San Valentino

 

“Eppure, per una di quelle intuizioni dell’animo, apparentemente assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro, per poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni, quando il meccanismo del destino scatterà, Antonio ebbe un presentimento: come se quell’incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa. Già in passato, più di una volta, aveva constatato l’incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo…”

Dino Buzzati, da “Un amore”

 

Buon San Valentino! Ve lo auguro con un brano tratto dal libro-capolavoro “Un amore” di Dino Buzzati e con una serie di immagini in cui il cuore – rappresentato in svariate versioni – fa da leitmotiv. Come disse Antonio Machado, “il cuore è la regione dell’ inatteso”: un concetto che lo associa all’ amore da sempre e che calza a pennello, peraltro, con la trama del romanzo di Buzzati (chi l’ha letto, mi capirà al volo). In un mondo dove dilaga l’ usa e getta dei sentimenti, celebrare l’ amore “puro” (inteso cioè nella sua quintessenza) è confortante. Viva l’ amore, dunque, e soprattutto viva il cuore: perchè se nasce dal cuore, qualsiasi cosa possiede un valore aggiunto.

 

La leggenda dei monti naviganti

 

” Se vai lento, ovunque tu sia nella fascia temperata del Globo, le tue notti si popoleranno di grilli, belati, fumo di legna, erbe aromatiche, stelle. D’inverno, ti addormenterai circondato di luce lunare fredda, odore di lana infeltrita e letame, tè bollente e sogni caldi, quelli dove le persone hanno odore e sapore. In una parola, la vita. “

 

Paolo Rumiz, da “La leggenda dei monti naviganti”

Il Tempo

” C’era come un odore di Tempo, nell’aria della notte. Tomàs sorrise all’idea, continuando a rimuginarla. Era una strana idea. E che odore aveva il Tempo, poi? Odorava di polvere, di orologi e di gente. E che suono aveva il Tempo? Faceva un rumore di acque correnti nei recessi bui d’una grotta, di voci querule, di terra che risuonava con un tonfo cavo sui coperchi delle casse, e battere di pioggia. E, per arrivare alle estreme conseguenze: che aspetto aveva il Tempo? Era come neve che cade senza rumore in una camera buia, o come un film muto in un’antica sala cinematografica, cento miliardi di facce cadenti come palloncini di capodanno, giù, sempre più giù, nel nulla. Così il tempo odorava, questo era il rumore che faceva, era così che appariva. E quella notte – Tomàs immerse una mano nel vento fuori della vettura – quella notte tu quasi lo potevi toccare, il Tempo. “

 

Ray Bradbury, da “Cronache marziane”

Una passeggiata d’inverno

 

” Eppure, mentre la terra giù in basso sonnecchiava, da tutte le regioni dell’aria superna si riversava vivace un polverio di fiocchi piumosi, come se una nordica Cerere dominasse il cielo facendo piovere su ogni campo la sua argentea semenza. Dormiamo. E finalmente ci ridestiamo alla tacita realtà di una mattina d’inverno. La neve ricopre ogni cosa, calda come cotone, o frana giù dal davanzale. Fioca, dall’ ampia impannata, dalle lastre di vetro rabescate dal gelo trapela una luce arcana, in grado di esaltare l’accogliente tepore della nostra stanza. Profondo è il silenzio del mattino. Il piancito scricchiola sotto i nostri piedi mentre ci accostiamo alla finestra per guardare all’ esterno, volgendo per un lungo tratto fosforescente gli occhi sulla campagna. Vediamo i tetti ristare intirrizziti sotto il loro fardello di neve. Stalattiti di ghiaccio frangiano gronde e staccionate, mentre nel cortile irte stalagmiti rivestono qualche oggetto sepolto. Alberi e arbusti levano da ogni parte candide braccia al cielo; e dov’erano muri e recinti, vediamo fantastiche forme spiccare in archi bizzarri sullo sfondo di quel panorama cupo, quasi che nella notte la natura avesse sparso per i campi alla rinfusa i suoi freschi abbozzi per farli servire da modelli all’ arte dei mortali. Silenziosamente, mettiamo mano al chiavistello e apriamo la porta, lasciando che si richiuda alle nostre spalle facendo ricadere il paletto, e allunghiamo un passo all’ esterno affrontando l’aria tagliente. Le stelle hanno già perduto un po’ del loro scintillio; l’orizzonte è cinto da un orlo di bruma opaco, plumbeo. A oriente, uno sfrontato bagliore vivida proclama il prossimo avvento del giorno, mentre lo scenario a occidente ci appare ancora indistinto e spettrale, e come velato da una fosca luminescenza tartarea, che lo fa assomigliare al regno delle ombre. (…) Nel cortile, le orme fresche della volpe o della lontra ci fanno rammentare che ogni ora della notte è gremita di eventi, e la natura primitiva continua a operare e a lasciare tracce sulla neve. (…) In lontananza, frattanto, oltre i cumuli bianchi e attraverso le finestre impolverate di neve, scorgiamo il lume precoce del contadino emettere, pari a una smorta stellina, un brillio smarrito, come se proprio allora si stessero salutando laggiù i primi albori di qualche austera virtù. E, ad uno ad uno, ecco che tra alberi e nevi da ogni comignolo comincia a levarsi un fil di fumo. “

 

Henry David Thoreau, da “Una passeggiata d’inverno” (ed. Lindau, 2019. Primo racconto del libro omonimo)

Un albero di Natale

” Sono stato a osservare, questa sera, un’ allegra brigata di bambini riunita attorno a quel bel gioco tedesco, un Albero di Natale. L’ albero era piantato al centro di un gran tavolo tondo, e torreggiava alto sopra le loro teste. Era splendidamente illuminato da una miriade di candeline; e ogni dove riluceva e scintillava di oggetti sfavillanti. C’erano bambole dalla rosee guance, nascoste tra le verdi foglie; e c’erano orologi veri (con lancette mobili, quantomeno, e con un’ infinita capacità di caricarsi) penzolanti da innumerevoli ramoscelli; c’erano tavoli francesi lucidati, sedie, letti, armadi, pendole a carica settimanale, e altri vari articoli di mobilio domestico (mirabilmente creati, in latta, a Wolverhampton), appollaiati fra i rami, come in attesa di arredare qualche casa di fate; c’erano grassi ometti dal faccione largo, assai più piacevoli a vedersi di tanti uomini in carne e ossa…e lo credo bene, perchè staccando le loro teste, mostravano che erano pieni di caramelle; c’erano violini e tamburi; c’erano tamburelli, libri, cassette degli attrezzi, scatole di colori, scatole di dolciumi, scatole di lanterne magiche, e ogni sorta di scatole; c’erano ninnoli per le ragazzine più grandi, assai più splendenti di tutto l’ oro o di tutti i gioielli per adulti; c’erano cestini e puntaspilli di ogni foggia; c’erano fucili, spade e stendardi; c’erano fattucchiere in mezzo a cerchi magici di cartone , a predire la sorte; c’erano dadi rotanti e trottole fischianti, agorai, nettapenne, boccette di sali profumati, carte da conversazione, portafiori; frutta vera, rivestita artificialmente da una sfoglia dorata; mele, pere e noci finte, zeppe di sorprese; (…). Questa variopinta collezione di oggetti di ogni sorta, i quali erano raggruppati sull’ albero come grappoli di bacche miracolose, e che riflettevano gli sguardi brillanti su esso puntati da ogni lato (…) formava un quadro vivente delle fantasie infantili, e mi ha indotto a pensare che tutti gli alberi che crescono e tutte le cose che esistono sulla Terra, possiedano i loro addobbi fantastici in quel memorabile periodo. “

 

Charles Dickens, da “Un albero di Natale”

 

 

Foto “Children with Christmas Tree” di The Texas Collection, Baylor University, via Flickr, CC BY-NC 2.0

 

 

La colazione di oggi: dolcetti al pan di zenzero, una magica spezia per un magico Natale

 

Parlare di colazioni natalizie senza citare lo zenzero sarebbe improponibile! Avete presente quei giocosi e golosissimi biscotti a forma di omini, alberi di Natale, renne, fiocchi di neve e quant’altro? O le incantevoli casette ornate di glassa che sembrano uscite dalla fiaba di “Hansel e Gretel”? Bene: lo zenzero è l’ ingrediente basilare di dolci diventati ormai l’ emblema del periodo che gravita attorno al 25 Dicembre. E non a torto: sono squisiti, leggeri ed emanano un aroma di spezie che li rende del tutto speciali. Gustarli a inizio giornata, credetemi, è davvero l’ optimum. Basti pensare che vengono preparati con un ricco impasto composto da zenzero in polvere, cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Al tutto si aggiunge successivamente il miele oppure la melassa (quest’ ultima, soprattutto nel Nord Europa). Il risutato sono dolci dalla consistenza morbida al punto giusto: possono essere plasmati nelle forme più disparate e decorati con dosi massicce di Ghiaccia Reale, una glassa che si indurisce ad asciugatura ultimata. Di conseguenza, risultano una vera e propria delizia sia per il palato che per gli occhi. Alcuni, addirittura, li utilizzano per addobbare la casa e l’ albero di Natale! Ma privarsi del gusto di assaporarli sarebbe un vero peccato. Anche perchè lo zenzero è una spezia che abbonda di proprietà salutari, e viene considerato portentoso sin da tempi remotissimi.

 

 

Vanta virtù energizzanti, mantiene giovani e genera benefici per l’ intero organismo. E’ infatti un potente antiossidante, antibatterico oltre che antinfiammatorio, favorisce il benessere dello stomaco (azzerando la nausea e facilitando la digestione) e rafforza il sistema immunitario. Questa spezia appartenente alla specie delle Zingiberaceae – una pianta che proviene dall’ Estremo Oriente – possiede inoltre la facoltà di diminuire i livelli di glicemia e di colesterolo: un punto di forza non da poco. Durante l’ inverno è un autentico toccasana per i malanni stagionali. Nello specifico, lo zenzero è ricco di carboidrati, acqua e proteine, ma è anche una preziosa miniera di minerali quali il potassio, il fosforo, il calcio, il sodio, il ferro, lo zinco e il manganese.

 

 

Relativamente alla storia e alle leggende che la circondano, poi, la radice di zenzero è in grado di meravigliarci al pari dei dolci che con essa vengono preparati. Innanzitutto va detto che questa spezia, secoli orsono, veniva considerata magica. Il motivo principale risiedeva nel fatto che gli antichi popoli scoprirono che favoriva la conservazione dei cibi, ma non solo. Le sue virtù furono apprezzate fin da subito, quando Alessandro Magno la “trapiantò” in Europa dall’ Oriente. Greci e Romani ne decantavano le virtù: e se Confucio, nella lontana Cina, giudicava lo zenzero un ottimo “disintossicante” per la mente, pare che Dioscoride Pedanio, medico e botanico vissuto nella Roma imperiale di Nerone, lo ritenesse insuperabile per sedare i disturbi di stomaco. Secondo Pitagora, invece, lo zenzero era perfetto come antidoto al veleno dei serpenti. Tra il 1400 e il 1500, durante il regno di Enrico VIII, in Inghilterra si credeva che avesse il potere di allontanare le epidemie. Nel Medioevo, effettivamente, lo zenzero aveva acquisito un valore inestimabile sotto tutti i punti di vista. Per fare solo un paio di esempi, era richiestissimo in cucina e cominciò a guadagnarsi la fama di essere un efficace afrodisiaco.

 

 

Molto importante è citare la valenza magica attribuita allo zenzero sin dalla notte dei tempi. I maghi bruciavano la sua radice e utilizzavano il fumo per compiere svariati rituali, uno su tutti rompere incantesimi. Dalla spezia venivano estratti speciali profumi che avevano lo scopo di instaurare un contatto con l’aldilà. Si riteneva che tramite lo zenzero fosse possibile invocare la potenza del Sole, o del Dio Marte, ma non veniva unicamente utilizzato dagli “operatori dell’ occulto” (tra cui le streghe). Antiche credenze dotavano lo zenzero della capacità di esaudire i desideri (bastava masticarne la radice quel tanto che bastava per interiorizzare i suoi poteri), propiziare ricchezza e prosperità, rinvigorire l’energia, scongiurare i malanni, allontanare la malasorte, tornare a far ardere l’ amore sensuale in un rapporto di coppia…Amuleti allo zenzero proliferavano così come i medicinali che contenevano la sua radice, ritenuta altamente salutare.

 

 

In Inghilterra, gli omini al pan di zenzero che compaiono durante le festività (soprattutto a Natale, quando i simpatici biscotti assumono le forme dei tipici emblemi del periodo) vantano una lunga e prestigiosa storia. Pare che fu la Regina Elisabetta I Tudor a farli preparare, poichè amava offrirli agli autorevoli ospiti che invitava a corte. In seguito, intorno al 1875 circa, l’ omino al pan di zenzero (in inglese “gingerbread man”) diventò il protagonista di una fiaba/filastrocca famosissima nei paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa. La storiella viene tuttora narrata ai bambini in occasione del Natale, ma il fatto che sia stata tramandata oralmente e che abbia conosciuto un’ ampissima diffusione ha fatto sì che ne esistano innumerevoli versioni. 

 

 

Il 25 Dicembre del 1905 a Broadway venne addirittura inaugurato un musical, “The Gingerbread Man”, che rimase in cartellone per mesi sia a New York che a Chicago. Il biscotto più amato di Natale appare anche ne “La strada per Oz”, il libro che Lyman Frank Baum scrisse a mò di sequel de “Il meraviglioso mago di Oz” (la serie dei “Libri di Oz” contiene ben tredici volumi), ma il nostro eroe è comparso perfino sul grande schermo: riveste il ruolo di protagonista nel cortometraggio muto “John Dough and the Cherub” (1910) di Otis Turner e si fa notare tra i personaggi delle fiabe della saga di “Shrek” (che ha avuto inizio nel 2001).

 

 

Le storie del cielo

 

” La neve cadeva pesante, approfondiva il silenzio, veniva immediatamente dal cielo e portava con sé un mistero inesplicabile. Qualche fiocco restava appeso alla finestra e sembrava una piccola stella piena di luce. Altri cadevano sul davanzale e coprivano lentamente le briciole che aspettavano gli uccelli. Una volta pregai la nonna: «Nonna, raccontami anche una storia del cielo». Allora la nonna domandò: «Perché anche?». «Perché la neve viene di lassù e dice sicuramente che in cielo è tutto bianco». Allora la nonna raccontò storie del cielo; ma raccontava anche molto dei suoi ricordi di gioventù e le storie del vecchio mulino e delle magiche foreste. “

 

Adrienne Von Speyr, da “Dalla mia vita – Autobiografia dell’ età giovanile”

 

 

 

 

 

Il concetto Gucci

 

” Aldo promosse anche il “concetto Gucci”, un’ armonia di stili e colori che avrebbe dato uniformità ai prodotti, rendendoli subito identificabili. Il mondo delle scuderie e dei cavalli divenne una ricca fonte d’ispirazione per i prodotti Gucci: la doppia cucitura usata nella fabbricazione delle selle, le fettucce verdi e rosse delle cinghie del sottopancia, e la fibbia a forma di due staffe collegate con il morsetto di cavallo divennero marchi Gucci. Ben presto, Aldo, genio del marketing, cominciò a far circolare la leggenda che i Gucci erano stati nobili fabbricanti di selle per le corti medievali – un’ immagine perfetta per la clientela d’élite a cui Gucci si rivolgeva. Le selle e gli accessori per l’equitazione esposti nei negozi contribuirono a rafforzare la leggenda e alcuni articoli furono persino venduti. E non ha smesso di circolare: tuttora alcuni membri della famiglia ed ex dipendenti sostengono che un tempo i Gucci erano stati sellai. “

Sara Gay Forden, da “House of Gucci”

 

 

 

 

 

La luce della Città

 

” D’inverno, come in nessun’altra città al mondo, calava la quiete sulle vie e sui vicoli tanto della Città alta, sulle colline, che della Città bassa, che si stendeva lungo le anse del Dnepr intirizzito, e tutto il rombo delle macchine si perdeva all’interno degli edifici di pietra, si smorzava e diventava un borbottio sordo. Tutta l’energia della Città, accumulata nel corso di un’estate di sole e temporali, si profondeva in luce. Dalle quattro del pomeriggio la luce cominciava ad ardere nelle finestre delle case, in tondi globi elettrici, nei lampioni a gas, nei fanali delle case con i numeri illuminati, e nelle vetrate a tutta parete delle centrali elettriche, che evocavano il pensiero del futuro elettrico dell’umanità, terribile e irrequieto, con le loro finestre a tutta parete dove si vedevano le ruote scatenate delle macchine che giravano senza posa, squassando fino alla radice le fondamenta stesse della terra. Scintillava di luce e traboccava luce, riluceva e danzava e baluginava la Città, nelle notti, fino al mattino, e al mattino si spegneva, indossava il fumo e la nebbia. “

Michail Bulgakov, da “La guardia bianca”

 

 

L’ estate indiana

 

“L’estate indiana è come una donna: morbida, calda, appassionata, ma incostante. Va e viene come e quando le pare e nessuno sa se arriverà davvero né per quanto si tratterrà. Nel New England settentrionale l’estate indiana tarda un poco l’avanzare dell’inverno e porta con sé l’ultimo tepore dell’anno. È una stagione che non esiste e che vive fino al sopraggiungere dell’inverno, con la sua corte di ghiaccio, di alberi spogli, di brina. I vecchi, ai quali i venti rigidi hanno succhiato la giovinezza, sanno che l’estate indiana è un inganno e che la si deve accogliere con sospetto e cinismo. Ma i giovani l’attendono con ansia, scrutano il cielo grigio d’autunno alla ricerca di un segno che ne annunci l’arrivo. E a volte i vecchi, pur conoscendo la verità, aspettano insieme ai giovani, con gli stanchi occhi invernali rivolti al cielo, e cercano le prime tracce dell’ingannevole dolcezza.”

Grace Metalious, da “I peccati di Peyton Place”