Il Palazzo Imperiale di piazza Mignanelli

 

” Mancava solo il ponte levatoio. Per il resto, non difettava nulla al palazzo che domina piazza Mignanelli – a Roma – per sembrare un castello inespugnabile. Le tracce di Propaganda Fide incastonate tra i mattoni, una sala del trono con decine di mappamondi a simboleggiare le terre conquistate, gli interventi degli artisti più notevoli di questo tempo disseminati un po’ ovunque. Come dirimpettaio, l’ Ambasciata di Spagna. Bastava chiudere gli occhi, e la magia si avvera: il palazzo diventa un Palazzo Imperiale – ma a Roma è sufficiente distrarsi un attimo per illudersi che stia ancora lampeggiando il Seicento o per credere che il Medioevo sia in pieno svolgimento.  Dall’ ingresso del Palazzo al numero 22, dal portone su cui svetta imperiosa una V dorata, si ha l’ impressione di dominare l’ universo: l’ ex proprietario del palazzo, oggi lontano in un romitaggio cosmopolita e sofisticato, ci è riuscito. Nel corso di mezzo secolo, Valentino Garavani ha conquistato le donne  (e gli uomini) di ogni continente senza spade nè dardi infuocati. Meglio qualche metro di chiffon, preferibilmente scarlatto. “

 

Tony Di Corcia, da “Valentino. Ritratto a più voci dell’ ultimo Imperatore della Moda”

 

 

 

 

Foto di Lalupa, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Omaggio ad Arthur Rackham, illustratore di fiabe ma non solo

 

“Fabula Docet”

(Esopo)

 

Le illustrazioni delle fiabe hanno un ruolo importantissimo: aggiungono pathos e coinvolgimento a un genere altamente evocativo già di per sè. Prova ne è il fatto che quasi mai, neppure dopo anni, riusciamo a dimenticare le immagini associate alle fiabe della nostra infanzia. Ricordiamo con esattezza il libro da cui erano tratte, la copertina, i disegni che accompagnavano il testo. E insieme a tutto questo, lo stile dell’ illustratore. Perchè – fateci caso – non esistono due disegnatori che abbiano un tratto simile; ognuno vanta caratteristiche del tutto proprie e inconfondibili. Partendo da un simile presupposto, viene spontaneo approfondire l’ iconografia fiabesca di un’epoca in cui l’ interesse per il racconto fantastico (sia a livello filologico che simbolico, morale e artistico) raggiunse il suo culmine: l’età vittoriana. A quei tempi, Arthur Rackham si affermò come nome di punta dell’ illustrazione. Nato nel quartiere londinese di Lambeth nel 1867, Rackham crebbe in una casa di fronte al giardino botanico creato da John Tradescant il Vecchio e il Giovane due secoli prima: uno scenario ideale per il piccolo Arthur, che eccellendo nel disegno si dilettava a riprodurre i dettagli del corpo umano e i reperti esposti al British Museum e al Museo di Storia Naturale di Londra. Nel frattempo si era iscritto alla City of London School, dove i suoi elaborati artistici gli valsero svariati premi. Ma a scuola non rimase a lungo. A 16 anni fu costretto ad abbandonarla in seguito a dei problemi di salute, e decise di imbarcarsi per l’ Australia insieme alle sue zie.  Durante il viaggio non fece altro che disegnare, adorava immortalare tutto ciò che lo colpiva della realtà circostante. Tornato a Londra, all’ età di 18 anni pensò di ripetere l’ esperienza scolastica: iniziò a frequentare la Lambeth School of Art e, parallelamente, a lavorare come addetto alle vendite. Il suo talento per il disegno, in quel periodo, gli fruttò le prime collaborazioni nel campo dell’ illustrazione. Debuttò nelle vesti di freelance, e dopo un anno fu assunto dal Westminster Budget nel doppio ruolo di giornalista e illustratore. Era il 1892. Nel 1893 uscì “To the Other Side” di Thomas Rhodes, il primo libro che conteneva le sue immagini, mentre nel 1894 i lavori di Rackham apparvero in “The Dolly Dialogues” e “The Prisoner of Zenda” di Anthony Hope.

 

 

L’ attività di Arthur Rackham si svolse sempre all’ insegna dell’ eclettismo: oltre alle fiabe, illustrò romanzi per adulti e per ragazzi. Le sue opere, citando qualche titolo esemplificativo, impreziosiscono libri come “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, “Canto di Natale” di Charles Dickens, “Peter Pan nei Giardini di Kensington” di James Barrie, raccolte di fiabe di Esopo, di Hans Christian Andersen e dei Fratelli Grimm, ma anche volumi immaginifici del calibro di “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, “Sigfrido e il crepuscolo degli dei” di Richard Wagner, “Il re del fiume dorato” di John Ruskin, “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare. Solo la morte, sopravvenuta nel 1939 a causa di un male incurabile, interruppe la carriera di Rackham, che venne più volte omaggiato con premi e mostre (tra i quali ricordiamo una medaglia d’oro all’ Esposizione Internazionale di Milano del 1906 e un’ esposizione al Museo del Louvre nel 1914). Lo stile del grande illustratore rimane inimitabile: l’ impronta dell’ Art Nouveau è palese, accentuata da atmosfere oniriche ad alto tasso di magnetismo. Il colore riveste una funzione predominante, evoca e suggerisce, si sfuma in magici giochi cromatici o esalta dettagli conferendo loro un impatto visivo straordinario. Scenari, cose e personaggi sono tratteggiati con linee di contorno accuratissime, la fantasia che impregna le illustrazioni stimola potentemente l’ immaginazione del lettore. Tra gli artisti che ispirarono Rackham figurano nomi quali quello di John Tenniel, Aubrey Beardsley e Albrecht Durer. Il successo ottenuto dal disegnatore fu tale da sedurre persino la Disney, che assurse il suo stile a punto di riferimento quando, nel 1937, realizzò il film d’animazione “Biancaneve e i sette nani”.

 

 

Il pesce d’oro

 

“Esco correndo in cerca del mio regalo. (…) Con l’acquario sulle ginocchia, rimango per un bel po’ a contemplare il pesce dorato. (…) Abbraccio il mio acquario stringendolo contro il petto come se fosse la mia stessa vita, la mia felicità futura, la promessa di un destino radioso. Qualcosa mi dice, ascoltando questo rumore poetico, clandestino e armonioso, che non sono solo e che niente di male deve succedermi in questa vita…Circondando lo stagno, mi si avvicina un ragazzino ben vestito. Si ferma davanti a me e dice, guardando l’acquario: “Questo pesce è tuo?” “Sì” “L’hai rubato dallo stagno.” “Me lo ha regalato il padrone di casa. E’ il pesce d’oro.” ”Non c’è nessun pesce d’oro, scemo.” La sua aria di sufficienza mi innervosisce. Osservo il suo naso all’insù e impertinente, le sue labbra ben disegnate, e gli sputo tra i piedi: “Vattene, ragazzo” “E’ giapponese – mi dice – e non sai una cosa.” “Che cosa.” “Questi pesci si lasciano prendere con la mano”. “Nessun pesce si lascia prendere con la mano” “E invece sì. Te lo dimostrerò. Guarda” Continuo a stringere con entrambe le mani l’acquario contro il mio petto. Il bambino spocchioso introduce la mano nell’acquario, afferra il pesce senza difficoltà e lo tira fuori dall’acqua, aprendo il palmo per dimostrarmelo. Allora, improvvisamente, mentre dà colpi di coda, il pesce fa un salto e, tracciando sopra le nostre teste un arco molto ampio, festivo e luminoso, si immerge nello stagno di acque morte e sparisce. Smuovo l’acqua con la mano, in un tentativo disperato di accarezzare la sua scia misteriosa. E’ inutile, non lo rivedrò mai più. Paralizzato dalla rabbia, pieno di desolazione, rimango lì immaginando il pesce d’oro che nuota nel fondo buio dello stagno, tra licheni putrefatti e alghe ondulate. E così vedo ancora, nonostante il tempo trascorso, me e il pesce: io inclinato sullo stagno come se stessi per berci dentro, e il pesce mentre rimuove il fango del fondo, scivolando in silenzio sopra un muschio immarcescibile e perdendosi nell’ ombra, per sempre.”

 

Juan Marsé Carbò, da “L’amante bilingue”

 

La promessa della Primavera

 

” E come nella vita l’attesa di un bene certo ci dà piú gioia che il raggiungerlo (ed è saggio non approfittarne subito, ma conviene assaporare quella meravigliosa specie di desiderio che è il desiderio sicuro di essere appagato ma non ancora praticamente soddisfatto, l’attesa insomma che non ha piú timori e dubbi e che rappresenta probabilmente l’unica forma di felicità concessa all’uomo), come la primavera, che è una promessa, rallegra gli uomini piú dell’estate che ne è il compimento sospirato, cosí il pregustare con la fantasia lo splendore del poema ignoto, equivale, anzi supera il godimento artistico della diretta e profonda conoscenza. Si dirà che questo è un gioco della immaginazione un po’ troppo disinvolto, che cosí si apre la porta alle mistificazioni e ai bluffs. Eppure, se ci si guarda indietro, constatiamo che le piú dolci e acute gioie non hanno mai avuto un piú solido costrutto. “

 

Dino Buzzati, da “Sessanta racconti”

Il viaggio

 

” Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. “

José Saramago, da “Viaggio in Portogallo”

Vita, favola o mito

 

” Quante risate! Non hanno mai saputo cosa fare della mia data di nascita. E’ nata il 6 luglio 1907? Oppure il 7 luglio 1910? Mi sono proprio divertita a guardarli mentre se la sbrogliavano. Tutti, sedicenti biografi, universitari, giornalisti, studenti, amici, rimanevano confusi, si sentivano obbligati a dimostrare. Talvolta gli piaceva immaginare che la mia vita, raccontata o no per bocca mia, non potesse che essere favola o mito. Avevano continuamente bisogno di persuadersi che ogni mia azione, ogni avvenimento dovesse far parte del “personaggio Frida Kahlo”. Altri si angosciavano: la loro richiesta di onestà risultava intimidita dal fatto di non poter afferrare la “verità”. A questi, occorreva la data esatta, senza la quale la loro coscienza soffriva di “disturbi d’almanacco”, strana vertigine! Oppure si mettevano d’accordo – ed era un modo per risolvere la questione -, sostenendo che io fossi un po’ squilibrata, cosa che aveva il vantaggio di non fare del male a nessuno e di rassicurare tutti. E io, come un diavoletto. E io, birichina. E io, beffarda. (…) Come trascurano, stranamente, che la maggior parte della gente sogna di cambiare nome, faccia, quando non pelle o vita. Allora, io, sì, ho cambiato la mia data di nascita (…). Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. E’ in quel fuoco che sono nata, portata dall’ impeto della rivolta fino al momento di vedere giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita. Da bambina, crepitavo. Da adulta, ero una fiamma. Sono proprio figlia di una rivoluzione, non v’è dubbio, e di un vecchio dio del fuoco adorato dai miei antenati. Sono nata nel 1910. Era estate. Di lì a poco, Emiliano Zapata, el Gran Insurrecto, avrebbe sollevato il Sud. Ho avuto questa fortuna: il 1910 è la mia data.”

 

Frida Kahlo in “Frida Kahlo”, di Rauda Jamis

 

Nel cielo color di rose

 

” Quando risuonarono le sette alla cattedrale, c’era una stella sola e limpida nel cielo color di rose, un battello lanciò un addio sconsolato, e sentii in gola il nodo gordiano di tutti gli amori che avrebbero potuto essere e non erano stati. Non sopportai oltre. Presi il telefono col cuore in gola, composi i quattro numeri molto lentamente per non sbagliarmi, e al terzo squillo riconobbi la voce. “

Gabriel Garcìa Màrquez, da “Memoria delle mie puttane tristi”

8 Marzo

 

” (…) si può dire ancora che vi siano delle ‘donne’? Certo la teoria dell’eterno femminino conta numerosi adepti (…); altri sospirano: ‘La donna si perde, la donna è perduta.’. Non è più chiaro se vi siano ancora donne, se ve ne saranno sempre, se bisogna augurarselo o no, che posto occupano nel mondo, che posto dovrebbero occuparvi. ‘Dove sono le donne?’ (…). Ma innanzi tutto: cos’è una donna? ‘Tota mulier in utero: è una matrice’, dice qualcuno. Tuttavia parlando di certe donne, gli esperti decretano ‘non sono donne’, benché abbiano un utero come le altre. Tutti sono d’accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine, le quali costituiscono oggi come in passato circa mezza umanità del genere umano; e tuttavia ci dicono ‘la femminilità è in pericolo’; ci esortano: ‘siate donne, restate donne, divenite donne’. Dunque non è detto che ogni essere umano di genere femminile sia una donna; bisogna che partecipi di quell’essenza velata dal mistero e dal dubbio che è la femminilità. La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana per farla scendere in terra? Benché certe donne si sforzino con zelo di incarnarla, ci fa difetto un esemplare sicuro, un marchio depositato. Perciò essa viene descritta volentieri in termini vaghi e abbaglianti, che sembrano presi in prestito dal vocabolario delle veggenti. (…) le scienze biologiche e sociali non credono nell’esistenza di entità fisse e immutabili che definiscano dati caratteri (…); esse considerano il carattere una reazione secondaria a una situazione. Se oggi la femminilità è scomparsa è perché non è mai esistita. “

Simone de Beauvoir, da “Il secondo sesso”

Il cuore è come la neve

 

” Si dice che il cuore è come la neve. Audace, silenzioso, capace di sciogliersi con un po’ di calore. Da dove vengo io ci credono in tanti. E’ il proverbio dei vecchi, dei bimbi più piccoli, di quelli che brindano alla felicità. Ognuno di noi ha un cuore di neve, perchè la purezza dei sentimenti lo rende terso e immacolato. Io non ci avevo mai creduto. Anche se lì ci ero cresciuta, anche se avevamo il ghiaccio intarsiato nelle ossa, non ero mai stata il tipo da certe dicerie. La neve si adatta, è gentile, rispetta ogni spigolo. Ricopre senza deformare, ma il cuore no, il cuore pretende, il cuore urla, stride e s’impenna. Poi un giorno l’ avevo capito. L’ avevo capito come si capisce che il sole è una stella, o che il diamante è solo una roccia. Non conta quanto sembrino diversi. Conta quanto sono simili. Non importa se uno è freddo e l’altro è caldo. Non importa se uno stride e l’altro si adatta. Io avevo smesso di sentire la differenza. (…) Allora forse è vero, quello che dicono. Forse hanno ragione. Il cuore è come la neve. Con un po’ di buio, diventa ghiaccio. “

 

Erin Doom, da “Nel modo in cui cade la neve”

Quando finisce la scuola

 

” Nel vuoto. Il pericolo di quando finisce la scuola. Grande, grande pericolo. Un burrone. Dopo la maturità, nel momento in cui cessa di colpo l’impegno quotidiano, la sveglia obbligatoria alle sette eccetera, tutti i giorni, tutto l’anno…una cosa che va avanti da quando eri piccolo e all’ improvviso si interrompe. Crolla una struttura, il regime scolastico, un regime di vita. La cui ripetitività quotidiana serve, in un ragazzo, a collegare le varie parti di sé e tenerle insieme, e lo stesso malumore causato dalle attività svolte controvoglia funge da collante, inquadra, dà forma alla persona. La frustrazione o il risentimento contro gli insegnanti, la disciplina contro le cui sbarre sbattere la testa e sfregare la schiena, aiutano appunto ad avere consapevolezza della propria testa, della propria schiena. I vari pezzi di cui è composto un ragazzo cercano il limite entro cui essere contenuti, e sono grati alla barriera, di cui tuttavia non cessano di lamentarsi ogni minuto, che impedisce loro di collassare e andare dispersi, come le pagine di un manoscritto che volano via a un colpo di vento. Il dovere ineluttabile della scuola vince persino chi lo odia, anzi viene rinforzato da quell’ odio. Un’ ininterrotta catena di inezie tiranniche tiene sveglio chi le subisce. “

 

Edoardo Albinati, da “La scuola cattolica”