ambasciatore britannico a Costantinopoli. In alcune sue lettere date alle stampe nel 1763, Lady Mary Wortley Montagu raccontava di una tradizione turca denominata “selam”: i turchi, infatti, erano soliti associare una valenza emblematica a svariati fiori e frutti e agli arnesi più disparati. Ciò ha suscitato un immediato interesse nei confronti della suddetta usanza, che nell’età vittoriana ha conosciuto un vero e proprio boom.

 

 

Il linguaggio dei fiori, detto florigrafia, all’epoca iniziava ad essere legato ai sentimenti. Nell’Ottocento hanno cominciato a propagarsi i “flower books”, libri specificamente dedicati a quella disciplina, la cui grafica era un capolavoro di eleganza: incisioni, illustrazioni e litografie impreziosivano ogni pubblicazione, fornendo una sorta di validità scientifica alle convinzioni popolari che circondavano il mondo delle piante. In Europa era esplosa la passione per la florigrafia, e i libri a tema proliferavano letteralmente. Le opere più conosciute rimangono Abécédaire de flore, ou language des fleurs (1811) e Flowers: their Use and Beauty, in Language and Sentiment (1818), che hanno visto la luce rispettivamente in Francia e in Inghilterra. Il volume che ha però raggiunto una fama straordinaria è Les Language des Fleurs di Charlotte de Latour, dato alle stampe nel 1819. Pare che il nome dell’autrice fosse l’alias di Louise Cortambert, moglie di un noto bibliotecario parigino. Del libro, ricco di litografie botaniche ad opera dell’artista Pancrace Bessa, sono state realizzate molteplici ristampe e il successo che ha riscosso è stato enorme.

 

 

Oggi, alla florigrafia non si guarda più con molto interesse. Il linguaggio dei fiori è una disciplina conosciuta solo da pochi esperti. Eppure, soprattutto al momento di regalare un bouquet floreale, parecchi di noi si pongono il quesito del significato di quei fiori: alcuni sono piuttosto noti, altri meno, ma di solito un fioraio è in grado di fugare i nostri dubbi. Le rose, ad esempio, rimangono il fiore più ricco di significati simbolici. In molti sappiamo che la rosa rossa è un emblema di passione, la rosa rosa di amicizia e soavità, la rosa gialla di gelosia e quella bianca di purezza. Del significato di tantissimi altri fiori, invece, purtroppo non tutti sono a conoscenza. Ne cito qualcuno in ordine sparso: la lavanda indica sfiducia, il girasole solarità, il narciso amore non corrisposto, il myosotis (comunemente noto come nontiscordardime) vero amore, il bucaneve speranza, l’orchidea completa dedizione amorosa e il glicine amicizia. Sarebbe bello ricominciare ad appropriarsi delle valenze che si associano a ogni fiore, e iniziare a comunicare attraverso il linguaggio dei fiori tutte le volte che vogliamo: i messaggi sottili e raffinati che la florigrafia veicola risulterebbero, senza dubbio, molto più intriganti di qualsiasi contatto via web.

 

Illustrazioni via Pixabay

 

Virginia Frances Sterrett: il talento di un’illustratrice da mille e una notte

Da “Arabian Nights” (1928)

Non conoscevo ancora la sua arte, ma proprio ieri, mentre cercavo un’immagine da abbinare all’estratto da “Le Mille e una Notte”, mi sono imbattuta in una delle sue illustrazioni: è stato amore a prima vista. Virginia Frances Sterrett, nata a Chicago nel 1900, si è imposta come una delle più grandi illustratrici del suo tempo. Eppure ha avuto una vita breve, è morta a soli 31 anni a causa della tubercolosi, e il destino l’ha messa alla prova duramente sin dall’infanzia. Dopo aver perso il padre, si trasferì in Missouri insieme alla famiglia. Ma non si trattò di un trasferimento di lunga durata: nel 1915 era di nuovo a Chicago, dove frequentò il liceo e potè iscriversi subito dopo alla School of the Art Institute grazie a una borsa di studio. Frequentava la Scuola da circa un anno quando sua madre si ammalò gravemente e fu costretta ad abbandonare gli studi. Cercò lavoro per sostentare la famiglia e lo trovò in un’agenzia pubblicitaria, ma ottenne anche un importante incarico: la Penn Publishing Company le commissionò una serie di illustrazioni per il volume “Old French Fairy Tales”, la raccolta di fiabe della Contessa di Ségur. Era il 1920, e Virginia Frances Sterrett si affermò immediatamente come uno dei talenti più abbaglianti dell’arte dell’illustrazione. La tubercolosi, all’epoca, le era stata già diagnosticata. L’anno successivo, la stessa casa editrice le chiese di illustrare “Tanglewood Tales”, un libro in cui l’autore statunitense Nathaniel Hawthorne rielaborava noti miti greci ad uso e consumo dei bambini. Nel 1923 fu la volta di “Arabian Nights” (“Le Mille e una Notte”), l’affascinante antologia di racconti risalenti all’età dell’oro islamica: questo lavoro, che Virginia realizzò mentre la tisi le stava minando la salute completamente, la rese celebre. Le illustrazioni che creò per il volume stupirono il pubblico e gli addetti ai lavori con il loro immenso fascino. I paesaggi, i luoghi e i personaggi sono impregnati di magia, di uno straordinario esotismo. Virginia Frances Sterrett non aveva mai avuto l’opportunità di visitare quelle terre lontane; paesi quali l’ Egitto, la Mesopotamia, la Persia, l’India, la Cina, rivivono nella sua fantasia come evocati da un sogno. “Arabian Nights” fu pubblicato nel 1928 e le tavole a colori dell’ illustratrice di Chicago vennero giudicate un vero e proprio cavolavoro. Tra il 1929 e il 1930, approfittando di un lieve miglioramento delle sue condizioni di salute, Virginia Frances Sterrett si trasferì in California, dove partecipò a svariati concorsi artistici e iniziò ad illustrare la raccolta “Myths and Legends”, un libro che non vide mai la luce: l’8 Giugno del 1931 Virginia morì, stroncata dalla tubercolosi.

 

Illustrazioni tratte da “Old French Fairy Tales” (1920)

 

Illustrazioni tratte da “Tanglewood Tales” (1921)

 

Illustrazioni tratte da “Arabian Nights” (1928)

 

Tutte le immagini by Virginia Frances Sterrett, Public Domain, via Wikimedia Commons

 

Il libro di fiabe

 

” Quando la mamma tira fuori l’ultimo pacchetto dalla cesta, capisco dalla forma che si tratta di un libro. Ma non è per me. Devono evidentemente aver deciso che questa volta mi tocca farne senza. E invece il pacchetto è proprio destinato a me e, quando lo prendo in mano, ho l’assoluta certezza che si tratti di un libro. Divento rossa di gioia e lancio quasi un grido nell’impazienza di farmi passare le forbici e tagliare i nastri. Strappo la carta con foga ed eccomi davanti agli occhi il più bel libro del mondo, un libro di fiabe. È quello che arrivo a capire dalla figura della copertina. Sento che tutti intorno al tavolo mi guardano. Sanno benissimo che questo è il mio più bel regalo, l’unico che mi rende davvero felice. “Che libro hai ricevuto?” chiede Daniel allungandosi verso di me. Lo apro e resto lì a fissare il frontespizio a bocca aperta. Non capisco una parola. “Fammi vedere!” dice, e legge: “Nouveaux contes de fées pour les petits enfants par Madame la Comtesse de Ségur.” Daniel chiude il libro e me lo restituisce. “È un libro di fiabe in francese”, commenta. “Avrai di che divertirti.” Ho preso lezioni di francese da Aline Laurell per sei mesi, ma sfogliando le pagine del libro mi rendo conto che non capisco niente. Ricevere un libro in francese è quasi peggio che non riceverne neanche uno. Faccio fatica trattenere le lacrime. Ma per fortuna mi cade l’occhio su una delle figure. La più incantevole principessina del mondo viaggia in una carrozza tirata da due struzzi e, a cavallo di uno dei due struzzi, c’è un paggetto in alta livrea con lo stemma ricamato e le piume sul cappello. La principessina ha le maniche a sbuffo e una sontuosa gorgiera. Gli struzzi hanno in testa alti pennacchi e le redini sono ornate di grosse catene d’oro. Non si può immaginare niente di più bello. Man mano che sfoglio, trovo un vero e proprio tesoro di illustrazioni, altere principesse, re maestosi, nobili cavalieri, fate raggianti, orribili streghe, meravigliosi castelli fatati. No, non è un libro per cui piangere, anche se è in francese. Per tutta la notte di Natale me ne sto sdraiata a guardare le figure, soprattutto la prima, con gli struzzi. Mi basta quella per passarci ore. Il giorno di Natale, dopo la messa di primo mattino, tiro fuori un dizionario di francese e mi lancio nella lettura. È difficile. L’ho studiato solo con il metodo Grönlund. (…) Il libro inizia così: Il y avait un roi. Cosa mai vorrà dire? Mi ci vuole quasi un’ora per arrivare a capire che va tradotto: “C’era una volta un re.” Ma le figure mi affascinano. Devo capire cosa rappresentano. Provo a indovinare, cerco nel dizionario e, riga per riga, vado avanti. E alla fine delle vacanze di Natale, quel meraviglioso libretto mi ha insegnato più francese di quanto ne avrei mai potuto imparare in tanti anni di metodo Aline Laurell e Grönlund. “

Selma Lagerlof, da “Il libro di Natale”

 

 

Omaggio ad Arthur Rackham, illustratore di fiabe ma non solo

 

“Fabula Docet”

(Esopo)

 

Le illustrazioni delle fiabe hanno un ruolo importantissimo: aggiungono pathos e coinvolgimento a un genere altamente evocativo già di per sè. Prova ne è il fatto che quasi mai, neppure dopo anni, riusciamo a dimenticare le immagini associate alle fiabe della nostra infanzia. Ricordiamo con esattezza il libro da cui erano tratte, la copertina, i disegni che accompagnavano il testo. E insieme a tutto questo, lo stile dell’ illustratore. Perchè – fateci caso – non esistono due disegnatori che abbiano un tratto simile; ognuno vanta caratteristiche del tutto proprie e inconfondibili. Partendo da un simile presupposto, viene spontaneo approfondire l’ iconografia fiabesca di un’epoca in cui l’ interesse per il racconto fantastico (sia a livello filologico che simbolico, morale e artistico) raggiunse il suo culmine: l’età vittoriana. A quei tempi, Arthur Rackham si affermò come nome di punta dell’ illustrazione. Nato nel quartiere londinese di Lambeth nel 1867, Rackham crebbe in una casa di fronte al giardino botanico creato da John Tradescant il Vecchio e il Giovane due secoli prima: uno scenario ideale per il piccolo Arthur, che eccellendo nel disegno si dilettava a riprodurre i dettagli del corpo umano e i reperti esposti al British Museum e al Museo di Storia Naturale di Londra. Nel frattempo si era iscritto alla City of London School, dove i suoi elaborati artistici gli valsero svariati premi. Ma a scuola non rimase a lungo. A 16 anni fu costretto ad abbandonarla in seguito a dei problemi di salute, e decise di imbarcarsi per l’ Australia insieme alle sue zie.  Durante il viaggio non fece altro che disegnare, adorava immortalare tutto ciò che lo colpiva della realtà circostante. Tornato a Londra, all’ età di 18 anni pensò di ripetere l’ esperienza scolastica: iniziò a frequentare la Lambeth School of Art e, parallelamente, a lavorare come addetto alle vendite. Il suo talento per il disegno, in quel periodo, gli fruttò le prime collaborazioni nel campo dell’ illustrazione. Debuttò nelle vesti di freelance, e dopo un anno fu assunto dal Westminster Budget nel doppio ruolo di giornalista e illustratore. Era il 1892. Nel 1893 uscì “To the Other Side” di Thomas Rhodes, il primo libro che conteneva le sue immagini, mentre nel 1894 i lavori di Rackham apparvero in “The Dolly Dialogues” e “The Prisoner of Zenda” di Anthony Hope.

 

 

L’ attività di Arthur Rackham si svolse sempre all’ insegna dell’ eclettismo: oltre alle fiabe, illustrò romanzi per adulti e per ragazzi. Le sue opere, citando qualche titolo esemplificativo, impreziosiscono libri come “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, “Canto di Natale” di Charles Dickens, “Peter Pan nei Giardini di Kensington” di James Barrie, raccolte di fiabe di Esopo, di Hans Christian Andersen e dei Fratelli Grimm, ma anche volumi immaginifici del calibro di “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, “Sigfrido e il crepuscolo degli dei” di Richard Wagner, “Il re del fiume dorato” di John Ruskin, “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare. Solo la morte, sopravvenuta nel 1939 a causa di un male incurabile, interruppe la carriera di Rackham, che venne più volte omaggiato con premi e mostre (tra i quali ricordiamo una medaglia d’oro all’ Esposizione Internazionale di Milano del 1906 e un’ esposizione al Museo del Louvre nel 1914). Lo stile del grande illustratore rimane inimitabile: l’ impronta dell’ Art Nouveau è palese, accentuata da atmosfere oniriche ad alto tasso di magnetismo. Il colore riveste una funzione predominante, evoca e suggerisce, si sfuma in magici giochi cromatici o esalta dettagli conferendo loro un impatto visivo straordinario. Scenari, cose e personaggi sono tratteggiati con linee di contorno accuratissime, la fantasia che impregna le illustrazioni stimola potentemente l’ immaginazione del lettore. Tra gli artisti che ispirarono Rackham figurano nomi quali quello di John Tenniel, Aubrey Beardsley e Albrecht Durer. Il successo ottenuto dal disegnatore fu tale da sedurre persino la Disney, che assurse il suo stile a punto di riferimento quando, nel 1937, realizzò il film d’animazione “Biancaneve e i sette nani”.

 

 

Il fiabesco universo di Paolo Domeniconi

Gli Auguri di Buone Feste di Paolo Domeniconi

VALIUM ha celebrato molto spesso le atmosfere che impregnano le festività natalizie. La voglia di fiaba, di magia, di un ritorno all’ infanzia per riscoprire la meraviglia delle cose, sono il fil rouge di settimane che ogni anno si concludono con l’arrivo della Befana. E il tema della fiaba torna anche oggi, di certo senza risultare ridondante: le illustrazioni che vedete qui di seguito ne sono una prova. Si tratta di un bestiario incantato, dalle dimensioni enormi, calato in paesaggi onirici e fatati. Neve, stelle, fitti boschi, ninfee galleggianti predominano, facendo da sfondo a quei giganteschi animali e ai bambini che li affiancano di frequente. E’ questo, il poetico universo di Paolo Domeniconi. Un universo fatto di immagini che tutto il mondo conosce e apprezza: basta osservare il numero delle loro condivisioni sui social. Sono gli anni ’90 quando Domeniconi debutta nella pubblicità: si occupa di campagne, packaging e grafica. Successivamente, rimane conquistato dalla letteratura per l’ infanzia e comincia ad illustrare le fiabe più celebri. A tutt’oggi oltre 40 libri – senza contare le raccolte di fiabe, i volumi scolastici e le copertine – includono le sue iconiche illustrazioni; vanta collaborazioni con case editrici del calibro di Grimm Press, Mondadori, Houghton Mifflin Harcourt, The Creative Company (solo per citarne alcune), e i suoi lavori sono presenti, oltre che in Italia, in paesi come  gli Stati Uniti, la Spagna, il Regno Unito, la Cina, la Corea e Taiwan. Per saperne di più sull’ immaginario sognante e fantastico di Paolo Domeniconi, ho pensato di rivolgergli alcune domande.

Cominciamo dai suoi studi. Si è focalizzato sin dall’ inizio sul mondo della grafica e dell’illustrazione?

Quando mi sono trovato a dover scegliere un indirizzo di studi non ero ancora in grado di fare la scelta giusta. Ho passato un anno piuttosto spaesato in un istituto tecnico. Non ci ho messo tanto a rendermi conto di essere fuori strada e sono quindi ripartito da zero in un istituto d’arte.

 

Paolo Domeniconi circondato da alcuni dei libri che ha illustrato

Com’è nata questa sua passione?

Inizia nell’infanzia, è un approccio alle cose che mi ha sempre portato a fare stranezze rispetto alla maggior parte dei miei coetanei, a vivere in un mondo a parte, in un certo senso. A 10 anni passavo ore a fare disegni animati e stop-motion col vecchio 8mm, hackeravo cineprese, pellicole, organi elettronici, un armamentario di strumenti creativi che oggi un bambino può trovare in un tablet. Col tempo mi sono sempre più focalizzato sul disegno cominciando a vagheggiare, chissà in che modo, che un giorno potesse diventare il mio lavoro.

 

 

Nei primi anni ’90 si è dedicato alla pubblicità e al visual merchandising, occupandosi anche di stampe e di packaging. Quanto è determinante, a suo parere, la comunicazione visiva di un prodotto e in che percentuale riesce ad orientare i gusti del pubblico?

L’immagine è tutto. Il “pubblico” mi sembra piuttosto acritico nei confronti della comunicazione ma devo ammettere che ormai questi temi mi appassionano poco.

 

 

Esistono dei motivi grafici che a quell’ epoca prediligeva utilizzare?

Il mio era comunque un lavoro da illustratore o da visualizer. Si lavorava tanto sul packaging di prodotti alimentari e si trattava di rendere accattivanti le immagini del prodotto, la fragranza di una merendina come la freschezza di uno yogurt alle fragole. Photoshop era ancora poco usato e toccava a noi illustratori trovare il lato glamour in un mazzo di spinaci. Fortunatamente qualche volta l’immagine aveva una funzione più evocativa o addirittura metaforica, erano i tempi in cui giravano le immagini di Folon e di alcuni illustratori americani che hanno caratterizzato fortemente la comunicazione istituzionale, Brad Holland, per esempio.

Com’è avvenuto il suo passaggio all’illustrazione di libri per bambini come le fiabe?

Per tanti motivi mi sentivo sempre più fuori posto in quell’ambiente e in generale la pubblicità non mi interessava più. In quegli anni mi ero riappassionato alla lettura e un po’ per gioco inventavo copertine immaginarie, studiandomi tecniche e stili diversi. Alla Children’s Book Fair di Bologna ho toccato con mano le meraviglie che si pubblicavano all’estero e alla fine ho deciso di rimettermi in gioco. Ho seguito quattro corsi brevi ma intensi nelle due migliori scuole di illustrazione e nell’arco di qualche anno sono passato gradualmente dalla pubblicità all’editoria.

 

 

In questo settore ha lavorato per case editrici di tutto il mondo. Da quanto ha potuto riscontrare, è un universo che conosce diverse sfumature a seconda della latitudine e delle culture o piuttosto omogeneo nell’ intero pianeta?

Il linguaggio del libro illustrato può essere molto diverso da un paese all’altro. Cambiano i contenuti, lo stile grafico, la scelta di un certo tipo di illustrazione piuttosto che altri. Ciononostante, alcuni libri particolarmente riusciti vengono tradotti in tante lingue e fanno il giro del mondo. Un dato positivo per gli editori italiani è che le vendite dei diritti per la pubblicazione all’estero sono in aumento.

Cosa la affascina, del mondo delle fiabe?

Forse il fatto stesso che raccontandoci le fiabe siamo vicini, ci riconosciamo. Contengono elementi così universali e archetipici che creano un grande momento di empatia tra le persone, adulti o bambini che siano.

 

 

Uno dei leitmotiv delle sue illustrazioni sono gli animali umanizzati, i bambini e soprattutto la notte, intesa – credo – come parentesi magica e del sogno…Potrebbe approfondire per noi questi temi?

Le favole ci hanno abituati alla presenza degli animali antropomorfi nelle illustrazioni. Maestri come Wolf Erlbruch li hanno introdotti anche in contesti più contemporanei e nelle storie del quotidiano, io copio un po’ da lì. L’effetto è di spaesamento surreale, a volte divertente perché vediamo nell’animale aspetti caricaturali dell’umano. In un altro tipo di illustrazione (e di narrazione) più vicina al “fiabesco”, mi interessa l’animale come portatore di mistero, contatto con una natura inconoscibile. Detesto il magico della letteratura fantasy e allo stesso tempo il documentarismo che si interessa solo alla meccanica dei comportamenti animali. Cerco lo stupore di chi ancora sta scoprendo il mondo, per questo i miei bambini si ritrovano spesso in atmosfere notturne, tra sogno e realtà.

 

 

I suoi progetti più imminenti sono top secret o potrebbe darci qualche anticipazione al riguardo?

Posso dire che sto lavorando per un editore russo su un albo illustrato molto impegnativo. Si tratta di una fiaba classica molto nota in Russia ma praticamente sconosciuta da noi. Qualche copertina di romanzi per ragazzi e a seguire tornerò finalmente a pubblicare in Italia con tre titoli di autori contemporanei.

 

 

Qual è il sogno più grande che – professionalmente parlando – vorrebbe ancora realizzare o che ha già realizzato?

Ho tante cose da imparare ancora. Ogni nuovo libro è per me quasi un ripartire da capo e costituisce la più grande sfida in quel particolare momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

Merry Vintage Christmas

 

Natale non è Natale, senza un tocco vintage. La stessa iconografia di questa festa rimanda ad un passato divenuto mitico: il focolare acceso, Babbo Natale e la sua slitta di renne, le fiabe lette davanti al camino…quell’ atmosfera magica che tra luci, addobbi e pacchi regalo trasporta in una dimensione dove realtà e fantasia si intrecciano e le tradizioni si fondono con leggende che, in questo periodo, potrebbero persino risultare veritiere. Oggi, tra social e tecnologia padroneggiata a menadito, i bambini subiscono sempre di meno la fascinazione del Natale. Lo spirito a cui si associava un tempo, intriso di meraviglia e di stupore, però non è andato perso: lo testimoniano le cartoline di auguri d’antan ormai tramutatesi in preziosi oggetti da collezione. La prima ad uso commerciale apparve nel 1843, quando il businessman inglese Henry Cole commissionò ad un disegnatore 1000 Christmas Card da far stampare e da inviare ai propri cari.

 

 

Fu proprio durante l’età vittoriana che le cartoline natalizie conobbero un vero e proprio boom, propagatosi ulteriormente con lo sviluppo dell’ industrializzazione. All’ epoca soggetti come Babbo Natale, gli angeli, l’albero di Natale, i paesaggi innevati e soprattutto un’ infanzia felice, unita nell’ incantata attesa della vigilia, predominano, ma le illustrazioni variano anche a seconda delle tradizioni locali. Nel mondo anglossasone, dove i cardini delle festività natalizie si intersecano più marcatamente con la leggenda, prevalgono immagini e personaggi fantasiosi, come usciti da una fiaba. Ma in generale la gioia, la sorpresa e un pizzico di enigmaticità, probabilmente scaturita dal mistero che aleggia sul Natale, la fanno da padrone. Nella seconda metà dell’ Ottocento, la voga delle Christmas Card approda oltreoceano e spedire i propri auguri diventa un must al punto tale che i postini faticano a recapitare la copiosa corrispondenza. La Germania detiene allora la supremazia nella produzione di cartoline natalizie, che esporta negli States in quantità industriali. Solo nel 1915, con l’avvento sul mercato della Hallmark, le Christmas Card diventano una realtà in tutto e per tutto Made in USA.

 

 

Oltre un secolo dopo, il panorama degli auguri natalizi è completamente cambiato. L’ era di Internet e delle comunicazioni via e-mail o messaggistica, tuttavia, non ha relegato nel dimenticatoio le cartoline: saranno antichi reperti, testimonianze di un’ epoca ormai lontana, però non cesseranno mai di affascinare. Perchè possiedono lo straordinario atout di rappresentare la quintessenza del Natale, ovvero quel mood, quello stato d’animo che poco ha a che fare con la tecnologia ma molto, moltissimo, con la fiaba.

 

 

 

Cartoline, dall’ alto verso il basso: eccetto le nn. 3, 7, 8, 9, 11, 14, 16, 18, 22, tutte via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

Cartolina n. 17 via Rawpixel from Flickr, CC BY 2.0