Antonio Marras, backstage beauty & hair PE 2024: un omaggio al mondo del cinema e al suo glamour

 

Era il 1968 quando il regista statunitense Joseph Losey approdò in Sardegna per girare “La scogliera dei desideri”: le location del film, situate prevalentemente nell’isola del mar Mediterraneo, comprendevano la baia di Porto Conte, Tavolara e l’Argentiera. Fu così che in terra sarda giunsero divi del calibro di Elizabeth Taylor e Richard Burton, una coppia che ha sempre incarnato l’essenza del glamour hollywoodiano. Antonio Marras aveva solo sette anni, all’epoca; tuttavia, grazie a quelle riprese, il fascino e l’insondabile magia del cinema sono rimasti perennemente impressi nell’immaginario dello stilista algherese. Ed è proprio il mondo del cinema ad aver ispirato la collezione che ha dedicato alla Primavera Estate 2024: un mondo che, per Antonio Marras, non ha mai cessato di emanare un potente appeal; prova ne è il fatto che abbia voluto in passerella la splendida Marisa Berenson nel ruolo della diva. Anche il beauty look e l’hairstyle della sfilata, naturalmente, erano un omaggio alla settima arte. Il make up artist Riccardo Morandin ha ideato un trucco intriso di reminiscenze anni ’60: ombretto azzurro in dosi massicce, ciglia finte a ciuffetti e labbra color nude per donare il massimo risalto allo sguardo. Davide Diodovich, Key Hair Stylist per Davines, ha abbinato al make up acconciature morbide, leggermente cotonate sul capo, riferite alla stessa epoca. Il risultato? Evocativo e visivamente impattante, in grado di suscitare un tripudio di emozioni. Proprio come il cinema

 

 

Sprofondare nel sogno

 

“Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c’è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perchè potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male. Per alcuni di noi le prime idee e immagini, le emozioni iniziali possono spingere chi scrive a immergersi automaticamente nel mondo del romanzo, nella trama e nell’ immaginario, nei suoi segreti. Altri possono metterci più tempo a sentire con chiarezza questa connessione, anni, perfino decenni, per arrivare a comprendere quanto avevano bisogno di scrivere un certo romanzo, o amare una certa persona, o rivivere quel sogno. L’ ultima volta in cui avevo pensato a questo libro, a questo specifico sogno, e a raccontare questa specifica versione della storia (…) risale a quasi vent’anni fa, quando mi dissi che potevo farcela a rivelare quanto era accaduto a me e ad alcuni miei amici all’inizio del nostro ultimo anno alla Buckley, nel 1981. Eravamo adolescenti, bambini superficialmente sofisticati, che non sapevano davvero nulla di come funzionava il mondo – lo stavamo sperimentando, immagino, ma senza averne cognizione. Almeno fino a quando non accadde qualcosa che ci proiettò in uno stato di esaltata consapevolezza. (…) Ma venne fuori che non era ancora il momento, e dopo aver scritto alcune pagine di appunti sui fatti accaduti in quell’ autunno del 1981, quando credevo di essermi anestetizzato con una mezza bottiglia di Ocho così da andare avanti, lasciando che la tequila mi calmasse il tremore delle mani, fui preda di un attacco d’ansia tanto forte da farmi finire in piena notte al pronto soccorso del Cedars-Sinai. Se vogliamo associare l’atto di scrivere alla relazione amorosa, allora mettiamola così: avevo desiderato di fare l’amore con questo romanzo che infine sembrava volermisi concedere e ne ero molto tentato, ma quando arrivò il momento di consumare la relazione scoprii che non ero in grado di sprofondare nel sogno. “

Bret Easton Ellis, da “Le schegge” (Giulio Einaudi Editore)

 

 

Il fiabesco universo di Paolo Domeniconi

Gli Auguri di Buone Feste di Paolo Domeniconi

VALIUM ha celebrato molto spesso le atmosfere che impregnano le festività natalizie. La voglia di fiaba, di magia, di un ritorno all’ infanzia per riscoprire la meraviglia delle cose, sono il fil rouge di settimane che ogni anno si concludono con l’arrivo della Befana. E il tema della fiaba torna anche oggi, di certo senza risultare ridondante: le illustrazioni che vedete qui di seguito ne sono una prova. Si tratta di un bestiario incantato, dalle dimensioni enormi, calato in paesaggi onirici e fatati. Neve, stelle, fitti boschi, ninfee galleggianti predominano, facendo da sfondo a quei giganteschi animali e ai bambini che li affiancano di frequente. E’ questo, il poetico universo di Paolo Domeniconi. Un universo fatto di immagini che tutto il mondo conosce e apprezza: basta osservare il numero delle loro condivisioni sui social. Sono gli anni ’90 quando Domeniconi debutta nella pubblicità: si occupa di campagne, packaging e grafica. Successivamente, rimane conquistato dalla letteratura per l’ infanzia e comincia ad illustrare le fiabe più celebri. A tutt’oggi oltre 40 libri – senza contare le raccolte di fiabe, i volumi scolastici e le copertine – includono le sue iconiche illustrazioni; vanta collaborazioni con case editrici del calibro di Grimm Press, Mondadori, Houghton Mifflin Harcourt, The Creative Company (solo per citarne alcune), e i suoi lavori sono presenti, oltre che in Italia, in paesi come  gli Stati Uniti, la Spagna, il Regno Unito, la Cina, la Corea e Taiwan. Per saperne di più sull’ immaginario sognante e fantastico di Paolo Domeniconi, ho pensato di rivolgergli alcune domande.

Cominciamo dai suoi studi. Si è focalizzato sin dall’ inizio sul mondo della grafica e dell’illustrazione?

Quando mi sono trovato a dover scegliere un indirizzo di studi non ero ancora in grado di fare la scelta giusta. Ho passato un anno piuttosto spaesato in un istituto tecnico. Non ci ho messo tanto a rendermi conto di essere fuori strada e sono quindi ripartito da zero in un istituto d’arte.

 

Paolo Domeniconi circondato da alcuni dei libri che ha illustrato

Com’è nata questa sua passione?

Inizia nell’infanzia, è un approccio alle cose che mi ha sempre portato a fare stranezze rispetto alla maggior parte dei miei coetanei, a vivere in un mondo a parte, in un certo senso. A 10 anni passavo ore a fare disegni animati e stop-motion col vecchio 8mm, hackeravo cineprese, pellicole, organi elettronici, un armamentario di strumenti creativi che oggi un bambino può trovare in un tablet. Col tempo mi sono sempre più focalizzato sul disegno cominciando a vagheggiare, chissà in che modo, che un giorno potesse diventare il mio lavoro.

 

 

Nei primi anni ’90 si è dedicato alla pubblicità e al visual merchandising, occupandosi anche di stampe e di packaging. Quanto è determinante, a suo parere, la comunicazione visiva di un prodotto e in che percentuale riesce ad orientare i gusti del pubblico?

L’immagine è tutto. Il “pubblico” mi sembra piuttosto acritico nei confronti della comunicazione ma devo ammettere che ormai questi temi mi appassionano poco.

 

 

Esistono dei motivi grafici che a quell’ epoca prediligeva utilizzare?

Il mio era comunque un lavoro da illustratore o da visualizer. Si lavorava tanto sul packaging di prodotti alimentari e si trattava di rendere accattivanti le immagini del prodotto, la fragranza di una merendina come la freschezza di uno yogurt alle fragole. Photoshop era ancora poco usato e toccava a noi illustratori trovare il lato glamour in un mazzo di spinaci. Fortunatamente qualche volta l’immagine aveva una funzione più evocativa o addirittura metaforica, erano i tempi in cui giravano le immagini di Folon e di alcuni illustratori americani che hanno caratterizzato fortemente la comunicazione istituzionale, Brad Holland, per esempio.

Com’è avvenuto il suo passaggio all’illustrazione di libri per bambini come le fiabe?

Per tanti motivi mi sentivo sempre più fuori posto in quell’ambiente e in generale la pubblicità non mi interessava più. In quegli anni mi ero riappassionato alla lettura e un po’ per gioco inventavo copertine immaginarie, studiandomi tecniche e stili diversi. Alla Children’s Book Fair di Bologna ho toccato con mano le meraviglie che si pubblicavano all’estero e alla fine ho deciso di rimettermi in gioco. Ho seguito quattro corsi brevi ma intensi nelle due migliori scuole di illustrazione e nell’arco di qualche anno sono passato gradualmente dalla pubblicità all’editoria.

 

 

In questo settore ha lavorato per case editrici di tutto il mondo. Da quanto ha potuto riscontrare, è un universo che conosce diverse sfumature a seconda della latitudine e delle culture o piuttosto omogeneo nell’ intero pianeta?

Il linguaggio del libro illustrato può essere molto diverso da un paese all’altro. Cambiano i contenuti, lo stile grafico, la scelta di un certo tipo di illustrazione piuttosto che altri. Ciononostante, alcuni libri particolarmente riusciti vengono tradotti in tante lingue e fanno il giro del mondo. Un dato positivo per gli editori italiani è che le vendite dei diritti per la pubblicazione all’estero sono in aumento.

Cosa la affascina, del mondo delle fiabe?

Forse il fatto stesso che raccontandoci le fiabe siamo vicini, ci riconosciamo. Contengono elementi così universali e archetipici che creano un grande momento di empatia tra le persone, adulti o bambini che siano.

 

 

Uno dei leitmotiv delle sue illustrazioni sono gli animali umanizzati, i bambini e soprattutto la notte, intesa – credo – come parentesi magica e del sogno…Potrebbe approfondire per noi questi temi?

Le favole ci hanno abituati alla presenza degli animali antropomorfi nelle illustrazioni. Maestri come Wolf Erlbruch li hanno introdotti anche in contesti più contemporanei e nelle storie del quotidiano, io copio un po’ da lì. L’effetto è di spaesamento surreale, a volte divertente perché vediamo nell’animale aspetti caricaturali dell’umano. In un altro tipo di illustrazione (e di narrazione) più vicina al “fiabesco”, mi interessa l’animale come portatore di mistero, contatto con una natura inconoscibile. Detesto il magico della letteratura fantasy e allo stesso tempo il documentarismo che si interessa solo alla meccanica dei comportamenti animali. Cerco lo stupore di chi ancora sta scoprendo il mondo, per questo i miei bambini si ritrovano spesso in atmosfere notturne, tra sogno e realtà.

 

 

I suoi progetti più imminenti sono top secret o potrebbe darci qualche anticipazione al riguardo?

Posso dire che sto lavorando per un editore russo su un albo illustrato molto impegnativo. Si tratta di una fiaba classica molto nota in Russia ma praticamente sconosciuta da noi. Qualche copertina di romanzi per ragazzi e a seguire tornerò finalmente a pubblicare in Italia con tre titoli di autori contemporanei.

 

 

Qual è il sogno più grande che – professionalmente parlando – vorrebbe ancora realizzare o che ha già realizzato?

Ho tante cose da imparare ancora. Ogni nuovo libro è per me quasi un ripartire da capo e costituisce la più grande sfida in quel particolare momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il “Sogno d’amore” di Marc Chagall in mostra a Napoli

Marc Chagall, “Il gallo viola” (1966-72)
Olio, gouache e inchiostro su tela, 89,3×78,3 cm Private Collection, Swiss © Chagall® by SIAE 2019

Inaugurerà all’ indomani di San Valentino e, già nel titolo, si accinge a prolungarne la magia: “Chagall. Sogno d’amore” è la mostra che Napoli dedica a Marc Chagall. Ospitato nella suggestiva Basilica della Pietrasanta – Lapis Museum di Napoli, l’ iter espositivo ripercorre la vita, l’ opera e il grande amore dell’ artista russo per Bella Rosenfeld, che sposò nel 1915. 150 capolavori suddivisi tra dipinti, acquarelli ed incisioni tracciano questo excursus avvalendosi di testimonianze rare, pressochè sconosciute al pubblico; ad accomunarle è un universo onirico venato di stupore e meraviglia. La mostra, curata da Dolores Duràn Ucar, esplora a tutto campo l’ immaginario di Chagall: sogno e realtà si fondono in un poetico mix di fiabe, ricordi, suggestioni religiose e belliche esaltato da cromie di un’ intensità vibrante. La fantasia predomina, tratteggiando personaggi, atmosfere e ambientazioni collocati nel labile confine in cui si intrecciano utopia e mondo tangibile. Per sottolineare le sfaccettature di questo cosmo artistico, l’ esposizione si dirama in quattro sezioni che ne indagano altrettanti temi ricorrenti:  la tradizione russa che permò l’ infanzia (e non solo) del pittore, il senso di sacralità profuso nelle opere dedicate alla Bibbia, il bestiario che – nelle acqueforti delle Favole – si fa metafora dell’ umano e, ancora, l’ universo circense, avvolto da uno spiccato mood bohemienne. Ma è l’amore  il vero filo conduttore dell’arte di Marc Chagall, quell’ amore che lo legò per sempre a Bella Rosenfeld e ne fece la sua musa ispiratrice. I dipinti che la vedono protagonista, intrisi di pigmenti puri e sospesi in scenari sognanti, rappresentano l’epitome dei suoi leitmotiv stilistici.

“Chagall. Sogno d’Amore”, organizzata e prodotta dal Gruppo Arthemisia, si avvale del patrocinio del Comune di Napoli. E’ sotto l’egida dell’Arcidiocesi di Napoli e in sintonia con la sezione San Luigi della Pontificia Facoltà Teologica dell’ Italia meridionale, Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia, della Rettoria della Basilica di S.Maria Maggiore alla Pietrasanta e dell’ Associazione Pietrasanta Polo Culturale ONLUS.

La mostra è visitabile dal 15 Febbraio al 30 Giugno 2019 presso la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta (piazzetta Pietrasanta 17-19) di Napoli

Per info: www.chagallnapoli.it

 

Marc Chagall, Gli innamorati con l’asino blu,1955 ca.
Olio su tela, 30×27 cm Private Collection, Swiss © Chagall®, by SIAE 2019

 

Marc Chagall, I fidanzati su sfondo blu, 1931-32
Olio su tela, 24×19,2 cm Private Collection, Swiss © Chagall®, by SIAE 2019

 

Photo courtesy of Gruppo Arthemisia

 

 

 

Il Principe Maurice a Fabriano: a tu per tu con l’icona del teatro notturno

 

Travolgente come solo lui sa essere, visionario, una leggenda vivente: il Principe Maurice (all’ anagrafe Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, discendente dai Principi Agosti di Bergamo) si riconferma re incontrastato del teatro notturno di cui è, peraltro, fondatore. E il 20 Gennaio scorso anche Fabriano, la “città della carta”,  si è lasciata contagiare dal suo carisma. L’ occasione è stata una serata epica dove la techno dei Datura ha rievocato, live, atmosfere anni ’90 dando vita alla soundtrack di uno show a dir poco straordinario. Protagonista e mattatore dell’ evento, il Principe Maurice ha coinvolto il pubblico dell’ Aera Club and Place – un ex cinema oggi adibito a spazio polifunzionale grazie ai tre giovani imprenditori Nicola Paccapelo, Cristian Bussaglia e Enrico Rossi – in un’ esplosiva  performance iniziata alle 10 di sera e terminata alle 6 del mattino. Ad anticipare le danze è stato il docufilm “Principe Maurice #Tribute” diretto da Daniele Sartori, 50 minuti di pellicola in cui Maurice si racconta e rende partecipi del suo progetto artistico gli spettatori: un viaggio nella vita del Principe e nel suo immaginario, dove ai luoghi-simbolo come la Piramide del Cocoricò si alternano ricordi, omaggi ai Maestri Lindsay Kemp e Klaus Nomi, scenari suggestivi del Carnevale di Venezia di cui è Gran Cerimoniere.  La verve narrativa di Maurizio Agosti e un montaggio mozzafiato catturano letteralmente il pubblico, lo trascinano in un crescendo emotivo fino all’ apoteosi finale, uno dei momenti più intensi dell’ intero docufilm: con l’ incalzante sottofondo della “Passacaglia della vita” di Stefano Landi, ballata seicentesca rielaborata in chiave techno dai Datura, il Principe Maurice volteggia sulle note di un “memento mori”. “O come ti inganni se pensi che gli anni non han da finire, bisogna morire”, canta, e per l’occasione ripristina le iconiche lenti a contatto bianche e un paio di corna da Mefistofele. Ma la sua non è che un’ ode alla vita, perchè solo la consapevolezza della morte può donare valore aggiunto all’esistenza. Sull’ importanza dei valori Maurice tornerà spesso, soprattutto rivolgendosi ai giovani, nel corso dell’ intervista che mi ha rilasciato poche ore prima di una serata destinata a rimanere memorabile, unica e irripetibile per la nightlife fabrianese.

Cosa ti porta nella “città della carta”?

Fabriano era nell’ aria perché già c’erano stati degli incontri forieri di questa proiezione, guarda caso con la signora Silvia Ragni. Ma ero incuriosito da questa città da un po’, intanto perché ha una storia estremamente interessante, e poi perché una famiglia di Fabriano, i Serafini, è imparentata alla lontana con la mia. Così quando i ragazzi dell’ Aera Club and Place hanno desiderato avermi io ho proposto immediatamente, memore di questo incontro con te, di introdurre la serata – un tributo agli anni ’90 in collaborazione con i Datura che riprende il format di ReMemo trasmesso su Radio m2O –  con la proiezione del docufilm “Principe Maurice #Tribute”. Dal punto di vista musicale sarà uno show inedito, perché i Datura sono tra i rappresentanti principali di quel movimento musicale che mi ha visto protagonista di immagine al Cocoricò e in giro per il mondo negli anni ‘90.

 

 

Che cosa ha rappresentato, per te, il Cocoricò?

Il Cocoricò è stato il contenitore creativo più importante della mia carriera. Se il Principe Maurice è nato e ha potuto farsi conoscere velocemente sia in Italia che in tutto il mondo – perché il Cocoricò attirava turismo musicale e techno anche dal resto d’Europa – è stato proprio perché ero lì. E lì ci sono arrivato quasi per caso. E’ stata veramente una coincidenza straordinaria: ero la persona giusta al momento giusto, con il direttore artistico giusto, nel locale giusto. All’ epoca l’ art director era il grandissimo Loris Riccardi, collaboratore di “Blob” di RaiTre. Grazie a lui abbiamo avuto la possibilità di esprimere la forma di teatro notturno della quale sono portatore e ideatore, ma anche di ospitare compagnie importanti a livello intenazionale: La Fura dels Baus, La Societas Raffaello Sanzio, Marion D’Amburgo e i Magazzini Criminali…Nel Morphine, il super privé fiore all’ occhiello della sperimentazione del Cocoricò, è venuto a suonare anche Roger Eno, fratello di Brian e musicista ancora più avantgarde. Il Cocoricò era una discoteca fuori da qualsiasi canone, iconica, un unicum mondiale come nemmeno a New York o a Ibiza ce n’erano. Per me è stato un luogo magico e speciale.

Sei un performer leggendario. Che sensazioni provi, dopo anni, prima di salire sul palco?

Ti spiego qual è la cosa meravigliosa del mio essere uno, nessuno, centomila: il mio maestro Lindsay Kemp (leggi qui la sua intervista con VALIUM) adotta un vero e proprio cerimoniale nel prepararsi, la sua è una metamorfosi. Entrare nel camerino di Lindsay è addentrarsi in un mondo in cui anche gli odori dei trucchi ti inebriano, qualcosa di straordinario! Ho cercato di ispirarmi a lui, infatti pretendo di avere un camerino per conto mio perché per me è un vero e proprio rito quello di entrare nel personaggio. C’è questa magia particolare per cui tu, Maurizio Agosti, piano piano diventi il Principe Maurice come vuol essere in quel momento lì e quella sera lì, che non è mai uguale a un’altra. Voglio essere il più possibile vicino al mio feeling del momento, diretto e spontaneo: per me è molto importante. Mi rifaccio alla tradizione della Commedia dell’Arte, ho un canovaccio ma poi devo improvvisare. Lindsay Kemp è stato il mio Maestro con la maiuscola: ha le sue coreografie, le sue storie da raccontare, ma improvvisa tantissimo. Ero molto giovane quando ho fatto uno stage da lui, a Milano. Una sera un ballerino non si è sentito bene e l’ho sostituito in “Sogno di una notte di mezza estate”. Ho recitato una sola volta, ma sono riuscito a essere con Kemp sia sul palco che nel backstage, a imparare. Poi ho portato il tutto in discoteca: è questo che rende il mio personaggio particolare, perché nessuno si è mai impegnato davvero nel non guardare al lavoro in discoteca come a una “marchetta”, solo perché il teatro notturno aveva trovato un mercato da sfruttare anche lì. Questa mentalità ha fatto cadere un po’ il progetto di cui io sono rimasto l’unico testimone, ma non demordo.

 

 

Quale messaggio lanceresti ai giovani che affollano le discoteche?

Pretendete. Pretendete da voi stessi di vivere in maniera consapevole e partecipe tutto, anche la trasgressione, ma di esserci, non di arrivare a un punto in cui non ricordate nemmeno cosa avete fatto perché vi stordite con l’alcool o con altro. Dovete essere protagonisti e sempre presenti, altrimenti nulla ha valore, è una perdita di tempo. In più, se avete delle idee, proponetele, esprimetele, perché la vostra età ha bisogno di conoscenza, di sperimentazione, di divertimento. E di fantasia…Oggi seppellita dal conformismo della rete e dal melting pot della globalizzazione. Cerchiamo di essere il più autentici possibile e di capire da dove veniamo, perché è importante, e dove vogliamo andare… Anche se questa società ci porta a non aver troppa fiducia nel futuro sappiate, giovani d’oggi, che è importante credere in tre cose: la libertà, che è un valore fondamentale, la dignità, senza la quale la libertà è uno spreco e può diventare dannosa, e l’amore. Altrimenti non c’è nulla. I soldi sono importanti, ma vanno e vengono. La salute stessa è appesa a un filo di ragnatela. Mentre l’amore, la libertà e la dignità sono tre ingredienti fondamentali per poter immaginare un futuro, e posso dirvelo perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Per questo lo racconto con fervore e convinzione.

Tu e il Carnevale di Venezia: cosa ti lega maggiormente alla grande kermesse veneziana?

Trasformarmi, travestirmi, ricercarmi in altre forme, ricercare il mio fratello gemello morto a 11 mesi…Un giorno –  ho 16 anni e sono già un “decadente” – decido di partire da Milano per andare al Carnevale di Venezia. Ci vado la domenica dedicata alla passeggiata delle maschere, dopo Sabato Grasso. Mia madre, che è mia complice, mi permette di viaggiare in costume per partire al mattino e ritornare la sera. Arrivo a Venezia, capito alle Generali dove fanno una festa e vengo intervistato. E’ un boom incredibile, meraviglioso, per cui mi dico: “Io il Carnevale lo frequenterò tutti gli anni”. Dopo qualche anno trovo nel personaggio di Giacomo Casanova qualcosa che mi piace, che sento mio: coltivare il piacere dei sensi ad esempio, anche in questo sono molto decadente…Il Carnevale comincia a entrarmi nella mente e nel sangue, diventa un obiettivo, una mania. E’ una passione che nel tempo ho condiviso con altre persone. Abbiamo creato delle associazioni: gli Amici del Carnevale di Venezia, un’ Associazione Internazionale per il Carnevale di Venezia, arriviamo da tutto il mondo per ritrovarci al Carnevale a divertirci e a competere per la bellezza dei costumi e delle interpretazioni. Quando Bruno Tosi, il Presidente della Fondazione Maria Callas, ha ricreato la tradizione storica delle Marie, mi ha chiesto di presentare la manifestazione. Da allora sono diventato il maestro di cerimonie che apre e chiude il Carnevale, conduco happening sul palco di Piazza San Marco e sono il Magister Elegantiarium del Concorso della Maschera più Bella. Il Carnevale diventa per me il momento dell’anno più atteso: in 10 giorni arrivo a gestire 30 produzioni tra feste private, di associazione e ufficiali.

 

 

Che ci racconti del tema “Creatum Civitas Ludens” associato al Carnevale di Venezia 2018?

“Creatum”, per valorizzare un po’ tutta quella che è l’artigianalità e l’arte che sta dietro al Carnevale. Ma non sarà un’esposizione o una specie di fiera delle botteghe, bensì un circo dove anche questi artigiani si possono esprimere. L’ elemento del circo è quello che mi piace di più: ci sono le scenografie dei Togni utilizzate per “La strada” di Fellini, oltre ad altre scenografie aggiunte dal teatro La Fenice che, in collaborazione con Massimo Checchetto, ha reso il circo un po’ più elegante, un po’ più veneziano, un po’ più adatto a Piazza San Marco. Il circo è uno dei miei ambienti preferiti, amo soprattutto  il ruolo del clown bianco e adoro Fellini. Quest’ anno quindi il Carnevale sarà davvero “playful”, con quel tocco di follia che va verso il freak: a fine ‘800 inizio ‘900, ricordate?, al circo si esponevano i fenomeni. Si giocherà sulle trasformazioni…I cambi di ruolo sessuale, che sono tipicissimi del Carnevale, faranno parte (e in modo anche molto malizioso) del gala serale che avrà per titolo “La serata di Dottor Jack Hill e Mrs. Hyde”.

 

 

Quali sono gli angoli segreti di Venezia che consiglieresti di visitare, i meno turistici e scontati?

Te ne racconto due. Uno è il minuscolo negozio di maschere di un’artista che si chiama Barbara Babi. Dietro Piazza San Marco, dietro Palazzo Ducale, c’è un ponte, credo che si chiami Ponte della Canonica. Lo trovate dopo questo ponte, un po’ sulla destra. E’ nuovo: quest’ artista ha finalmente avuto modo di aprire un suo negozio/laboratorio, e utilizza in modo molto particolare sia la cartapesta che le piume. Le sue maschere indossano parrucche fatte di piume. Sono stupende, e anche abbastanza dark! Ma non si tratta di piume di struzzo in stile Rio: sono piume di pennuti, lunghe, che lei acconcia. In più usa, applicandola sulle maschere, la pelle del serpente quando fa la muta. Il negozio si chiama La Babi e spero che abbia successo, perché lo merita. Poi c’è un bacaro speciale in quanto a ambiente, qualità e cucina. E’ uno degli ultimi rimasti, situato in una piccola calle che va verso il Casinò dal Teatro Italia, e veneziano DOC: ci vanno solo veneziani e solo loro sanno che c’è, niente turisti. Tutto viene cucinato da veneziani, in stile veneziano e con ingredienti veneziani. Lo suggerisco a chi cerca un posto veramente riservato, quasi “massonico”, per l’ ”apericena”…Il nome non te lo dico, solo chi lo scopre merita di frequentarlo. Ah, ecco un altro posto particolare! Un’ ala del Teatro Italia è stata venduta ed è diventata il più bel supermercato del mondo. Cinema Teatro Italia, in Strada Nova: entrateci. E’ da visitare perché è una contaminazione pop fuori di testa!

Torniamo a Fabriano. Un tuo parere a bruciapelo sulla città?

La cosa che mi suggestiona molto della città è questo rapporto con la carta, così importante sia per l’arte che per la scrittura. E poi c’è la tipica magia di tutte le città italiane un po’ “appartate”, che nascondono tesori. Mi piace la simpatia, la sobrietà che c’è nelle persone, e mi piace che ci siano personaggi che sono sostanzialmente dei “fantasmi”: grazie alla tecnologia sono proiettati culturalmente in tutto il mondo, ma vivono qui quasi un po’ nascosti. Un nome? Silvia Ragni, ma anche Rexanthony, uno degli autori della musica specificatamente dedicata al Cocoricò oltre che di compilation degli anni d’oro che hanno avuto un successo straordinario. Quindi non è che una città di provincia, pur famosa per la sua industria, per la sua tradizione eccetera, sia meno intrigante di una capitale.

 

 

Per concludere, una domanda sui tuoi prossimi progetti. Puoi anticiparci qualcosa o sono ancora top secret?

Con questa intervista capiti proprio durante l’ultimo cambiamento fondamentale della mia vita. I miei cambiamenti si sono avvicendati in cicli di circa 20 anni l’uno. Questo è il terzo, credo sia il finale. Sto puntando ad avere una residenza anche esterna all’ Italia, quindi mi sono spostato a Palma de Mallorca: una città antica dove c’è un centro storico, una vita culturale e la presenza della famiglia reale si “respira” sia attraverso il castello che il Palazzo di Marivent…C’è tutto quello che può affascinarmi in una città europea importante, perché Palma è una piccola Barcellona. Non è lontana dall’ Italia e il fatto che sia un’isola mi piace, perché anche Venezia è un piccolo arcipelago di isolette. Questo cambiamento mi porterà ad essere meno presente nel mondo della notte e più presente nel mondo degli eventi a carattere culturale o privato. Il mio futuro, quindi, sarà suddiviso tra l’Italia e Palma.

 

 

Photo courtesy of Aera Club and Place e collezione privata Principe Maurice Agosti

 

Il Gucci Garden, uno scrigno fatato nel cuore di Firenze

 

Il suo logo – il Gucci Eye – ricorda l’ “l’occhio che tutto vede”, un elemento che rimanda alla simbologia esoterica di cui sono intrise le collezioni di Alessandro Michele. Perchè a partire dall’ uroboros fino al sole, passando per il quadrupede nero e il serpente con tre teste, Michele ha sempre attinto all’ iconografia alchemica e il Gucci Garden, il multispazio appena inaugurato all’ interno del Palazzo della Mercanzia a Firenze, non poteva non evidenziare un leitmotiv ispirativo che è ormai parte integrante della sua estetica. Lo storico edificio fiorentino è lo location ideale per ospitare l’ universo Gucci in ogni sua sfaccettatura: concepito da Alessandro Michele stesso, distribuisce su tre piani una galleria espositiva, un ristorante e una boutique che traducono la nuova visione della Maison in puro incanto.

 

 

Moda, ispirazione, arte, ricordi, reperti d’archivio, gusto e savoir faire artigianale si fondono in un magico mix che prende il nome da una costante delle creazioni del designer, il giardino, ennesimo emblema dalla forte valenza mistica. L’ iter ha inizio con la Gucci Garden Galleria e più precisamente con una sala, Guccification, interamente all’ insegna della doppia G. Vi trovano spazio espressioni artistiche recenti, come il GucciGhost di Trouble Andrew o i  lavori di Coco Capitain e Jayde Fish.  Gli “hashtag” Guccy, Guccify e Guccification concentrano la quintessenza del brand: Gucci come un’ attitude, che spazia dal look a un modo di porsi di fronte al reale.

 

Guccification

A seguire, un approfondimento dedicato all’ heritage è suddiviso tra le sale Paraphernalia e Cosmorama, che rispettivamente rievocano i codici del marchio, i suoi celebri clienti del jet set e gli elementi araldici presenti nel suo logo. Al di là di spesse tende di velluto rosso, poi, l’ auditorium Cinema da Camera del Gucci Garden è adibito alla proiezione di film e corti sperimentali.

 

Paraphernalia

Cosmorama

L’ avventura prosegue al secondo piano con De Rerum Natura, una panoramica che sviscera in modo museale, quasi “scientifico”, l’ amore di Alessandro Michele per i giardini e gli animali. Ephemera è la sala conclusiva: qui, in un tripudio di video, di oggetti e di ricordi, la storia della Maison Gucci regna sovrana.

 

De Rerum Natura

Cinema da Camera

Ephemera

Il percorso è a dir poco spettacolare, un viaggio tra l’ onirico e il reale che fissa al 1921 il suo anno di partenza. Negli spazi del Gucci Garden si interfacciano passato e presente, vintage e pezzi cult, le più leggendarie creazioni del brand dialogano con gli stili iconici di Tom Ford, Frida Giannini e Alessandro Michele. A curare questa ipnotica galleria è il critico e fashion curator Maria Luisa Frisa, direttore del corso di Laurea in Design della Moda e Arti Multimediali all’ Università IUAV di Venezia.

 

Gucci Osteria di Massimo Bottura

Gucci Boutique

Ma nello scrigno fatato ideato da Alessandro Michele sono racchiuse due ulteriori chicche: la Gucci Osteria di Massimo Bottura, chef tre stelle Michelin, omaggia la Firenze crocevia di scambi culturali del Rinascimento con un menù che spazia dalle delizie locali a quelle internazionali, mentre la Gucci Boutique è un’ oasi delle meraviglie vera e propria. Collocata al piano terra, le pareti dipinte di giallo, al suo interno è possibile rintracciare pezzi unici, tutti assolutamente originali e contrassegnati dall’ esclusivo logo Gucci Garden. Il Bookstore, infine, affianca ai libri un’ ampia scelta di oggettistica rara, memorabilia, pubblicazioni d’antan e d’avanguardia, preziosi paraventi, arredi e prodotti di cartoleria sui generis. Visitare il Gucci Garden si configura come un’ esperienza intrisa di fascino: è penetrare a fondo nell’ immaginario della Maison, lasciarsi contagiare dalla sua creatività, calarsi in magnetiche atmosfere. Senza sottovalutare che la metà del costo del biglietto d’ingresso (8 euro) verrà devoluta agli interventi di restauro nel capoluogo toscano.

Per info: https://www.gucci.com/it/it/

Photo: Gucci