Il castagnaccio, dolce tipico appenninico della spooky season

 

In Italia, è il dolce tipico della spooky season: il castagnaccio, una torta a base di farina di castagne, affonda le sue origini in Toscana, ma si è rapidamente diffuso nell’area appenninica in regioni come l’Umbria, le Marche, il Lazio, l’Emilia, la Romagna e la Liguria. Le castagne, sugli Appennini, costituivano l’alimentazione principale dei popoli montani. Anticamente, le loro proprietà nutrienti erano valse a questo frutto l’appellativo di “pane dei poveri”: le popolazioni rurali aggiungevano la farina di castagne a quella di frumento,  molto dispendiosa, per preparare il pane; essendo poi ricche di amido e fibre, ma quasi del tutto prive di grassi, le castagne apportavano innumerevoli benefici all’organismo. Potevano, infine, essere gustate fresche o essiccate in svariati tipi di ricette, il che le rendeva un cibo ideale, eclettico e soprattutto alla portata di tutti. Anche il castagnaccio, non a caso, viene considerato un dolce “povero”: è facile da realizzare, non troppo elaborato e si avvale di pochi ma saporiti ingredienti. Ne esistono diverse versioni, a seconda della zona di provenienza; persino il nome della torta varia in base alla località. Qualche esempio? In provincia di Massa-Carrara viene chiamato “castignà”, a Lucca “torta di neccio”, a Livorno “toppone”, ad Arezzo “baldino”, a Firenze “migliaccio” e nella Piana di Firenze-Prato-Pistoia è conosciuto come “ghirighio”, per citare solo la Toscana.

 

 

Ma quali ingredienti include, la ricetta del castagnaccio? L’ impasto, a base di farina di castagne, olio extravergine d’oliva, acqua, uvetta e pinoli, viene cotto al forno. Localmente, altri ingredienti prendono parte al processo della sua preparazione: ne esistono versioni che includono le scorze di arancia, la frutta secca (più che altro noci e pinoli), i semi di finocchio, il rosmarino…Lo si serve con ricotta e miele di castagno per esaltare al massimo la sua golosità. Le bevande perfette a cui accompagnarlo, invece, sono il vino novello oppure il Vin Santo: due abbinamenti degni di un’irresistibile esperienza degustativa. Nelle Marche, la mia regione, il castagnaccio viene arricchito con l’aggiunta di pinoli, uvetta, talvolta fichi secchi e aghi di rosmarino. Proprio quest’ultimo è il protagonista di una romantica credenza: secondo un’antica tradizione, se la fetta di castagnaccio offerta da una fanciulla a un giovane contiene il rametto di rosmarino, costoro sono ben presto destinati a diventare marito e moglie.

 

Foto di copertina by Visit Tuscany via Flickr, CC BY-NC-SA 2.0

 

La vendemmia: un rito antichissimo e le sue tradizioni

 

Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)

 

Settembre, da sempre, è tempo di vendemmia. Un termine che indica la raccolta dell’uva da vino: l’ultima tappa di un impegno nei vigneti che dura un anno intero, a cominciare dalla potatura invernale di Gennaio. L’uva che si raccoglie durante la vendemmia, in sintesi, è quella che troviamo sulle nostre tavole tramutata in delizioso nettare degli dei. Ma la vendemmia, oltre ad essere una pratica agricola, è un vero e proprio rituale: sopravvive da secoli, portando con sè un bagaglio di tradizioni, usanze scaramantiche e tecniche entrate far parte degli annali della cultura agreste. La vendemmia nasce nell’antica Roma, e lo dice il termine stesso; “vendemmia” proviene dal latino “vindimia”, che unisce “vinum” (vino) e “demere” (raccogliere). Sin da allora, dunque, designava la raccolta dell’uva destinata alla vinificazione. I romani adoravano questo periodo, tant’è che gli dedicarono una festività, i “vinalia rustica”, che cadeva ogni 19 Agosto. Ma non solo: chiamarono il mese di Settembre “mensis vindemialis” e lo consacrarono interamente alla vendemmia. In quei giorni, il lavoro nei vigneti veniva coniugato con feste e rituali in onore degli dei; i romani esprimevano così la loro gratitudine alle divinità per l’abbondanza del raccolto.
E qui torniamo al discorso iniziale: la vendemmia, al di là dell’importantissima funzione che ricopre a livello agricolo, è sempre stata un’attività ricca di significati. In primis rappresenta un momento di aggregazione fondamentale per la comunità agreste, un evento all’insegna della convivialità e della voglia di festeggiare. Ci si ritrova tutti insieme in vigna e la raccolta dell’uva viene celebrata con canti, stornelli, chiacchiere e risate. Il duro lavoro si alleggerisce lasciando il posto alla magia che impregna questa fase dell’anno agrario. Usanze e rituali abbondano, così come la superstizione. E una volta terminata la raccolta, ci si diverte tramite balli, degustazioni e musica rigorosamente suonata dal vivo. La vendemmia è una festa da condividere in compagnia.
In più, c’è un dato non trascurabile da prendere in considerazione: il vino produce ricchezza. E non solo in qualità di bevanda. L’enoturismo, ovvero il turismo del vino, ultimamente ha conosciuto un incremento eccezionale. Un  numero sempre maggiore di persone è attratto da mete che hanno fatto del vino la loro eccellenza. Si moltiplicano le visite alle cantine, ai grandi vigneti, alle aziende vinicole, per vivere esperienze che spaziano dal semplice giro di perlustrazione ai workshop, le attività all’aria aperta, le degustazioni, gli approfondimenti culturali sui “territori del vino”. Il valore del vino, di conseguenza, è inestimabile sia dal punto di vista economico ma anche socio-culturale: definisce l’identità di un luogo, ne sancisce le tradizioni, favorisce la socialità e la coesione sociale.
Continuando a parlare della vendemmia e delle sue usanze, notiamo che sono innumerevoli e variano da regione a regione. Si tratta di consuetudini secolari, ma per la maggior parte tuttora in uso: un modo per mantenere ben saldo il legame tra l’uomo e le proprie radici. Ma quali sono le tradizioni più diffuse nei vigneti d’Italia? Tanto per cominciare, prima ancora che la vendemmia inizi, la vigna dovrebbe essere benedetta da un sacerdote: questo gesto, oltre che a scacciare la malasorte e a porre il vigneto sotto la protezione divina, serve a garantire un raccolto vinicolo abbondante.
La data di inizio della vendemmia, solitamente, viene stabilita dopo un attento studio delle fasi lunari, che si pensa possano influire sull’uva e sulla sua pregiatezza. Si tratta più che altro di superstizioni, ma sono in pochi a non tenerle in conto. Per una buona vendemmia, dunque, ne andrebbe ponderato l’avvio con il calendario alla mano.
Il primo grappolo d’uva raccolto ha un’importanza decisiva. Lo si mostra a tutti i partecipanti, a volte lo si benedice, lo si passa di mano in mano, lo si condivide mangiandone qualche chicco a testa. Ciò assicurerebbe una buona riuscita della vendemmia e una copiosa raccolta di grappoli.
L’inizio della vendemmia è un momento cruciale: le tradizioni proliferano e sono tutte volte a propiziare il successo della pratica agricola. In molte regioni italiane, ad esempio, la prima persona che entra nel vigneto è determinante. Una classica figura di buon auspicio è la donna, che alcuni vogliono bionda e altri bruna. Costei sarebbe portatrice di fecondità.
E’ comune accompagnare la vendemmia con canti, stornelli e botta e risposta pepati tra i due sessi. Nelle Marche, per esempio, i più giovani erano soliti scambiarsi frasi di corteggiamento attraverso gli stornelli. Si faceva a gara a chi formulava la proposta più arguta, o a chi replicava con un’altrettanto arguta risposta. Gli adulti chiacchieravano tra loro del più e del meno. Si rideva molto, questo sì, e la fatica risultava dimezzata. In alcuni vigneti d’Italia, invece, si ritiene che la vendemmia vada svolta in silenzio: servirebbe a non risvegliare le entità naturali, che potrebbero vendicarsi rendendo l’uva di pessima qualità.
Vendemmiando, va fatta molta attenzione al numero di grappoli che contiene ogni cesta. Anche in questo caso, trionfa la superstizione: tuttavia, le credenze differiscono in ogni regione. Ad attirare la buona sorte potrebbe essere, a seconda del territorio, un numero pari o un numero dispari. Il numero pari sarebbe emblema di armonia, il numero dispari di straordinarietà.
Frequenti sono anche le usanze che riguardano il primo mosto, il succo dei grappoli schiacciati poco tempo prima: a scopo propiziatorio viene versato sul suolo oppure lo si usa per produrre il vino “apripista” dell’annata.
Lo spirito della vigna è una credenza popolare molto diffusa. Questo spirito veglierebbe sul vigneto proteggendolo costantemente; non è un caso che un gran numero di viticoltori gli dedichi preghiere o doni per attirarsi i suoi favori.
Esistono poi delle curiosità che voglio citare ispirandomi ancora una volta alla mia regione, le Marche. Torniamo per un momento alla raccolta dell’uva. I grappoli venivano inizialmente sistemati nelle ceste e, a filare ultimato, versati nelle cassette che con un biroccio (un carretto a due ruote) si trasportavano fino alla cantina. Lì le uve si scaricavano nelle “canà”, grandi vasche adibite alla pigiatura. Quindi iniziava il lavoro che uomini e donne compivano con i propri piedi, pigiando i chicchi per lasciar fuoriuscire il mosto. Il movimento era una sorta di saliscendi che coinvolgeva  in alternanza la punta e il tallone del piede. Questa operazione, a seconda della quantità d’uva raccolta, non era raro che durasse tre giorni di fila. L’elemento interessante è la leggenda che è stata imbastita attorno alla pigiatura: si narra che un conte, avendo notato che i pigiatori procedevano stancamente, mandò a chiamare un suonatore ambulante di organetto. Quando questi arrivò nella cantina, il conte gli chiese di suonare una ballata dal ritmo serrato e molto allegra. I pigiatori si rinvigorirono non appena la ascoltarono, si lasciarono trascinare dalla musica e diedero involontariamente vita a un ballo che fu chiamato “saltarello”: è tipico delle Marche e di molte regioni dell’Italia centrale, come il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo. Viene considerata una delle danze più antiche d’Italia; con la vendemmia ha dunque in comune, oltre che l’origine, le radici ancestrali.
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Cantare il Maggio: i maggerini e i loro canti rituali

 

Con il 1 Maggio ritorna la tradizione agreste dei “canti del Maggio”, diffusi prevalentemente in regioni come le Marche, l’Umbria, la Toscana, l’Emilia Romagna, la Liguria, il Piemonte e alcune aree della Lombardia. I cantori, detti “maggerini” o “maggianti”, danno il via ai loro canti di questua nella notte del 30 Aprile e li concludono la sera successiva. Sono canti gioiosi, stornelli accompagnati dal suono dei violini, delle fisarmoniche, dei cembali e degli organetti; i termini e le espressioni dialettali la fanno da padrone, rendendo ancor più genuino il saluto alla Primavera che i maggerini intonano di porta in porta, inoltrandosi nei villaggi e percorrendo i sentieri campestri. Nelle Marche, la mia regione, i canti di questua si chiudono immancabilmente con un “saltarello” vivacissimo che sottolinea le richieste che i cantori rivolgono al “vergaro” e alla “vergara” (i proprietari della casa colonica). La tradizione, infatti, vuole che i maggerini ricevano una lauta ricompensa: di solito si tratta di salumi, uova, formaggi e pollame vario affiancati al classico bicchiere di vino. E’ molto raro, d’altronde, che le famiglie non soddisfino la questua; si dice che i doni elargiti ai cantori attirino la buona sorte, favoriscano il benessere fisico e garantiscano un abbondante raccolto.

 

 

Il numero dei maggerini può variare dai tre ai dieci, anche se gruppi così nutriti sono comuni più che altro nel fabrianese. Il Cantamaggio, come vi ho già accennato, inneggia alla Primavera e alla lietezza (ma anche all’ebbrezza) che si associa alla rinascita. L’allegria predomina, mescolata ad accenti dionisiaci e a una malizia scanzonata. Non mancano le odi alla fertilità di buon auspicio per il nuovo ciclo agricolo: è questo, sostanzialmente, l’augurio che i maggianti portano di casa in casa. Il Cantamaggio, non a caso, trae le sue origini dai riti di fecondità che i pagani eseguivano in epoche molto antiche.

 

 

I profondi mutamenti della società hanno fatto sì che, fino a qualche anno fa, la tradizione di “cantare il Maggio” si smarrisse nei meandri del tempo. L’omologazione ha a poco a poco distrutto la cultura agreste; le campagne si spopolano e solo un esiguo numero di famiglie potrebbe offrire ai maggianti salumi, formaggi e uova fresche. Negli anni ’80, eppure, come per miracolo qualcosa è cambiato. Mi riferisco sempre alle Marche: il Cantamaggio di Morro d’Alba festeggia questo mese la sua 42esima edizione, e anche in paesi come Montecarotto e Monsano è stata ripristinata l’antica usanza dei canti di questua. Nel fabrianese, poi, il rito del Cantamaggio ha ripreso gradualmente vigore. L’appuntamento con i maggerini è ormai immancabile sia nelle frazioni che per le strade di Fabriano, dove non è raro avvistarli mentre intonano i loro canti rituali.

 

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I bignè di San Giuseppe, il dolce tipico delle Marche per la Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, a San Giuseppe, ogni regione d’Italia ha un proprio dolce tradizionale da proporre. Nella mia, le Marche, si usa preparare i bignè di San Giuseppe, comunemente detti “migné”. Di che si tratta? Innanzitutto, di una golosità unica: sono bignè farciti di deliziosa crema pasticcera, cosparsi di zucchero a velo oppure alchermes. Li ritroviamo anche in altre regioni dell’ Italia centrale, ad esempio il Lazio, dove generalmente vengono fritti e riempiti di crema chantilly; una variante della farcitura (ma non in quella zona) può essere costituita dalla ricotta. I bignè di San Giuseppe sono soprattutto noti come dolce per la Festa del Papà di Roma. Nella capitale, in effetti, il 19 Marzo era una ricorrenza molto sentita, soprattutto intorno al 1500: la Confraternita dei Falegnami soleva organizzare svariate celebrazioni in onore del padre putativo di Gesù, concentrandole nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano. Proprio in questa chiesa, costruita sopra il Carcere Mamertino nel 1546, la Confraternita era solita riunirsi durante l’anno.

 

 

Ma che c’entra San Giuseppe con i bignè? Tutto, a quanto pare, nacque con la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. In quel periodo, Giuseppe avrebbe lavorato come friggitore itinerante per provvedere ai bisogni della moglie e del figlio. Non è un caso che il 19 Marzo, a Roma, si festeggiasse in un travolgente connubio di sacro e profano, tra miriadi di bancarelle di dolci fritti e funzioni liturgiche che celebravano la solennità dedicata al falegname di Nazareth. Tornando nelle Marche e al dolce tipico della mia regione, va detto che siamo soliti cuocere in forno gli squisiti “mignè”.

 

 

Per prepararli, è necessario procurarsi un bicchiere pieno d’acqua, 100 g di strutto,  quattro uova, una quantità di farina corrispondente a 300 g, e poi dello zucchero, l’alchermes, un po’ di sale e dell’ ottima crema pasticcera.  L’acqua va portata a ebollizione in una pentola insieme allo strutto, dopodichè l’impasto viene mescolato insieme alla farina per dieci minuti circa. Dopo averlo lasciato raffreddare si aggiungono le uova, che erano state sbattute precedentemente. A questo punto è possibile dar forma ai bignè, modellando tante piccole sfere che verranno riposte in una teglia imburrata. I dolcetti dovranno cuocere in forno per mezz’ora a 180°; appena sfornati, si lasceranno raffreddare e la crema pasticcera potrà essere inserita in dosi massicce attraverso un’apertura praticata nella parte superiore dei dolcetti. Per concludere, l’apertura andrà richiusa e si potrà procedere a cospargere i bignè di zucchero a velo (o di alchermes).

 

 

Giorni della Merla: i giorni più freddi dell’anno e la tradizione culinaria marchigiana

 

A causa dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, è improbabile che i giorni della Merla continuino ad essere i “più freddi dell’anno”. Le tradizioni, però, rimangono e ci piace immaginarli tali. Nel folklore italiano si identificano con gli ultimi tre giorni di Gennaio, ovvero il 29, il 30 e il 31: date associate sin da tempi remotissimi a leggende che vedono come protagonisti una merla, o dei merli, dal piumaggio immacolato e la collera del primo mese dell’anno. VALIUM ne ha parlato molte volte (potete rileggere qui  l’ultimo post), ma voglio ricordare la leggenda più celebre a grandi linee. Si narra che Gennaio si divertisse a far dispetti ad una merla dalle candide piume ogni volta che usciva dal suo nido. Non appena la merla metteva piede fuori casa, il perfido mese scatenava vento, piogge scroscianti e bufere di neve. Un giorno, allora, la merla ebbe un’idea: era la fine di Dicembre quando decise che avrebbe fatto provviste di cibo e non sarebbe uscita per tutto Gennaio. All’epoca, il primo mese dell’anno durava solo 28 giorni. Il 29, la merla emerse trionfante dal suo nido e lo canzonò perchè era riuscita a beffarlo; così Gennaio, furibondo, chiese in prestito tre giorni a Febbraio e le scagliò addosso terribili tempeste e tramontane. Dal 29 fino al 31 Gennaio, dunque, la merla fu costretta a ripararsi in un comignolo. Riuscì a scampare a quel periodo di burrasca, ma quando uscì dal suo rifugio le piume nivee che ostentava erano diventate nere di fuliggine, e così rimasero per sempre. Questa leggenda è nota un po’ in tutta Italia, tuttavia pare che le sue origini affondino nel Friuli, in Trentino e in zone come il cremonese, il folrivese, in Maremma e nel Cesenate. Alle tante usanze dei giorni della Merla, legate indissolubilmente alla cultura agreste, si aggiungono piatti tradizionali che variano da regione a regione.

 

 

Nelle Marche, dove vivo, si rimane fedeli a un proverbio che recita: “Se li gljorni de la merla voli passà, pane, pulenta, porcu e focu a volontà!” (se vuoi passare bene i giorni della Merla, pane, polenta, maiale e fuoco del camino a volontà). Ciò significa che la polenta predomina, accompagnata rigorosamente da fette di ciauscolo (un salame tipico della zona) e da un buon calice di Rosso Conero o Piceno. Il focolare, va da sè, è il must imprescindibile che dona calore e suggestività ai giorni più freddi dell’anno, e c’è proprio da sperare che lo siano: secondo il sapere popolare, infatti, dei giorni della Merla tiepidi e assolati preannunciano una Primavera che tarderà ad arrivare; se sono gelidi, al contrario, la Primavera sarà mite e rigogliosa.

 

Le Fave dei Morti, il tradizionale dolce marchigiano per i defunti: origini, storia, simbologia e ricette

 

In occasione delle ricorrenze di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, celebrate rispettivamente l’1 e il 2 Novembre, in Italia si usa preparare i cosiddetti “dolci dei morti”. Si tratta di dolcetti tradizionali preparati con ingredienti semplici e frugali, spesso a base di mandorle, diffusi in tutte le regioni della penisola: possono essere dei biscotti, la cui forma rimanda di frequente alle ossa umane (le “Ossa dei Morti” sono popolarissime in Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia, nel senese e nelle Marche),  delle specifiche tipologie di pane e di panini (rintracciabili in Trentino, Maremma, Sicilia e Lombardia), dei prodotti di pasticceria a base di marzapane (per esempio le “Dita di Apostolo” e la “Frutta di Martorana” della tradizione calabrese e siciliana), oppure varianti del torrone come il tipico “Torrone dei Morti” napoletano. Voglio soffermarmi, però, su un dolce caratteristico della mia regione, le Marche, oltre che di regioni del centro Italia quali il Lazio, l’Umbria e l’ Emilia Romagna: le “Fave dei Morti”.

 

 

Sono dei biscotti dalla forma generalmente ovale o tondeggiante, simili agli amaretti ma solo nell’ aspetto. Il denominatore comune di tutte le versioni, che differiscono a seconda della zona di provenienza, sono le mandorle tra gli ingredienti principali. Ma perchè il nome “Fave dei Morti”, e come è nata questa tradizione? Pare che l’usanza abbia avuto origine dall’antichissima credenza secondo cui i defunti, tra l’1 e il 2 Novembre, tornassero nel mondo dei vivi. In quell’occasione, veniva organizzata per loro un’accoglienza all’insegna della dolcezza. Ogni famiglia, all’epoca, manteneva ben saldo il legame con i propri antenati e ne onorava il ricordo costantemente. I dolci preparati durante le festività dei Morti, dunque, venivano offerti a questi ultimi (oltre che a tutti i familiari) per celebrare il loro ritorno dall’ aldilà. Bisogna innanzitutto precisare che la ricetta delle “Fave dei Morti” non ha niente a che vedere con le fave: in tempi remotissimi, questo legume era considerato un tramite tra l’Ade, il regno dei morti, e il mondo tangibile.  La fava veniva associata all’ oltretomba in tutta l’area del Mediterraneo. Gli antichi Romani, ad esempio, erano soliti omaggiare con delle fave il dio dei Morti e le consideravano un emblema delle anime dei defunti. Secondo alcuni studiosi, la fava assunse questa valenza simbolica in virtù del suo fiore: i petali candidi esibiscono una macchia nera che fu paragonata alla T di “Thanatos”, dal greco θάνατος ovvero “Morte”; lo stelo, inoltre, è lineare e ha radici che si sviluppano in profondità nel terreno. Entrambi i dettagli vennero interpretati come l’indizio di un collegamento tra la fava e l’aldilà, poichè si pensava che l’Ade fosse collocato nelle viscere del suolo.

 

 

Per certi popoli, l’anima dei defunti si celava proprio all’ interno della fava, e calpestarne qualcuna in un campo rappresentava un autentico sacrilegio; mangiare fave, al contrario, significava stabilire una connessione con una persona passata a miglior vita. Erano molti i rituali che rinsaldavano il nesso tra le fave e il regno dei Morti. Si usava, ad esempio, offrirle in dono a un defunto depositandole sulla sua tomba. Queste pratiche, non di rado, erano impregnate di superstizione. Per far sì che i trapassati riposassero in pace, si cospargevano di fave i loro sepolcri. Lanciare fave dietro le proprie spalle recitando litanie propiziatorie aveva, invece, una funzione redentrice. Durante i banchetti funebri, le fave costituivano la pietanza principale: quelle cotte erano riservate ai benestanti, mentre i poveri dovevano accontentarsi delle fave crude. Con l’avvento del Cristianesimo, il legame che associava la fava all’Ade non venne mai meno. Tra il 900 e l’anno 1000, l’abate benedettino Odilone di Cluny promulgò una riforma atta a far coincidere la Commemorazione dei Defunti con il lasso di tempo compreso tra i vespri del 1 Novembre e l’eucarestia del giorno seguente. Per permettere ai monaci di pregare tutta la notte, l’abate lasciava loro un gran numero di fave con cui sfamarsi. In occasione delle solennità dei Morti, inoltre, i poveri potevano usufruire di ciotole di fave poste ad ogni angolo di strada. Con Odilone di Cluny questo legume divenne cibo di precetto, ma diversi secoli dopo fu sostituito dai golosi dolcetti battezzati “Fave dei Morti”. I biscotti a base di mandorle, con la loro forma tondeggiante, simboleggiavano alla perfezione il viaggio di sola andata che l’anima compie verso il sonno eterno. In Umbria, non a caso, le Fave dei Morti venivano vendute nelle bancarelle che il 2 Novembre si posizionavano proprio accanto ai cimiteri.

 

 

La preparazione delle Fave dei Morti è piuttosto semplice: gli ingredienti principali sono le mandorle (pelate) e lo zucchero bianco, a cui si aggiungono la farina, il burro, la scorza di limone, i tuorli d’uovo e la cannella in polvere. Per l’impasto esistono diverse versioni; una di queste prevede che le mandorle e lo zucchero vengano pestati a parte, insieme, per poi essere uniti agli altri ingredienti. Un’altra ricetta suggerisce di mescolare la farina, le mandorle tritate, lo zucchero e il burro tagliato a pezzetti aggiungendo subito dopo la scorza di limone grattugiata, la cannella e le uova sbattute. A questo punto si ottiene un impasto morbido che va suddiviso in palline da cuocere in forno, a 180 gradi, per un quarto d’ora. Se le versioni delle Fave dei Morti sono molteplici, comunque, il risultato è unico: una delizia garantita.

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November mood & food

 

Zucche, funghi, castagne, miele, bacche, frutta secca, mele, vino…Novembre ci regala delizie a volontà. Ma anche una valanga di dolci tipici. Dalle mie parti, nelle Marche, si inizia con le fave dei morti (dei dolcetti a base di burro e mandorle) e il lonzino di fichi di San Martino (tra i cui ingredienti figurano i fichi secchi, il cacao, le mandorle e un mix di sapa e di mistrà) per poi approdare a dessert tipicamente autunnali: strudel, torte, crostate e plumcake arricchiti dai più ghiotti prodotti di stagione. E’ molto importante coniugare il palato con uno stato d’animo. Che a Novembre si ammanta di atmosfere suggestive e decadenti, quasi un invito a nutrire l’anima oltre che il corpo. Immergetevi in questo mood tramite la nuova photostory di VALIUM, e assaporatelo scatto dopo scatto.

 

 

 

Il luogo: la spiaggia delle Due Sorelle, un gioiello incastonato nella Riviera del Conero

 

” Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. “

(Giacomo Leopardi, da “L’Infinito”)

 

Il caldo improvviso e travolgente di questi giorni fa sì che gli scenari marini ricorrano nei nostri weekend. Oggi voglio parlarvi, quindi, di una delle baie più “selvagge” e meravigliose d’Italia: la Spiaggia delle Due Sorelle, emblema iconico della Riviera del Conero. Dal porto di Ancona al centro balneare di Numana si snoda un litorale roccioso e frastagliato di cui il promontorio del Monte Conero (572 m. di altezza sul livello del mare) costituisce il rilievo principale. La costa si estende per una ventina di chilometri ed è contraddistinta da una bellezza tale da esser stata dichiarata, nel 1987, Parco Regionale del Conero. Per averne un’ idea, pensate a un mare (il mare Adriatico) color turchese, limpido e cristallino. Poi immaginate un monte, conosciuto non a caso come il “Paradiso delle Marche”, che cade a picco su questo mare: è ammantato di boschi e di una rigogliosa macchia mediterranea, tra cui un tripudio di ginestre. La Riviera del Conero è tempestata di baie, deliziose spiagge di ghiaia e ciottoli, scogli, calette, grotte inaspettate… raggiungibili esclusivamente via mare o percorrendo una serie di sentieri.

 

 

Sono molte le spiagge che seducono, con la loro meraviglia, i turisti e i locali. Ne cito solo alcune: Mezzavalle, un vero e proprio eden da godere in piena libertà. Portonovo, una baia pittoresca dove spicca l’inconfondibile “palafitta” color cielo del Clandestino Susci Bar. La Spiaggia dei Gabbiani, una piccola insenatura cosparsa di sabbia vellutata. La Spiaggia dei Sassi Neri, che, al contrario, vanta una riva rocciosa composta da sassi e da scogli molto scuri. E poi c’è la Spiaggia delle Due Sorelle, incontaminata e ricca di ciottoli candidi e sabbia finissima. E’ “wild” al punto tale da poter essere raggiunta soltanto dai traghetti in partenza da Portonovo, oppure tramite barca, canoa o sup. A Nord si erge la coppia di faraglioni, le “Due Sorelle” appunto, che sono un po’ il suo simbolo. Gli speroni rocciosi rappresentano d’altronde una costante di questo tratto di costa, affacciata su un mare che spazia dal verde smeraldo a un azzurro talmente intenso da sembrare caraibico. Ma come nasce il nome le “Due Sorelle”? Pare che i faraglioni, bianchi e gemelli, siano stati così battezzati perchè la loro conformazione ricorda quella di due monache in preghiera.

 

 

Per godervi la spiaggia appieno, non tralasciate di ammirarla al tramonto, quando il sole la inonda di splendidi colori. L’atmosfera è magica e la distesa d’acqua che avete di fronte vi sembrerà sconfinata. Questo gioiello immacolato, incastonato tra le rocce, viene considerato la spiaggia più bella delle Marche e Legambiente lo annovera nella Top 15 delle spiagge d’Italia. La Spiaggia delle Due Sorelle è l’ideale per poter vivere a stretto contatto con la natura: bisogna essere muniti di un ombrellone e di acqua e cibo propri, se si vuol trascorrere una giornata nei suoi spazi. Non sono presenti bar, locali o ristoranti, è proibito fumare e lasciare sulla spiaggia rifiuti o mozziconi di sigaretta. Trovandosi all’ interno del Parco Regionale del Conero, inoltre, raccogliere piante e impossessarsi di pietre o sassi dalla forma particolare è vietato nel modo più assoluto. Ma non voglio di certo scoraggiarvi, con questa lista di divieti! La Spiaggia delle Due Sorelle è la location perfetta se volete prendervi una pausa dal caos o dalle classiche spiagge in cui la musica gracchia dagli altoparlanti e il cicaleccio dei bagnanti azzera il relax. Sappiate che esiste anche una leggenda molto suggestiva che la riguarda: si narra che anni e anni orsono, in quella zona, si udissero urla laceranti provenire dal mare. Al largo viveva una bellissima Sirena che era solita ammaliare i marinai con il suo aspetto seducente e il suo canto melodioso. Costoro ne erano irrimediabilmente attratti e, conquistati da quel magnetismo, la raggiungevano senza esitazione. 

 

 

Ma la Sirena li attirava a lei per poi incatenarli nella Grotta degli Schiavi, una mitica cavità marina situata a Nord degli scogli delle Due Sorelle. Questa Grotta è tuttora avvolta nel mistero. Lunga ben 70 metri, si pensa che sia esistita almeno fino agli anni ’30 del ‘900, quando una frana ne occluse l’apertura. Pare che al suo interno fosse presente una  spiaggia ghiaiosa, ed eminenti personalità dell’ anconetano assicurarono che dalla roccia delle sue pareti sgorgasse acqua purissima. Anche il nome del luogo ha un’ accezione di volta in volta storica o mitologica. Secondo alcuni, la Grotta venne così denominata poichè gli Schiavoni, pirati originari dei Balcani, la utilizzavano a mò di rifugio. Altri affermano che i pirati solessero incatenare nella Grotta i loro prigionieri, e che gli anelli fissati sulla roccia sarebbero tuttora distinguibili. Secondo un’ altra leggenda, gli Schiavoni rapirono una Principessa e la imprigionarono a vita nella Grotta: le lacrime infinite della donna generarono una sorgente all’ interno della cavità. Tornando alla Sirena, pare che avesse come complice un terribile Demone marino. Costui venne abbattuto e tramutato in una roccia che, squarciatasi in due blocchi, diede origine ai faraglioni delle Due Sorelle. Ancora oggi, navigando in barca o traghetto davanti all’ ingresso della Grotta, si dice che si odano le urla dei marinai imprigionati e il rumore lugubre delle loro catene.

 

 

Esiste un’ ulteriore leggenda legata alla Grotta, e senza dubbio è intrisa di immenso fascino. Si narra che la Grotta non sia altro che la nota e ricercatissima “stanza del tesoro” in cui culmina il Buco del Diavolo del Monte Conero. Secondo le credenze popolari, infatti, all’ interno del Monte sarebbe presente un intricato labirinto di cunicoli.  Questi condurrebbero a una “stanza del tesoro” che conterrebbe un altare, una gallina d’oro circondata da dodici pulcini d’argento e un baule ricolmo di ricchezze. Per accedere a quei cunicoli, si dovrebbe passare attraverso una fenditura situata alle pendici del Conero. Impossessarsi del tesoro, però, pare che non sia così semplice: chiunque lo trovasse, sappia che non può portarlo via con sè a meno che non scriva sull’ altare della Grotta, con il proprio sangue, il nome esatto del Demone dimorato nei cunicoli. La spiegazione storica dei tunnel scavati nella roccia, invece, li identifica con una sorta di acquedotto interno al Monte costruito in epoca romana o preromana.  

 

 

Oltre alle atmosfere paradisiache, al relax più assoluto, al connubio mozzafiato tra il paesaggio marino e quello montano, la Spiaggia delle Due Sorelle offre la possibilità di vivere una singolarissima esperienza: presenziare al magnifico evento naturale della riproduzione dei polpi a cavallo tra l’ Autunno e l’ Inverno.

 

 

Foto: n.3 dall’ alto, di Giorgio Montesi, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons. N.4 di Marche Tourism via Flickr, CC BY-NC-SA 2.0. N.5 di Antonio Castagna via Flickr, CC BY 2.0. N.6 di Enrico Pighetti via Flickr, CC BY 2.0.

 

La colazione di oggi: ciambelle e ciambelline pasquali

 

Un dolce per Pasqua in alternativa alla Colomba? Ciambelle e ciambelline. Fanno parte delle tradizioni dolciarie di molte regioni italiane, soprattutto dell’ Italia centrale (nelle Marche, dove vivo, sono tipiche le “ciambelle strozzose“), e risultano una vera delizia anche per gli occhi: si usa ricoprirle di glassa e cospargerle di confettini multicolori. Ne esistono diverse varianti. Al posto della glassa, ad esempio, può essere utilizzato il classico zucchero a velo, mentre il ciambellone può essere sostituito da un tripudio di fragranti ciambelline. Un’ unica costante rimane inviariata, la golosità. Preparare la ciambella di Pasqua è molto semplice. Va detto, innanzitutto, che è un dolce privo di burro tra i cui ingredienti troviamo il latte, le uova, la farina, lo zucchero, l’olio extravergine d’oliva, il lievito per dolci vanigliato e la scorza grattugiata di un limone. Il composto, a cottura in forno ultimata, viene ammantato di glassa bianca (un mix di zucchero a velo, succo di limone e albume) e decorato con dei coloratissimi confettini. Il risultato? Un dolce soffice, in cui affondare i denti con voluttà assoluta. Ghiotto dentro e fuori. Trovate la ricetta a questo link.

 

 

Gli ingredienti delle ciambelle strozzose, una specialità marchigiana, più o meno rimangono gli stessi. Il burro non è incluso, ma è presente il liquore all’ anice (oppure il mistrà) che le aromatizza egregiamente. Manca anche il lievito per dolci, e c’è un perchè: queste particolarissime ciambelle, dalla forma a clessidra e molto asciutte, vanno cotte in forno ben due volte e lievitano spontaneamente. La tradizione vuole che l’ impasto si prepari il Venerdì Santo e che solo la domenica di Pasqua si proceda alla cottura; la lievitazione naturale delle ciambelle, infatti, è direttamente proporzionale all’ attesa che intercorre tra le due infornate. Dopo la prima, bisognerebbe lasciarle raffreddare per almeno una notte. Le ciambelle vengono poi plasmate nella loro forma caratteristica; a quel punto si può procedere con la seconda cottura. Durante questo lasso di tempo, le strozzose si gonfieranno a dovere assumendo un aspetto simile a quello di due ciambelle sovrapposte. Il tocco finale consiste nel ricoprirle di glassa al limone, o di ghiaccia reale, prima di cospargerle di miriadi di confettini. Le ciambelle strozzose vantano un notevole punto di forza: sono leggerissime e possono essere degustate – pur non essendo un dolce salato – insieme a del buon vino. Se avete già l’acquolina in bocca, cliccate qui per la ricetta.

 

 

Preferite sperimentare sapori internazionali? Provate i donuts (qui la ricetta), le ciambelle fritte e glassate tipicamente americane. Ma attenzione: sono il top della golosità, perciò tenetene conto se siete a dieta. I donuts catturano subito lo sguardo con i colori sgargianti della loro glassa e delle loro decorazioni. E’ un vero e proprio tripudio che spazia tra le più disparate cromie e guarnizioni: i classici confettini assumono la forma di stelle, fiori, cuori, sfere, unicorni, e chi più ne ha più ne metta. Esistono però anche versioni sobrie, che al posto della glassa sfoggiano un’ abbondante spruzzata di zucchero a velo. Allo stesso modo, i donuts possono essere suddivisi tra donuts “semplici”, ossia privi di farcitura, e donuts farciti, riempiti cioè di ogni ben di Dio. Qualche esempio? Panna, crema, cioccolato e marmellata, per citare solo alcune delizie. A Pasqua vengono ornati di frequente con ovetti di zucchero o zuccherini che riproducono tipici emblemi pasquali, come i pulcini e i coniglietti. Ma anche in questo caso, la fantasia non ha limiti! Quel che è certo è che, puntando sui donuts, vi state regalando una ghiottoneria a 360 gradi. Non è un caso che persino Homer Jay Simpson, il capofamiglia della famosissima serie TV cartoon “I Simpson”, li adorasse letteralmente.

 

Primo giorno di scuola

 

Lo scopo dell’educazione è quello di trasformare gli specchi in finestre.
(Sydney J. Harris)

Primo giorno di scuola qui nelle Marche, dove vivo, così come in molte altre regioni. Auguro un buon inizio a tutti, perchè la scuola svolge un ruolo fondamentale: educa, amplia gli orizzonti, arricchisce culturalmente, ma non solo. La scuola insegna il valore della socialità e della convivenza. Non stupisce che oggi, per molti, sia una giornata gioiosa: dopo tre mesi di vacanze, si ritrovano gli amici e i compagni di classe. Fate tesoro del periodo trascorso sui banchi, sarà una miniera di apprendimento inesauribile sotto molteplici aspetti. E la spensieratezza che caratterizza questi anni diventerà uno dei più bei ricordi che possiate portare nel cuore.

 

 

Foto di Polina Tankilevitch via Pexels