La Toscana d’autunno

 

” La Toscana è bella d’autunno. Puoi camminare lungo sentieri che hanno il profumo dei funghi e delle ginestre, ascoltare le voci del vento che chiama dai poggi orlati di cipressi e di abeti, pescare le anguille nei borri dove il torrente rotola sui sassi scivolosi di borracina, andare a caccia di lepri e di fagiani nelle macchie di erica rossa, ed è tempo di vendemmia, l’ uva si gonfia violetta tra i pampini fitti, i fichi pendono dolci dai rami che fremono di fringuelli e di allodole, nei boschi le foglie si accendono di giallo e di arancione bruciando il monotono verde d’estate. Se ti senti stanco di te stesso e hai bisogno di ritrovare te stesso, lavarti dei dubbi, non c’è posto migliore della Toscana d’autunno: andiamo in Toscana, ti dissi. Venisti, e la vecchia casa sulla collina non era mai stata incantevole come quell’ autunno. L’ edera l’ aveva fasciata in fiammate di rosso che si arrampicavano fino alle finestre del secondo piano e ai merli della torretta, i rosai erano inaspettatamente sbocciati in un tripudio primaverile, e così il glicine che dalla ringhiera della terrazza prorompeva in cascate di tenero azzurro. Era fiorito anche il corbezzolo dinanzi alla cappella, bacche di porpora su cui i merli si gettavano ingordi, e nella vasca le ninfee galleggiavano bianche, superbe. Tu però vi gettasti un’ occhiata di indifferenza e poi ti confinasti in una reclusione che escludeva ogni interesse o curiosità. Per giorni e giorni non uscisti quasi mai. Non ti inoltrasti mai tra i filari di viti per cogliere un chicco d’uva, non ti recasti mai nel bosco per respirare l’aria odorosa di ginestre e ammirare il paesaggio dalla cima del crinale. Solo una volta ti spingesti trenta metri oltre il cancello per scoprire, sorpreso, che le castagne maturano dentro un involucro irto di aculei e le noci dentro una buccia chiamata mallo, e un’ altra scendesti in giardino per notare con raccapriccio che nella vasca delle ninfee c’erano i pesci e per chiedere se nella cappella c’erano i morti. “

 

Oriana Fallaci, da “Un uomo”

 

 

Il voto della futura Regina

 

” Il 21 aprile, nel giorno del ventunesimo compleanno della principessa, il discorso venne mandato in onda fingendo che si tenesse in diretta nella Government House di Città del Capo, di fronte a un pubblico radiofonico di oltre 200 milioni di individui che si erano sintonizzati per ascoltare la futura regina, americani compresi. Elisabetta chiarì fin dalla prima frase che l’esistenza che aveva scelto di consacrare all’espansione del Commonwealth non era una questione che riguardava soltanto i bianchi. “Colgo volentieri l’occasione per rivolgermi a tutti i popoli del Commonwealth e dell’Impero Britannico, dovunque essi vivano, a qualunque razza appartengano e qualsiasi lingua parlino.” Il discorso durò sette minuti e raggiunse il culmine nel passo in cui la principessa dichiarò di dedicare la vita al servizio della Corona e del suo popolo. Era una dichiarazione che ricalcava quasi un voto religioso e aveva commosso Elisabetta quando aveva letto le bozze per la prima volta. “Oggi desidero farvi una promessa. E’ molto semplice. Dichiaro davanti a voi che dedicherò tutta la mia vita, lunga o breve che sia, al vostro servizio e al servizio della grande famiglia imperiale a cui tutti apparteniamo. Ma non avrò la forza di portare a compimento questo impegno a meno che anche voi non vi uniate a me, e oggi vi invito a farlo. Sono certa che il vostro sostegno non verrà mai meno. Che Dio mi aiuti a realizzare questa promessa e benedica tutti quelli che vorranno prendervi parte.” In ogni parte del mondo molti interruppero l’attività quotidiana per ascoltare le parole della principessa, che chiaramente provenivano dal cuore. Il discorso fece venire le lacrime agli occhi al re, alla regina e alla regina Maria (…). Churchill, notoriamente emotivo fino alla punta del suo famoso sigaro, ammise di essersi commosso anche lui.”

 

Andrew Morton, da “The Queen. Elisabetta, 70 anni da regina.”

 

 

Foto di Lee Haywood, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

 

Punti di luce

 

” Ho guardato in basso, e di colpo c’era la città, come un immenso lago nero pieno di plancton luminoso, esteso fino ai margini dell’ orizzonte. Ho guardato i punti di luce che vibravano nella distanza: quelli che formavano un’ armatura sottile di paesaggio, fragile, tremante; quelli in movimento lungo percorsi ondulati, lungo traiettorie semicircolari, lungo linee intersecate. C’erano punti che lasciavano tracce filanti, bave di luce liquida; punti che si aggregavano in concentrazioni intense, fino a disegnare i contorni di un frammento di città e poi scomporli di nuovo, per separarsi e allontanarsi e perdersi sempre più nel buio. Li guardavo solcare gli spazi del tutto neri che colmavano inerti il vuoto, in attesa di assorbire qualche riflesso nella notte umida. “

Andrea De Carlo, da “Treno di Panna”

 

 

 

Dante e il momento perenne

 

” Beatrice, diciottenne, affiancata da due fantesche, stava dirigendosi verso la chiesa di Santa Margherita mentre Dante, appiattito in una sorta di incavo del muro, tratteneva il fiato. La giovane, pur avvedendosi della sua presenza, confermando l’atteggiamento di sempre, andò oltre. Aveva raggiunto l’ingresso della Chiesa quando all’ improvviso si fermò. “Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”, era la sua canzone, “al tuo fedele, che, per vederti, ha mosso passi tanti!”  E lei, come obbedendo alla sua implorazione, si girò. Lui seppe che stava accadendo qualcosa di assolutamente inatteso, di immaginario. Dal più alto dei Cieli i Serafini, i Cherubini, i Troni, le Dominazioni erano scesi su quel minuscolo vicolo del grande mondo. Ora Beatrice lo stava fissando sorridendogli. “Vi saluto” sussurrarono le labbra benedette di lei nello stradello delle acque di scolo. Lui la guardava esterrefatto implorando il suo Dio di far durare quel sorriso di lei tutti i giorni della sua vita. “Vi saluto” le fece eco lui nel vicolo dei fradici muschi.

L’ ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente la nona di quel giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza…

Beatrice e le sue donne erano scomparse all’ interno della chiesa. Lui, in un mescolarsi di tremore e commozione, si lasciò scivolare lungo la parete, le gambe raccolte, stretto in se stesso. Rientrò a casa solo all’ imbrunire, saltando la cena per chiudersi prima possibile in quella sorta di sottotetto che gli permetteva di isolarsi dalla matrigna e dai fratellastri. Sul suo letto fissava il grande buio al colmo di una felicità immensa. Non doveva dimenticare nulla ma rendere perenne quel momento in cui lei aveva rallentato il passo, doveva rendere eterno il suo lento girarsi prima di decidersi a sorridergli e salutarlo. Un saluto che gli rivelava quanto conoscesse la sua pena. Si era voluto convincere che, con quel saluto, avesse inteso confidargli che qualunque cosa fosse accaduta tra loro, che lei fosse data in sposa a un altro, che avesse addirittura perduta la vita, lui avrebbe dovuto saperla sua, oltre ogni ragionevolezza, lui avrebbe potuto disporre di lei, come qualcosa che non è più da considerarsi nella contingenza del vivere.  ”

Pupi Avati, da “L’ alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante.”

 

 

Dipinto: “Dante meets Beatrice at Ponte Santa Trinità” (1883) di Henry Holiday

 

La luna di settembre

 

” Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla? L’ amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista così, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’ infantile, tanto che dissi: – E’ una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna. – Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa. Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassù fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’ amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’ indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva. Così quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo. “

Cesare Pavese, da “Feria d’agosto”

La collezione di sabbia

 

” C’è una persona che fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia marina, alle rive d’un fiume o d’un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie una manciata d’arena e se la porta con sé. Al ritorno, l’attendono allineati in lunghi scaffali centinaia di flaconi di vetro entro i quali la fine sabbia grigia del Balaton, quella bianchissima del Golfo del Siam, quella rossa che il corso del Gambia deposita giù per il Senegal, dispiegano la loro non vasta gamma di colori sfumati, rivelano un’uniformità da superficie lunare, pur attraverso le differenze di granulosità e consistenza, dal ghiaino bianco e nero del Caspio che sembra ancora inzuppato d’acqua salata, ai minutissimi sassolini di Maratea, bianchi e neri anch’essi, alla sottile farina bianca punteggiata di chiocciole viola di Turtle Bay, vicino a Malindi nel Kenia. (…) Passando in rivista questo florilegio di sabbie, l’occhio dapprima coglie soltanto i campioni che fanno più spicco, il color ruggine d’ un letto secco di fiume del Marocco, il bianco e nero carbonifero delle isole Aran, o una mescolanza cangiante di rosso bianco nero grigio che sull’ etichetta porta un nome ancor più policromo: isola dei Pappagalli, Messico. Poi le differenze minime tra sabbia e sabbia obbligano a un’ attenzione sempre più assorta, e così a poco a poco s’entra in un’ altra dimensione, in un mondo che non ha altri orizzonti che queste dune in miniatura, dove una spiaggia di sassolini rosa non è mai uguale a un’altra spiaggia di sassolini rosa (mescolati coi bianchi in Sardegna e nelle isole Grenadine dei Caraibi; mescolati coi grigi a Solenzara in Corsica), e una distesa di minuscola ghiaia nera a Port Antonio in Giamaica non è uguale a una dell’ isola Lanzarote nelle Canarie, nè a un’altra che viene dall’ Algeria, forse in mezzo al deserto. Si ha l’ impressione che questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa d’importante: una descrizione del mondo? un diario segreto del collezionista? o un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Tutto questo insieme, forse. “

Italo Calvino, da “Collezione di sabbia”

Vacanze in moto

 

” Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. E’ incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi – un’ esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata. Chris e io stiamo andando nel Montana con due amici; forse ci spingeremo ancora più lontano. I programmi sono volutamente vaghi, abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito. Siamo in vacanza. Diamo la preferenza alle strade secondarie: il meglio sono le strade provinciali asfaltate, poi le statali, e ultime le autostrade. Ci preoccupiamo più di come passiamo il tempo che non di quanto ne impieghiamo per arrivare: l’ approccio cambia completamente. (…) Le strade con poco traffico sono più gradevoli, oltre che più sicure, e anche quelle senza autogrill e cartelloni, strade dove boschetti e pascoli e frutteti si possono quasi toccare, dove i bambini ti fanno ciao con la mano e la gente guarda dalla veranda per vedere chi arriva; quando ti fermi per chiedere informazioni la risposta tende ad essere più lunga del dovuto invece che più corta, e tutti ti domandano da dove vieni e da quanto tempo sei in viaggio. “

 

Robert M. Pirsig, da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”

Gelati, sorbetti e l’ estasi del palato

 

” Adoro i gelati: crema gelida satura di latte, grasso, aromi artificiali, pezzi di frutta, chicchi di caffè, rum; gelati italiani di consistenza vellutata che formano monumentali scale di vaniglia, fragola o cioccolato; coppe gelato che crollano sotto il peso della panna, della pesca, delle mandorle e di ogni sorta di sciroppo; semplici stecchi dal rivestimento croccante, delicati e tenaci insieme, che si gustano per strada tra un appuntamento e l’altro, o le sere d’estate, davanti alla televisione, quando siamo sicuri che solo così avremo un po’ meno caldo, un po’ meno sete; e infine i sorbetti, sintesi riuscita di ghiaccio e frutta, che rinfrescano con vigore e si sciolgono in bocca come una colata gelida. E infatti, nel piatto che mi era stato poggiato di fronte ce n’erano alcuni preparati da Marquet: uno al pomodoro, l’altro, molto classico, ai frutti e bacche di bosco, e l’ ultimo all’ arancia. Nella semplice parola “sorbetto” si incarna un mondo intero. Provate a pronunciare ad alta voce: “Vuoi un gelato?” e poi in rapida successione: “Vuoi un sorbetto?” e apprezzate la differenza. E’ un po’ come quando, aprendo la porta, si butta là un distratto: “Vado a prendere un dolce”, mentre senza ostentazione ci saremmo potuti offrire un piccolo e nient’affatto banale: “Vado a comperare dei pasticcini” (scandire bene le sillabe: non “pstccini” ma “pas-tic-ci-ni”) e , con la magia di un’ espressione appena un po’ antiquata e preziosa, creare con poco un mondo di armonie desuete. (…) il sorbetto è aereo, quasi immateriale, fa appena un po’ di schiuma a contatto con il nostro calore, poi, vinto, schiacciato, liquefatto, evapora in gola, lasciando alla lingua solo l’affascinante reminiscenza del frutto e dell’ acqua che sono scivolati via. “

 

Muriel Barbery, da “Estasi culinarie”

I sogni e il Buon Combattimento

 

” L’ uomo non può mai smettere di sognare. Il sogno è il nutrimento dell’anima, come il cibo è quello del corpo. Molte volte, nel corso dell’esistenza, vediamo che i nostri sogni svaniscono e che i nostri desideri vengono frustrati, tuttavia è necessario continuare a sognare, altrimenti la nostra anima muore e Agape non può penetrarvi. Molto sangue è stato versato nel campo davanti ai tuoi occhi; lì sono state combattute alcune delle battaglie più crudeli della Riconquista. Non ha alcuna importanza chi avesse la ragione o chi possedesse la verità: l’importante è sapere che entrambe le parti stavano combattendo un Buon Combattimento. Il Buon Combattimento è quello che viene intrapreso perché il nostro cuore lo chiede. Nelle epoche eroiche, al tempo dei cavalieri erranti, era qualcosa di facile: c’erano molte terre da conquistare e molte cose da fare. Oggi, però, il mondo è profondamente cambiato, e il Buon Combattimento ha abbandonato i campi di battaglia per trasferirsi all’ interno di noi stessi. Il Buon Combattimento è quello che viene intrapreso in nome dei nostri sogni. Quando essi esplodono in noi con tutto il loro vigore – vale a dire, in gioventù – abbiamo molto coraggio, ma non sappiamo ancora batterci. Dopo tanti sforzi, finalmente impariamo a lottare, e a quel punto non abbiamo più lo stesso coraggio per combattere. A causa di ciò, ci rivoltiamo e combattiamo contro noi stessi, diventando il nostro peggior nemico. Diciamo che i nostri sogni erano infantili, difficili da realizzare, o frutto di una nostra ignoranza riguardo alle realtà della vita. Uccidiamo i nostri sogni perché abbiamo paura di combattere il Buon Combattimento. “

Paulo Coelho, da “Il cammino di Santiago”

Notte d’agosto lungo la via Emilia

 

” Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche e dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata. Lungo la via Emilia ne incontro le indicazioni luminose e intermittenti, i parcheggi ampi e infine le strutture di cemento e neon violacei e spot arancioni e grandifari allo iodio che si alzano dritti e oscillano avanti e indietro così che i coni di luce si intrecciano alti nel cielo e pare allora di stare a Broadway o nel Sunset Boulevard in una notte di quelle buone con dive magnati produttori e grandi miti. Ne immagino ventuno ma prima di entrare in Parma sono già trentatré, la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché. “

 

Pier Vittorio Tondelli, da “Camere separate”