Takatalvi: una parentesi d’Inverno nel bel mezzo della Primavera

 

La Primavera è arrivata anche in Finlandia, un paese che nei mesi scorsi abbiamo visitato spesso. Ad Aprile, mentre in Lapponia si scia sotto il sole e le aurore boreali sono sempre più rare, nel sud del paese iniziano le prime fioriture. Le differenze climatiche sono notevoli, data la vastità della cosiddetta “terra dei mille laghi”: a nord, le temperature scendono ancora sottozero. Nell’area meridionale della Finlandia, in particolare lungo la costa e dalle parti di Helsinski, oltrepassano invece i 10 gradi. La neve si scioglie, le ore di luce aumentano ogni giorno che passa, i fiori si schiudono…Ma non solo. Quando i prati diventano grandi distese fiorite, per i volatili è tempo di migrazione. La maggior parte vola in direzione dell’Artico, e un gran numero di persone si prepara ad osservare il loro volo. Non è un caso che, in Finlandia, il birdwatching sia una delle attività più praticate: esistono quasi 500 specie di uccelli, molti dei quali vivono esclusivamente entro i confini del paese.

 

 

Sono molteplici gli animali che in questo periodo escono dal letargo; la stagione degli amori è appena cominciata, proliferano i rituali di corteggiamento. Chi pensa che in Scandinavia regnino il buio e il freddo 365 giorni all’anno, insomma, dovrà ricredersi. La rinascita primaverile, lì, viene celebrata con tutti i crismi. Eppure, esiste un fenomeno singolarissimo che è in grado di riportare l’Inverno in un batter d’occhio: quel fenomeno si chiama “takatalvi”, ovvero “Inverno che torna”.  Si verifica nel cuore della Primavera, quando il risveglio è nel suo pieno. Un giorno il sole brilla, gli uccelli cinguettano e l’aria si impregna del profumo dei fiori, e il giorno dopo impazza una bufera di neve. E’ come tornare indietro nel tempo, così, all’improvviso. In poche ore il paesaggio diventa irriconoscibile, tutto si copre di un bianco abbagliante. Da Pasqua si torna a Natale: vento, gelo, fiocchi di neve che vorticano nel cielo. La cosa più incredibile è che takatalvi si esaurisce in un baleno. Se di mattina nevica come se non ci fosse un domani, di pomeriggio torna a splendere il sole.

 

 

Takatalvi è un fenomeno passeggero. L’Inverno torna, ma solo per un breve lasso di tempo. E’ quasi uno scherzo, un capriccio della natura. Che si infuria e si imbianca per un momento, ripristina un’altra stagione, però poi cede alle lusinghe della Primavera. E dopo qualche ora la neve sparisceun e gli uccelli ricominciano a cinguettare. I finlandesi ci sono abituati, gli italiani che vivono in Finlandia hanno imparato ad accettare takatalvi. Per loro è come fare una scommessa: che stagione sarà, domani?… e si lasciano coinvolgere dal gioco della natura.

 

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22 Aprile, Giornata Mondiale della Terra 2025: “Il nostro potere, il nostro pianeta”

 

“O vasto globo, che per lo spazio salpi, | tutto coperto di visibile forza e di bellezza, | che la luce del giorno con la feconda tenebra spirituale alterni, | indicibili, alte processioni di sole, luna, stelle incalcolabili lassù, | sotto, la multiforme erba, le acque, gli animali, gli alberi, le montagne, | a scopi imperscrutabili, qualche celata intenzione profetica, | per la prima volta mi pare che il mio pensiero cominci ad abbracciarti.”

(Walt Whitman , da “Foglie d’erba”, I Meridiani Mondadori 2017)

Per celebrare il 55simo anniversario della Giornata Mondiale della Terra, oggi pubblico una photostory che inneggia alle meraviglie della natura e alla rinascita primaverile. Il tema che fa da filo conduttore al World Earth Day 2025 è “Our Power, Our Planet”, “Il nostro potere, il nostro pianeta”: un appello, un’esortazione, un monito che chiama in causa chiunque, a livello globale, con il fine di spronarlo ad attuare il mutamento necessario per proteggere e salvare il globo terrestre. In particolare, questa edizione sarà incentrata sulle fonti di energia rinnovabili, in grado di diminuire la quantità di anidride carbonica rilasciata da combustibili fossili come il petrolio, il carbone e il gas naturale. Buona Giornata Mondiale della Terra a tutti, dunque. E che ognuno di noi si impegni in prima persona a mantenere in salute la Terra, la nostra casa.
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Lilla, il colore di Aprile

 

Lilla è il colore del mese di Aprile. Forse perchè ad Aprile sboccia il fiore da cui nel 1775 ha preso il nome, il Syringa Vulgaris, comunemente chiamato lillà: la sua è una fioritura spettacolare, pannocchie di piccoli fiori che rapiscono sia lo sguardo che l’olfatto. Ma a quale significato si associa il color lilla? Innanzitutto all’amore, o meglio all’innamoramento giovanile: rievoca un corteggiamento d’altri tempi, ricco di piccoli gesti pregni di significato e di struggenti emozioni. Nella Grecia antica, i ragazzi erano soliti regalare fiori di lillà alle giovani che avrebbero voluto prendere in moglie. Il lilla è gentilezza, nostalgia, sensibilità. Non è un caso che venga collegato alla sfera emotiva, al femminile, ai languori adolescenziali. Ad avvalorare questo nesso c’è un’antica leggenda, quella della ninfa Siringa e del dio Pan. Si narra che Pan, il dio greco delle montagne, della vita agreste e della fertilità, si innamorò a prima vista di Siringa, splendida ninfa dell’acqua e figlia di Ladone, il dio dei fiumi. Quando Pan incontrò Siringa in un bosco, cominciò a corteggiarla pesantemente; ma Siringa, che non gradiva le sue attenzioni, per sfuggirgli si tramutò in un arbusto di lillà. Questa leggenda ispirò anche il nome botanico del lillà, Syringa vulgaris. Durante l’età vittoriana, il lilla venne associato al lutto: le vedove indossavano abiti di questo colore e ricevevano in regalo fiori di lillà per commemorare il caro estinto. La simbologia del lilla si ribaltò completamente nel secondo millennio; gli anni ’20, con il fenomeno delle flapper, videro imporsi una nuova figura femminile, più ribelle e padrona di se stessa. Il lilla, a quell’epoca, divenne un colore di gran moda per il make up. Nel periodo del boom economico, invece, la voga del lilla coinvolse l’architettura d’interni, e più recentemente, soprattutto a partire dagli anni ’80, il lilla cominciò a furoreggiare anche nel mondo della moda. Alcuni tendono a confondere il lilla con il lavanda, che però ha un sottotono più freddo; per avere un’idea precisa di questa nuance, è sufficiente sapere che viene ottenuta da un mix di rosso e blu con l’aggiunta di una pennellata di bianco: è proprio grazie al bianco che il lilla assume la sua caratteristica e inconfondibile tonalità pastello.

 

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Chi dice fiore, dice colore

 

Mi chiedi perché compro riso e fiori? Compro il riso per vivere e i fiori per avere una ragione per cui vivere.
(Confucio)

 

Fiori, tanti, ovunque, e colori, intensi o tenui ma rigeneranti e forieri di nuove speranze. E’ una tendenza che non va tanto seguita, bensì fatta propria, adottata come riferimento o motivo ispiratore. Non è un caso che sulle passerelle della Primavera Estate 2025 abbia sfilato un autentico tripudio floreale: girasoli da Bottega Veneta, gigli da Issey Miyake, orchidee da Dries Van Noten; i fiori spopolano e, come suggerito anche da MyVALIUM, si integrano nel make up e intrecciano tra i capelli. I colori si muovono lungo la stessa traiettoria. Il nero viene soppiantato da cromie gioiose e rivitalizzanti, un cocktail di Primavera composto da miriadi di sfumature: verde, arancio, azzurro, menta, rosa, giallo burro, viola, lilla…una tavolozza che trionfa per il suo ottimismo, per la sua vivacità. Perchè il “think pink” è troppo riduttivo per combattere il grigiore; ciò che serve, è un caleidoscopio di colori.

 

Aprile e i suoi proverbi

 

Aprile è il mese in cui la natura rifiorisce. Un mese che fa da ponte tra gli acquazzoni di Marzo e la suggestività bucolica di Maggio. Meteorologicamente incostante, ma pieno di promesse, ci offre una sola certezza: la Primavera è ormai arrivata. E’ anche per questo che viene celebrato da miriadi di proverbi. La saggezza popolare lo tiene d’occhio, lo studia attentamente,  formula ipotesi; perchè è uno dei mesi che anticipa l’Estate e il periodo gioioso della trebbiatura.

 

 

Aprile, dolce dormire.

 

 

D’Aprile i fiori, a Maggio gli onori.

 

 

Aprile una goccia o un fontanile.

 

 

D’Aprile, non ti scoprire.

 

 

Marzo asciutto e Aprile bagnato, beato il villano che ha seminato.

 

 

Aprile e Maggio son la chiave di tutto l’anno.

 

 

Aprile suol essere cattivo da principio o al fine.

 

 

La vite che viene portata in Aprile, lascia svuotato ogni barile.

 

 

La prim’acqua d’Aprile vale un carro d’oro con tutto l’assile.

 

Speciale Hanami: il lessico dei sakura e le date delle fioriture

 

Dell’Hanami (in giapponese “osservare i fiori”) e dei sakura (“fiori di ciliegio”), su MyVALIUM, ho già parlato molte volte. Ma dato che in Giappone, in questi giorni, la fioritura dei ciliegi raggiunge il massimo splendore, vorrei esplorare un aspetto poco conosciuto del periodo dell’anno più atteso e celebrato nel Sol Levante: il lessico dell’Hanami, ovvero le parole che i giapponesi associano al rito della contemplazione dei sakura e alla Primavera in generale. I fiori di ciliegio e la loro fioritura, in Giappone, rappresentano qualcosa di talmente straordinario che esistono oltre 70 termini dedicati ai sakura e all’Hanami. Per ragioni di spazio sarebbe impossibile citarli tutti, perciò ne riporto solo alcuni. Andiamo subito a scoprire quali.

 

 

Asazakura

Ammirare i sakura dona sensazioni inebrianti in ogni istante, ma per i giapponesi l’alba rappresenta un momento speciale: nasce un nuovo giorno, e i fiori di ciliegio, impregnati di rugiada, raggiungono l’apice della bellezza. Le gocce d’acqua che ricoprono i loro petali li fanno scintillare mentre riflettono i bagliori del sole che sorge, conferendo una bellezza non comune al sakura del mattino.

 

 

Adazakura

Con questo termine si indica la bellezza transitoria ed effimera dei sakura: il fiore di ciliegio ha vita breve, i suoi petali vengono strappati al ramo da un alito di vento e i viali si riempiono, ben presto, di tappeti composti da corolle smembrate. Per i giapponesi, tutto ciò che è fugace riveste un significato importante; di conseguenza adorano lo stato d’animo vagamente malinconico indotto da quella visione.

Hanagasumi

Viste da una certa distanza, le chiome dei ciliegi in fiore somigliano a una coltre di nebbia. La parola “Hanagasumi” evoca tutta la poesia e la suggestività di quell’immagine flou, impregnata di accenti onirici.

 

 

Hanafubuki

Un altro termine che rimanda al meteo: quando il vento è molto forte, fa volteggiare vorticosamente i sakura che cadono dai rami. Sembrano fiocchi di neve nel pieno di una bufera. Anche questa immagine risulta estremamente pittoresca ed evocativa.

Sakurafubuki

Ha più o meno lo stesso significato della parola precedente: sta ad indicare la “tempesta” di fiori di ciliegio prodotta da un vento sferzante che libra nell’aria i loro petali.

 

 

Hanabie

Rimaniamo focalizzati sul meteo, prendendo in prestito questo termine dalla poesia giapponese. Si parla di Hanabie quando all’improvviso, una volta che la Primavera è arrivata e i fiori di ciliegio sono già sbocciati, l’Inverno torna a colpire con tutta la sua irruenza e ricopre i ciliegi di neve: un colpo di coda che non è poi così infrequente.

Hatsuzakura

Sono i primi sakura sbocciati in Primavera, quelli che danno il via al rito dell’Hanami ma non solo: i giapponesi li immortalano in foto e video, li decretano protagonisti di servizi televisivi e giornalistici…Rappresentano un vero e proprio evento anticipato da previsioni meteo relative alle date delle fioriture in ogni città.

 

 

Hazakura

Corrisponde al periodo in cui, quando tutti i fiori sono caduti, sul ciliegio iniziano a spuntare le prime foglie. Foglie che si infittiscono man mano che arriva l’Estate. Inizia un nuovo ciclo: la magia primaverile è terminata, i sakura vengono sostituiti dal fogliame. La natura, come sempre, fa il suo corso.

 

 

Hanamizake

Se rileggete questo articolo, troverete molte informazioni sul rito dell’Hanami. E scoprirete che il saké, la bevanda nazionale giapponese, è una delle più bevute durante gli interminabili picnic sotto le chiome dei ciliegi in fiore. Si parla di Hanamizake ogni qualvolta dei petali di sakura, cadendo dal loro ramo, finiscono in una ciotola ricolma di saké.

 

 

Sakura zensen

Il Japan Meteorological Corporation comunica ai giapponesi le date in cui, ogni anno, i ciliegi fioriranno  nelle città principali del paese. I sakura, infatti, sbocciano prima nel sud del Sol Levante, dove le temperature sono più calde, e successivamente nel nord, dove il clima è decisamente più rigido. Le fioriture, dunque, seguono un ipotetico asse che dal sud (Kyushu) si muove verso nord (Hokkaido): ecco il concetto che si associa al sakura zensen.

 

 

Quando ammirare le fioriture in alcune città giapponesi

A proposito di sakura zensen: se prevedete di viaggiare in Giappone, segnatevi le date delle fioriture nelle città che vi indico qui di seguito.

  • Tokyo ⇒ fioritura il 24 Marzo, piena fioritura il 30 Marzo
  • Osaka ⇒ fioritura il 29 Marzo, piena fioritura il 5 Aprile
  • Nagoya ⇒  fioritiura il 26 Marzo, piena fioritura il 4 Aprile
  • Nagano ⇒  fioritura il 10 Aprile, piena fioritura il 15 Aprile
  • Aomori ⇒ fioritura il 18 Aprile, piena fioritura il 22 Aprile
  • Fukuoka ⇒fioritura il 26 Marzo, piena fioritura il 4 Aprile
  • Hiroshima ⇒ fioritura il 27 Marzo, piena fioritura il 6 Aprile
  • Kyoto ⇒ fioritura il 28 Marzo, piena fioritura il 6 Aprile
  • Kanazawa ⇒ fioritura il 3 Aprile, piena fioritura il 9 Aprile
  • Sapporo ⇒ fioritura il 26 Aprile, piena fioritura il 30 Aprile

 

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I vini dealcolati, la nuova frontiera del beverage

 

Siete dei fan del rito dell’aperitivo ma bere alcolici tutte le sere vi ha stancato? Questa è la notizia che fa per voi: dal 18 Dicembre scorso, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha autorizzato ufficialmente la produzione di vino dealcolato, ossia privato (in modo totale o parziale) di alcol. E’ importante sapere che la dealcolazione a cui sono sottoposti i vini consta di un procedimento chimico che non ne intacca in alcun modo il sapore. Il gusto rimane lo stesso, come pure l’aroma. Ciò che viene ridotto è il tenore alcolico: il tasso alcolico dei vini dealcolati deve essere inferiore allo 0,5%, e non deve superare l’8,5% per i vini parzialmente dealcolati.

 

 

Ma quali tipologie di vino possono essere soggette al processo di dealcolazione? Nel decreto si escludono tre categorie, i vini IGT (Indicazione Geografica Tipica), DOC (Denominazione di Origine Controllata), e DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita). Via libera invece ai vini senza Denominazione di Origine e Indicazione Geografica, al vino frizzante e frizzante gassificato, allo spumante, allo spumante aromatico, gassificato e di qualità. Già si parla, comunque, di una futura dealcolazione che interesserà anche i vini che, al momento, non vengono sottoposti a questo procedimento. Il focus sul benessere oggi è sempre più importante, e non poteva non coinvolgere anche il consumo del vino.

 

 

Inizialmente diffusasi negli Stati Uniti, la tendenza dei vini dealcolati ha già incontrato il favore degli italiani. L’Unione Italiana Vini, associazione che riunisce le imprese italiane del vino dal 1895, ha di recente svolto un’indagine per sondare il parere dei nostri connazionali sul vino privato, o parzialmente privato, di alcol: la ricerca ha evidenziato che un italiano su tre si è dichiarato interessato a provarlo.

 

 

Sono trascorsi appena tre mesi dal decreto del Ministero dell’Agricoltura, ma la produzione dei dealcolati ha già preso il via. L’azienda vitivinicola Schenk, sorta nel 1952 a Reggio Emilia, immetterà sul mercato una quantità di bottiglie pari al milione prima della fine del 2026, e anche Mionetto, marchio pioniere del Prosecco, Argea e Italian Wine Brands si dedicheranno alla dealcolazione dei vini, oltre a un gran numero di altre imprese. E’una scelta dettata dall’ attenzione alla salute del consumatore e, al tempo stesso, dalla volontà di superare la fase critica attualmente affrontata dal mercato del vino.

 

La colazione di oggi: il crumble, una croccante delizia

 

Quale colazione scegliere, per il periodo di passaggio tra Inverno e Primavera? Il crumble, ad esempio: è energetico, sostanzioso e può essere preparato in due versioni, sia salata che dolce. Proviene dal Regno Unito e dalla verde Irlanda, e il suo nome deriva dal verbo “to crumble”, “sbriciolare” in inglese. A comporre il crumble, infatti, è un impasto a base di burro, zucchero e farina che viene completamente sbriciolato; la superficie risulta crocccante grazie a una cottura in forno ad hoc. La versione dolce di questo pasto si ottiene utilizzando ingredienti come la frutta cotta, a cui può essere aggiunta una buona dose di uvetta. Se invece si preferisce un crumble salato, è necessario sostituire alla frutta la verdura, un po’ di carne e del formaggio spalmabile. Spezie come la vaniglia e la cannella, insieme alla granella di mandorle o nocciole, accomunano la ricetta delle due varianti. Il crumble dolce è molto goloso: prova ne è il fatto che, non di rado, viene guarnito con la crema pasticcera o la panna montata. Il crumble salato, invece, solitamente si accompagna a una dose extra di verdure.

 

 

Ma qual è la frutta maggiormente utilizzata per realizzare la variante dolce? Solitamente si prediligono le mele, il rabarbaro, le prugne, il cocco e l’uva, ma anche le pesche e le more. Vengono spesso abbinati diversi frutti, come le mele e il rabarbaro o, in estate, le pesche, le albicocche, i mirtilli e i ribes rossi.

 

 

La copertura del crumble, come abbiamo già detto, dev’essere croccante. A questo scopo ci si avvale della frutta secca (mandorle, noci e nocciole in particolare) tritata o di cereali, fiocchi di avena, biscotti spezzettati. Per rendere ancora più fragrante la superficie si usa dello zucchero di canna: caramellizza dopo la cottura ed ha un gusto inconfondibile. Consumato a colazione, il crumble dona il vigore necessario per affrontare la giornata. E’ “ricco”, altamente nutriente. E pensare che nacque come pasto povero, nel Regno Unito, per sopperire al razionamento del cibo durante il secondo conflitto mondiale.

 

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Le maschere del Carnevale veneziano nel corso dei secoli: tra sfarzo, giocosità e proibizioni

 

Lucius Rossi (1846-1913), “Il ballo in maschera”, Ca’ Rezzonico, Venezia. Olio su tela

Non è la prima volta che parliamo del Carnevale di Venezia, ma in questo articolo approfondiremo ulteriormente un argomento apparso spesso su MyVALIUM, quello delle maschere. Stavolta cambieremo prospettiva: lo affronteremo dal punto di vista sociale. Il 1700, come abbiamo già visto, rappresentò l’epoca di massimo fulgore del Carnevale veneziano. Nella Serenissima si festeggiava per ben sei mesi: il Carnevale iniziava a Santo Stefano e terminava solo quando scoccava la mezzanotte di Martedì Grasso. In un tripudio di spettacoli, fuochi pirotecnici, balli, canti, rappresentazioni teatrali, maschere ed esibizioni di artisti di strada, Venezia diventava la capitale non solo italiana, bensì europea, del divertimento sfarzoso. Fu allora che si impose la celebre maschera della baùta, che conquistò anche Giacomo Casanova. I giovani artistocratici veneziani non stavano a guardare, e adunatisi in compagnie dette “Compagnie della Calza” per le calze elaborate, coloratissime e fantasiose che indossavano, cominciarono ad occuparsi dell’ ideazione e della realizzazione degli spettacoli e degli svaghi carnascialeschi. I nomi che le varie compagnie si diedero erano estrosi come chi ne faceva parte: Ortolani, Zardinieri, Uniti, Floridi, Concordi, Sempiterni…Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo, a Venezia si contavano 23 compagnie. Nei 16 teatri veneziani (un numero incredibile, per quell’epoca) gli spettacoli abbondavano e attiravano spettatori da tutta Europa.

 

Carl Ludwig Friedrich Becker (1820-1900), “Carnevale a Venezia”, olio su tela

Indossare una maschera, tuttavia, non costituiva meramente un atto giocoso: era il 1094 quando il Doge Vitale Faliero firmò un decreto dove denunciava il proliferare degli eventi criminosi favoriti dall’uso delle maschere e dei travestimenti carnevaleschi. Tutto ciò va ricondotto al lunghissimo periodo in cui, a Venezia, si svolgeva il Carnevale. La maschera  (solennità religiose a parte), si poteva indossare ininterrottamente, da Santo Stefano fino alla notte di Martedì Grasso. Ma non solo. Ne era permesso l’utilizzo anche durante le festività dell’Ascensione di Gesù, che duravano 15 giorni. Se tutto andava bene, insomma, non si toglieva se non alla metà di Giugno. Con l’inizio dell’Autunno, ci si poteva rimettere tranquillamente in maschera dal 5 Ottobre fino alla Novena di Natale.

 

La baùta (a destra nella foto)

E non finiva qui. Indossare una maschera, la baùta in particolare, era concesso in tutte le serate di gala o durante le feste istituite dalla Serenissima Repubblica di Venezia. La baùta poteva celare molti volti: per esempio, i frequentatori abituali del Casinò (che non di rado erano rincorsi dai creditori) e i barnaboti, ovvero i nobili indigenti, ne facevano regolarmente uso. Ma l’insofferenza nei confronti delle maschere, di tanto in tanto, riesplodeva fragorosamente. Ricordate l’usanza degli “ovi odoriferi”? (rileggetela qui) Ebbene, nel 1268 venne vietata a tutti gli individui di sesso maschile che indossavano una maschera. A partire dal 1300 le proibizioni si intensificarono. Il 22 Febbraio del 1339, nel pieno del Carnevale, un decreto impedì a tutti i “mascherati” di uscire nottetempo.

 

Pietro Longhi (1701-1785), “La venditrice di essenze”, 1756 ca., Ca’ Rezzonico

Nel 1458, precisamente il 24 Gennaio, apparve un decreto ancora più eclatante: pene severe erano previste per tutti quegli uomini che, in abiti femminili, solevano penetrare nei conventi con il fine di sedurre le suore. Sulla falsariga di questo editto ne vennero emanati molti altri. Dal 3 Febbraio 1603 in poi, ad esempio, fu vietato di recarsi in maschera nei parlatori dei monasteri. Molto spesso, in definitiva, la maschera era utilizzata a scopi illeciti, immorali o truffaldini. Era stato anche proibito, non a caso,  che le maschere nascondessero nel loro travestimento oggetti contundenti o armi di qualsiasi tipo. Grazie ad ulteriori decreti, chiunque indossasse una maschera non poteva più entrare in chiesa.

 

Ritratto di donna in moretta, una celebre maschera veneziana

Tutto precipitò nel 1608. Il 13 Agosto di quell’anno, infatti, il Consiglio dei Dieci decretò che la maschera veniva utilizzata per troppo tempo nell’arco dell’anno, provocando gravi conseguenze per il quieto vivere e la convivenza sociale: il suo uso fu quindi relegato al Carnevale e alle ricorrenze ufficiali. Chi trasgrediva veniva rinchiuso in prigione per due anni, era condannato a remare per ben 18 mesi (e con i piedi legati) in una nave da guerra o da commercio detta galera, ed era tenuto a pagare una multa che ammontava a 500 lire, un’enormità, al Consiglio dei Dieci. Dell’anonimità che garantisce la maschera, nel corso dei secoli, erano solite approfittare anche le prostitute. Il Consiglio dei Dieci stabilì che le prostitute in maschera dovessero essere fustigate per tutto il tragitto che da Piazza San Marco conduceva alla zona di Rialto, poi sarebbero state esposte al disprezzo generale tra le due colonne di San Marco. Ma non basta: per loro era previsto l’esilio dalla Serenissima per quattro anni e il pagamento di 500 lire ai dieci membri del Consiglio veneziano.

 

Kirchhoff: “Mad. Desargus und Melle. Galster In dem Pas de deux im Ballet„ Das Carneval von Venedig”, 1827, in Berliner Theater-Almanach auf das Jahr 1828, ein Neujahrs-Geschenk für Damen”

Intorno alla metà del 1600 vi fu un rafforzamento del decreto che vietava alle maschere di girare armate, di entrare nei luoghi di culto e di indossare l’abito talare come travestimento. L’utilizzo della maschera venne ridotto drasticamente tra il 1600 e il 1700. Nel 1718 fu proibito di mascherarsi anche in Quaresima. Ma dobbiamo attendere la fine della Serenissima per veder sparire le maschere pressochè definitivamente: con la dominazione austriaca, a Venezia venne vietato di indossare la maschera se non durante i balli e le feste dell’élite. Dal 1815, il Regno Lombardo-Veneto  ripristinò l’uso della maschera limitandolo esclusivamente al periodo del Carnevale. Ormai, però, i veneziani si sentivano stanchi e privati della propra libertà. Trascorsero molti anni prima che il Carnevale di Venezia poté ritrovare i suoi antichi fasti: lo fece nel 1978, grazie all’ex sindaco Mario Rigo.

 

Foto: dipinti e illustrazioni, Public Domain via Wikimedia Commons. Foto del Carnevale di Venezia contemporaneo via Pexels e Unsplash

 

Giovedì Grasso con i dolci tipici del Carnevale di Venezia

 

Quando arriva Giovedì Grasso, parlare di dolci è quasi tassativo. Il giovedì e il martedì  di Carnevale, infatti, vengono detti “grassi” perchè ci si poteva abbandonare ad eccessi culinari (oltre che dolciari) di ogni tipo prima della frugalità della Quaresima. Non è un caso che la tradizione dei dolci carnevaleschi sia massicciamente diffusa in tutte le regioni italiane: ognuna ha il suo dolce tipico, o ha donato un nome e connotati ben precisi a dolci preparati nell’intera penisola. In questo articolo, però, dati gli ultimi approfondimenti di MyVALIUM, ci occuperemo esclusivamente dei dolci veneziani. Iniziamo subito a conoscere le delizie del Carnevale più famoso al mondo.

 

Le fritole

 

Sono il dolce più tipico: le fritole sono dei piccoli e deliziosi bomboloni fritti. Possono essere farcite con svariati ingredienti; esistono fritole ripiene di crema, cioccolata, uvetta e pinoli, pistacchio, gianduja, ricotta, zabaione, crema chantilly…in un crescendo di golosità davvero irresistibile. Le origini delle fritole affondano nientemeno che nella Serenissima Repubblica Veneta, della quale furono decretate il dolce ufficiale. Anticamente le vendevano gli ambulanti, i “fritoleri”, stazionati nei campi e lungo le calli. La ricetta delle fritole veniva tramandata di generazione in generazione, in quanto era considerata arte pasticcera a tutto tondo. Sebbene a partire dal XX secolo i fritoleri siano scomparsi, le fritole rimangono il dolce tradizionale più noto del Carnevale veneziano.

 

I mameluchi

 

Sono un dolce poco noto, ma non per questo meno squisito: i mameluchi si possono acquistare nella pasticceria Targa di Ruga Rialto e in pochissime altre pasticcerie selezionate. Il loro luogo di nascita, però, è Murano, e ad inventarli è stato il pasticciere Sergio Lotto. Lotto stava preparando un dolce tipico dell’Egitto, ma si accorse di aver confuso le dosi degli ingredienti. Ha quindi ripetuto l’impasto, arricchendolo di scorze d’arancia e uva passa. Poi gli ha dato la forma di un cannolo e ha pensato di cuocerlo fritto. Il suo esperimento ha avuto un incredibile successo: il dolce ottenuto era soffice, golosissimo e dava l’idea di essere farcito con la crema anche se di fatto non la conteneva. Sergio Lotto lo ha chiamato “mameluco”, “mammalucco”, in onore dello “strampalato” impasto con cui lo ha realizzato.

 

I galani

 

Sono la versione veneziana delle frappe, chiacchiere, bugie, dei crostoli o qualsivoglia nome li definisca nel resto d’Italia. Non hanno origini venete, ma nella città lagunare hanno assunto caratteristiche del tutto proprie: mentre le frappe esibiscono una forma rettangolare dai bordi seghettati, i galani vantano le sembianze di un nastro. Che, guarda caso, in veneto di traduce con “galan”.

 

Le castagnole

 

Il dolce carnevalesco italiano per eccellenza, a Venezia si impreziosisce di un gusto unico e prelibato: le castagnole, qui, sono piccoli dolcetti sferici cotti nell’olio bollente e cosparsi di zucchero. Ma il particolare più squisito è senz’altro la farcitura; può essere a base di crema, cioccolata, panna o rum. I veneziani le chiamano altresì “favette”. Anche in questo caso, dunque, Venezia è riuscita ad omaggiare un dolce tipico della tradizione italiana con una variante più golosa che mai.

Foto delle fritole: Massimo Telò, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, da Wikimedia Commons