Bici in città: una scelta sostenibile e salutare

 

In paesi come l’Olanda è un’abitudine consolidata: in bicicletta ci si sposta normalmente, in ogni stagione e ad ogni ora del giorno. Ma in Europa, a breve, l’utilizzo delle due ruote verrà incentivato ovunque. Recentemente, infatti, la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno stipulato la Dichiarazione europea sulla mobilità ciclistica, che esalta la funzione della bicicletta in quanto mezzo di trasporto all’insegna della sostenibilità, accessibilità e convenienza. La Dichiarazione intende promuovere la mobilità ciclistica tramite strategie che, tra l’altro, prevedono la realizzazione di un maggior numero di piste ciclabili e la loro separazione dal resto del traffico. L’ optimum potrebbe essere raggiunto grazie a un bilanciato connubio di mezzi non motorizzati e trasporto pubblico: è un dato di fatto che le emissioni di CO2 provengono per il 15% dalle automobili, a tutt’oggi il veicolo più utilizzato per gli spostamenti in città. La cosiddetta “mobilità dolce”, al contrario, migliorerebbe la qualità della vita e azzererebbe l’inquinamento, con notevoli benefici sia per la decongestione del traffico che per la salute umana.

 

 

Scegliere la bici apporta vantaggi sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto è un toccasana per il nostro benessere fisico: pedalare almeno mezz’ora al giorno aiuta a bruciare calorie, fa bene al cuore, tonifica i muscoli e rende più agili le articolazioni. L’apparato cardiocircolatorio risente positivamente degli effetti salutari dell’andare in bicicletta, ma anche l’umore ne trae giovamento. Se la pedalata dura circa un’ora, infatti, la produzione di endorfina sale alle stelle: ciò equivale a fare il pieno dell’ormone della felicità e a combattere lo stress più che efficacemente.

 

 

La bicicletta, come è stato riconosciuto anche dalla Dichiarazione europea sulla mobilità ciclistica, è un mezzo di trasporto sostenibile. E a beneficiarne appieno è l’ambiente: utilizzare la due ruote contribuisce a snellire il traffico, riducendo notevolmente le emissioni di CO2 (responsabili insieme alla massiccia produzione di petrolio, gas e carbone del cosiddetto “effetto serra”, principale causa del cambiamento climatico) e l’inquinamento acustico, un’enorme fonte di disagio per i cittadini. Andare in bici, dunque, purifica l’aria e ottimizza anche la fruizione degli spazi urbani, poichè una due ruote non ha bisogno di grandi parcheggi. Aggiungo che, in un numero sempre più vasto di città italiane, sta prendendo piede l’uso di appositi cicloposteggi.

 

 

La bicicletta risulta molto più economica rispetto all’auto: è una realtà innegabile. Basti pensare che non ha bisogno di carburante, assicurazione, bollo e alti costi di manutenzione. A proposito di costi, pedalando si risparmiano quelli della scuola guida e dei parcheggi, per non parlare di eventuali multe. Secondo una statistica, una bici è 26 volte meno dispendiosa in confronto a una macchina. Bisogna poi considerare l’agilità degli spostamenti, che l’utilizzo di una due ruote garantisce senza ombra di dubbio.

 

 

Ma a che punto siamo, in Italia, riguardo alle piste ciclabili? A Genova si prevede di arrivare a una lunghezza di 150 km rispetto agli attuali 70 entro il 2025; a detenere il podio delle città con le piste ciclabili più lunghe sono tuttora Modena e Reggio Emilia, che vantano oltre 190 km di percorso riservato alle biciclette. Subito dopo arriva Ferrara, con i suoi 150 km di piste. Sicuramente siamo ancora lontani dai modelli del Nord Europa, un vero e proprio paradiso per i ciclisti: Helsinki, ad esempio, può contare su una media di 20 km di piste ciclabili ogni 10.000 km, mentre la media di Amsterdam corrisponde a 14 km e quella di Copenaghen a 8 km. Preciso che sto prendendo in considerazione soltanto i percorsi metropolitani. In Italia, tanto per fare un esempio, la pista del Garda by Lake (ribattezzata non a caso “ciclovia dei sogni”) raggiunge ben 190 km di lunghezza. Viene considerata la più bella della nostra penisola perchè si snoda lungo il lago di Garda e sembra quasi sospesa sull’acqua. Partendo da Capo Reamol, vicino a Limone del Garda, la ciclovia dei sogni attraversa tre regioni: la Lombardia, il Trentino Alto Adige e il Veneto. Si tratta però di un percorso prettamente turistico.

 

 

 

Il luogo: Bergen, la città delle sette montagne, tra cultura, pan di zenzero e fiordi norvegesi

 

Ricordate quando nell’articolo dedicato alla casetta al pan di zenzero ho citato la “gingerbread town” più grande del mondo? Bene: Pepperkakebyen (questo il suo nome) è una delle principali attrattive natalizie di Bergen, la seconda città più popolosa della Norvegia, e oggi voleremo proprio lì. Bergen è un centro abitato ricco di fascino a partire dall’area in cui sorge: situata sulla penisola che porta il suo stesso nome, a nord si affaccia sul fiordo di Byfjorden e le montagne circondano il resto della città (soprannominata, in virtù di ciò, “città delle sette montagne”). Molti quartieri sono situati sulle isole circostanti, il che accresce la particolarità del territorio bergense. Ma perchè andare a Bergen, dato che Pepperkakebyen ha chiuso i battenti lo scorso 31 Dicembre? La risposta è semplice: è una città vivace, culturalmente stimolante. Non è un caso che nel 2000 sia stata eletta Capitale Europea della Cultura, nè che la presenza di numerosissimi studenti, molti approdati a Bergen grazie al progetto Erasmus, la renda estremamente frizzante. L’Università di Bergen, infatti, è circondata da un’aura di prestigio e la Norges Handelshøyskole, Scuola Norvegese di Economia, è una delle più rinomate della Norvegia. Il quartiere di Bryggen, inoltre, nel 1979 è stato decretato Patrimonio dell’ Umanità UNESCO. Si tratta, tanto per intenderci, dell’area che include le iconiche e coloratissime casette di legno situate sul lungomare. Ma l’appeal di Bergen non si esaurisce qui: è dal porto cittadino che si possono raggiungere i fiordi di Hardangerfjord  e Sognefjord, due meraviglie norvegesi, collocati a poca distanza. La suggestività di quest’antica città anseatica fondata dal re Olaf Kyrre nel 1070 è del tutto unica. Capitale della Norvegia fino al 1300, quando Oslo prese il suo posto sotto il regno di Haakon V, verso la metà del XIV  secolo divenne la sede di uno dei fondachi della Lega Anseatica ed entrò ufficialmente a farne parte. Da allora, Bergen si tramutò nel centro commerciale più rilevante del paese e tuttora lo rimane.

 

 

Naturalmente, un viaggio a Bergen non può prescindere da una visita al quartiere di Bryggen. Affacciato sulla baia di Vågen, Bryggen è contraddistinto da una serie di casette di legno dai colori vivaci e disposte a schiera che l’hanno reso inconfondibile. Nel 1360, quando Bergen entrò a far parte della Lega Anseatica, Bryggen divenne il quartier generale dei mercanti tedeschi in città: dal porto si esportavano grandi quantità di stoccafisso e si importavano i cereali che provenivano dal centro Europa. In passato Bryggen fu devastato da ben due incendi, ma dopo ogni ricostruzione le casette apparivano più belle di prima. Lì i mercanti collocavano i loro uffici e magazzini, talvolta delle mense, non di rado vi alloggiavano. Oggi, nel quartiere – Patrimonio dell’Umanità UNESCO – proliferano bar, caffetterie, ristoranti, boutique, e le sue viuzze medievali sono disseminate di gallerie e studi d’arte. A proposito di arte: tra i molti musei presenti a Bergen vi segnalo il Bergen Kunsthall, dove potrete ammirare opere di artisti contemporanei nazionali e internazionali, l’Hanseatiske Museum, ricco di reperti e testimonianze risalenti all’epoca in cui Bergen faceva parte della Lega Anseatica, e il Bryggens Museum, situato proprio a Bryggen: qui, nell’antica area portuale cittadina, vengono conservati i più importanti cimeli della Bergen medievale. Assolutamente imperdibile, poi, è il KODE Art Museums and Composer Homes, composto da sette edifici dislocati nel cuore della città. E’ maestoso e focalizzato sull’arte, la musica, l’artigianato e il design scandinavi. Include quattro musei, KODE 1, 2, 3 e 4, e le dimore di tre celeberrimi compositori norvegesi: Ole Bull, Harald Sæverud e Edvard Grieg. Tra i fiori all’ occhiello del KODE risalta la collezione permanente di Edvard Munch; le collezioni Rasmus Meyer e Silver Treasure sono da visitare tassativamente, così come le incredibili mostre di arte contemporanea e design organizzate dal museo.

 

 

A pochi passi da Bryggen troverete la fortezza di Bergenhus, che comprende il Castello Reale, la Håkonshallen e la Torre di Rosenkrantz. Sono tre edifici risalenti all’epoca medievale che vennero edificati su richiesta dei sovrani di Norvegia: nel Castello i re avevano stabilito la loro dimora, mentre la Håkonshallen, un monumentale salone di pietra con travi di legno sottostanti al soffitto a volta, era destinata agli eventi più importanti; qui furono celebrati, tra l’altro, diversi matrimoni reali. La Torre di Rosenkrantz, duecentesca, veniva utilizzata sia a scopo difensivo che residenziale.

 

 

Dato che Bergen ha basato sul commercio del pesce quasi tutta la sua storia, soprattutto durante l’ appartenenza alla Lega Anseatica, visitare il mercato del pesce della Torget è d’obbligo. Al mercato potrete ammirare innumerevoli varietà di pescato, proveniente rigorosamente dal Mare del Nord e mantenuto fresco grazie agli innovativi banconi in legno dotati di un flusso d’acqua continuo. E’possibile anche pranzare: un’occasione unica per gustare “dal vivo” le prelibatezze marine di Bergen.

 

 

Si dice che nel fiordo di Byfjorden si rifletta una luce speciale, impossibile da vedere altrove. Niente di meglio, dunque, che ammirarla dall’ alto in tutto il suo splendore. Fatelo raggiungendo la cima della collina Fløyen in funicolare: lì, a 320 metri sopra il livello del mare, potrete godere di un panorama mozzafiato della città di Bergen e del suo mare. Vale decisamente la pena, anche perchè la funicolare impiega solo cinque minuti per inerpicarsi sull’altura.

 

 

Se invece preferite visitare i fiordi e perdervi nella meraviglia selvaggia della loro natura, sappiate che dal porto di Bergen partono traghetti che li raggiungono quotidianamente. Il Sognefjord è una meta must: vanta una lunghezza di ben 203 chilometri che lo piazza al secondo posto a livello mondiale, mentre è il più profondo in assoluto di tutta la Norvegia. Lo costeggiano montagne imponenti, dalle pareti scoscese, che svettano sul mare ad oltre 1000 metri di altezza, ma proseguendo nel tragitto il paesaggio si fa più a misura d’uomo e rivela una vegetazione rigogliosa, villaggi inaspettati ed aree coltivate con cura.

 

 

Gamle Bergen è un museo open air a 4 chilometri da Bergen dove potrete addentrarvi nelle viuzze acciottolate della città vecchia, minuziosamente riprodotta in cinquanta case di legno corredate di negozi e di antiche botteghe. Alle abitazioni si accede solo tramite un tour guidato, mentre l’accesso alla Gamle Bergen è assolutamente gratuito. All’interno delle case vengono fedelmente replicati l’arredamento e lo stile di vita norvegesi a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.

 

 

E veniamo alla Pepperkakebyen, la città di pan di zenzero più grande del mondo. Pepperkakebyen, composta da casette ed edifici rigorosamente al pan di zenzero, è una miniatura di Bergen splendidamente illuminata: si possono ammirare le vie, le piazzette, le case, i palazzi storici, l’antico porto, le navi, le auto, persino le ruote panoramiche e le giostre di Natale, ma non solo…sono incluse le persone, gli animali, e un trenino percorre un itinerario ininterrotto. L’intera città, golosissima, è ricoperta di glassa, caramelle e canditi. Un vero e proprio incanto, insomma, alla cui realizzazione contribuiscono ogni anno anche i bambini delle scuole elementari e degli asili cittadini.  Purtroppo è troppo tardi per vederla ora, la Pepperkakebyen è un’attrazione tipicamente natalizia; potreste però decidere di visitarla il prossimo Dicembre. Pare che la città al pan di zenzero tornerà attiva dal 23 Novembre fino al 31 Dicembre 2024, ma le date sono ancora da confermare. Consultatele nel sito https://en.visitbergen.com/

 

 

Foto del Sognefjord di Zairon, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

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Neve in città

 

Quante lezioni di fede e bellezza perderemmo, se non ci fosse l’inverno nel nostro anno.
(Thomas Wentworth Higginson)

 

In Scandinavia il nuovo anno ha portato un’ondata di gelo senza pari: le temperature sono scese al di sotto dei – 40° centigradi, neve e ghiaccio imperano, il vento soffia forte. E a cominciare proprio da oggi, sembra che il freddo artico raggiungerà anche l’Italia. Niente a che vedere con i rigori del Nord Europa, naturalmente, ma le nevicate non dovrebbero mancare. In sintesi: l’Inverno è davvero arrivato. Chi come me lo ama, però, ne accetta anche i lati più estremi. Coglie la magia della neve, rimane incantato davanti ai riflessi dei cristalli di ghiaccio…adora l’aspetto che assumono le lande, le foreste, le città imbiancate, perchè cambiano completamente volto e sembrano uscite da una fiaba. E’ da questo spunto che nasce la photostory di stamattina: la neve che ammanta i centri abitati. Gli scatti immortalano tutte città europee, per compiere un immaginario viaggio all’interno del nostro continente. Avete mai visitato qualcuno dei luoghi che includo nella gallery? E quale tra i tanti siete in grado di riconoscere? Fatemelo sapere nei commenti.

 

 

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La colazione di oggi: la casetta di pan di zenzero, tra tradizione, arte e gusto

 

Tradizione natalizia tipica della Germania e dell’ Europa del Nord, la casetta di pan di zenzero è diffusissima anche negli Stati Uniti. In tedesco si chiama  Lebkuchenhaus o Pfefferkuchenhaus  e viene considerato il dolce più goloso e conosciuto preparato con il famoso impasto speziato (“pepparkakor” il suo nome in svedese). Ho già parlato di questa pasta biscotto a base di miele, melassa e zucchero di barbabietola aromatizzati con zenzero, cannella e chiodi di garofano (rileggi l’articolo qui), stavolta voglio soffermarmi sulla casetta e sulla sua storia. Prepararla non è molto difficile, sono le decorazioni a renderla un’opera d’arte: la pasta dev’essere compatta, dopodichè si taglia in modo da formare le parti di una casa. I pannelli, una volta cotti, si assemblano delineando la struttura di un’abitazione. Per unirli vengono usati la glassa o lo zucchero fuso; la glassa, ricoperta di zucchero a velo, serve anche a creare l’effetto neve o dettagli specifici del dolce, come le tegole. Confetti, zuccherini colorati e caramelle completano l’opera, dando un aspetto oltremodo invitante alla casetta. Lo zenzero, che ha una lunga durata di conservazione, contribuisce a mantenerla integra per molto tempo.

 

 

La preparazione dell’ impasto si avvale, oltre che del pan di zenzero, di farina, uova, burro, noce moscata e cacao; al fine di rendere la pasta sufficientemente compatta, la si lascia indurire per alcune ore. Con il pan di zenzero si possono realizzare dolcetti dalle forme più disparate: alberi di Natale, stelle, cuori (basti pensare a quelli, tipici, dei mercatini natalizi tedeschi), renne, fiocchi di neve, animali, cavalieri, santi protettori sono ed erano le più diffuse. Questi dolci cominciarono ad essere prodotti in Germania sotto forma di biscotti (i Lebkuchen) tra il XIII e il XIV secolo. Norimberga, in particolare, considerata la “capitale mondiale del pan di zenzero”, divenne celebre per i capolavori artistici che i fornai realizzavano con il pan di zenzero nel 1600. Nel resto d’Europa, la golosissima pasta biscotto arrivò nel XIII secolo. In Svezia il “pepparkakor” venne diffuso dagli immigrati tedeschi, mentre pare che gli omini al pan di zenzero fossero abitualmente preparati alla corte di Elisabetta I Tudor a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

 

 

Nel XVII secolo, produrre dolci al pan di zenzero si tramutò in una professione che rientrava in una corporazione specifica. Le creazioni erano elaboratissime, impreziosite da elementi ornamentali, e coniugavano il gusto con la pura bellezza; a Natale, venivano vendute soprattutto nei mercatini e nelle bancarelle poste in prossimità delle chiese. La produzione “artistica” di pan di zenzero, in Europa, divenne una realtà consolidata nelle città di Norimberga, Lione, Praga, Pest, Torùn e in molti altri centri sparsi tra la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca. Con la massiccia emigrazione tedesca negli Stati Uniti, successivamente, la tradizione invase paesi a stelle e strisce come il Maryland e la Pennsylvania. Ma come nacque l’usanza delle casette al pan di zenzero?

 

 

La loro origine viene fissata a Norimberga, dove tra il 1500 e il 1700 i mercanti erano soliti importare enormi quantità di spezie quali appunto lo zenzero, la cannella, il pepe e le mandorle, mentre l’apicoltura a cui era consacrata la foresta reale garantiva una produzione di miele continua. Secondo una leggenda, la creazione delle prime casette risalirebbe proprio a quell’epoca: un fornaio che viveva nella città tedesca cominciò a prepararle sostituendo la farina con le mandorle per destinarle a sua figlia, affetta da una patologia rara. Secondo gli studiosi, invece, la casette al pan di zenzero vennero prodotte a partire dal 1800: in seguito alla pubblicazione della fiaba “Hansel e Gretel” dei Fratelli Grimm, nel 1812, un gran numero di fornai pensò di riprodurre la casa di leccornie con cui la strega attira i due protagonisti. Inutile dire che fu il pan di zenzero a plasmare quelle casette, che prontamente andarono a ruba. Questo dolce si impose durante le festività natalizie, e a tutt’oggi nulla è cambiato.

 

 

Nel 1800, le casette “raggiunsero” anche il Regno Unito: Thomas Hardy le cita in “Jude l’oscuro”, che apparve sotto forma di romanzo nel 1895, mentre nel ricettario “Dinner With Dickens: Recipes Inspired by the Life and Work of Charles Dickens”, uscito non molti anni orsono, la casetta di pan di zenzero è inclusa tra i dolci associati alla vita e all’opera di Dickens.

 

 

Oggi, a Norimberga vengono prodotte annualmente più di 70 milioni di casette. La città tedesca può essere considerata la città simbolo di questo dolce natalizio, che ha ottenuto peraltro il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Tuttavia, la gingerbread house rientra a pieno titolo anche tra le tradizioni natalizie del Nord Europa: il pan di zenzero, ricco di calorie, è un valido aiuto per contrastare le temperature polari della penisola scandinava. Nei paesi in cui la casetta è diffusa, inoltre, la tipicità gioca un ruolo molto importante. In famiglia, nei giorni che precedono il Natale, ci si riunisce tutti insieme per preparare il dolce; in Germania è possibile trovarlo in ogni mercatino nel periodo delle festività. In Svezia, la ricorrenza di Santa Lucia coincide con l’inizio della preparazione delle casette. In determinati luoghi vengono creati dei maestosi villaggi al pan di zenzero: il più grande a livello mondiale è Pepperkakebyen, costruito in Norvegia dagli abitanti di Bergen; notevoli e molto conosciuti sono anche Gingertown, la città di pan di zenzero realizzata a Washington, e il villaggio dell’ Hotel Marriott Marquis di New York, che contiene persino un treno.

 

 

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Il vin brulé, la bevanda del Natale e dell’Inverno

 

E’ il protagonista principale di ogni mercatino natalizio: il vin brulé, la famosissima bevanda calda a base di vino rosso, zucchero e spezie, riscalda e  promuove piacevoli pause all’insegna dell’euforia e della convivialità. Potremmo definirlo il drink più gettonato dell’Avvento, quando il freddo si fa intenso e nasce il desiderio di “sintonizzare” l’anima e il corpo con la magica atmosfera del periodo. Il nome “vin brulé”, in francese, significa letteralmente “vino bruciato”; per le sue caratteristiche, questa bevanda dapprima si diffuse nei più gelidi paesi europei. In seguito, l’usanza di bere il cosiddetto vino cotto si è estesa a livello mondiale. Le origini del vin brulé si perdono nella notte dei tempi. Pare che la sua ricetta sia stata elaborata nella Grecia antica; è ad essa che i romani si ispirarono per la preparazione di una bevanda a base di vino caldo, zafferano e miele che battezzarono conditum paradoxum. Alcune testimonianze su questo drink ci sono pervenute grazie a Marco Gavio Apicio, gastronomo e scrittore vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: nel suo libro di ricette “De Re Coquinaria”, Apicio descrive la bevanda come un delizioso mix di vino caldo, spezie – tra cui risalta il pepe – e miele in abbondanza. Nell’antica Roma, la conditum paradoxum si soleva bere dopo i pasti per favorire la digestione.

 

 

 

L’ abitudine di consumare vini speziati coinvolse anche il Medioevo; all’epoca trionfava l’Ippocrasso, un vino fermentato aromatizzato con spezie e dolcificato con miele. Successivamente, il vino cotto divenne un must nelle zone flagellate dal clima rigido, come le Alpi, l’Italia Settentrionale e i paesi del Nord Europa. Con il passar del tempo, il vin brulé è andato affermandosi come bevanda invernale per eccellenza. Il suo consumo prosegue a tutt’oggi, e ogni stato o regione ha rigorosamente mantenuto la ricetta del vin brulé locale. Generalmente, infatti, per prepararlo si utilizza il vino rosso riscaldato dolcificato con zucchero e aromatizzato con spezie quali la cannella, i chiodi di garofano, l’anice stellato e la noce grattugiata. Per intensificare il sapore del composto si aggiungono fette o scorze di agrumi (arance, limoni o mandarini) e mele. A seconda delle zone, tuttavia, esistono molteplici varianti della ricetta.

 

 

Mentre in quasi tutta la Germania, ad esempio, il vin brulé è esclusivamente a base di vino rosso, in Austria e nel Nord Italia viene utilizzato anche il vino bianco. Nel Bel Paese si registrano differenze persino da regione a regione: in Veneto si chiama “vinbruè” e si prepara sostituendo il vino con lo Chardonnay o il Pinot bianco; per aromatizzarlo si opta per la mela, la cannella e i chiodi di garofano. Consumare “vinbruè” è una tradizione associata al “panevin”, le sere antecedenti all’Epifania, quando nel Nord-Est si usa accendere grandi falò propiziatori. In Romagna, e in particolare a Faenza, il vin brulé è il “bisò”: si realizza con del Sangiovese quasi bollente e si beve durante la “Nott de bisò”, all’imbrunire del 5 Gennaio. Il nome “bisò” pare derivare dall’ espressione “biì sò”, “bevete, su!” in dialetto romagnolo, ma altre teorie rimandano a “Bischoff”, in tedesco “cardinale”, alludendo alla specifica tonalità di rosso (rosso cardinale, appunto) del vino cotto.

 

 

Tra i paesi europei in cui il vin brulé viene consumato regolarmente troviamo la Germania (dove prende il nome di Glühwein), il Regno Unito (in cui è stato battezzato mulled wine), la Francia (patria del vin chaud) e la Scandinavia: in Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia si chiama glögg ed è, tra l’altro, la bevanda tradizionale del giorno di Santa Lucia. Per affrontare il grande freddo, agli ingredienti classici del vin brulé sono stati aggiunti vodka e rum, cannella in abbondanza, zenzero, cardamomo, uva passa e mandorle pelate.

 

 

Ma qual è, esattamente, la gradazione alcolica del vin brulé? Con ovvie differenze determinate dal vino di base, rientra tra gli 11 e i 14 gradi. C’è da considerare, però, che l’etanolo evapora se sottoposto a temperature maggiori di 80°C; l’alcolicità della bevanda, inoltre, presenta variazioni legate sia al tempo che al modo di cottura. Va valutato poi un altro aspetto, parlando di questa bevanda natalizia: il suo effetto benefico. Il vin brulé vanta buone proprietà disinfettanti, corroboranti e riscalda istantaneamente il corpo. I chiodi di garofano possiedono virtù antibatteriche, mentre i tannini del vino hanno il potere di contrastare i virus; la scorza d’arancia è antibatterica, ricca di vitamina C e come tutti gli agrumi contiene esperidina, un potente antiossidante, e pectina, che protegge l’apparato gastrointestinale e facilita la digestione. Il vino cotto, insomma, è un efficace concentrato di proprietà salutari. Non è un caso che venga utilizzato persino per combattere i malanni stagionali!

 

 

 

Scandi Blonde, il biondo ghiaccio di tendenza per l’inverno

 

Il biondo dell’Autunno Inverno 2023/24? E’ chiarissimo, glaciale, scandinavo. Non è un caso che sia stato battezzato Scandi Blonde: il caratteristico biondo freddo delle chiome del Nord Europa. I capelli vengono decolorati, anche più di una volta, per ottenere una schiaritura DOC. La tonalità finale si presenta altamente luminosa, biondissima dalla radice alla punta del capello, ma per mantenere la capigliatura sana è essenziale nutrirla di frequente con creme e balsami specifici. Lo Scandi Blonde è una tinta dal forte appeal, molto scenografica. Per replicare il vero biondo scandinavo, com’è ovvio, bisogna avere i colori adatti: occhi e carnagione chiari, “nordici”. Se invece questa nuance attira per il suo fascino potente, perchè non passa inosservata, va valutato quanto si accorda con i colori e i lineamenti di chi la sceglie. Tenete presente che il biondo freddo evidenzia i tratti del viso, che se sono irregolari risaltano maggiormente. Per evitare l’effetto slavato, inoltre, sarebbe meglio non fare mai a meno di un tocco di make up. Con l’Inverno che si avvicina ogni giorno che passa, comunque, una cosa è certa: puntando sullo Scandi Blonde, il look “regina delle nevi” è assicurato!

 

Schiatzy Chen

Dior Haute Couture

Philosophy di Lorenzo Serafini

Zimmermann

Sacai

Menchen Thomas

Del Core

Gucci

Zimmermann

Antonio Marras

Courrèges

Giambattista Valli Haute Couture

Lanvin

Menchen Thomas

 

Il pupazzo di neve: storia di uno dei più giocosi simboli del Natale

 

«Fa così freddo che scricchiolo tutto» disse l’uomo di neve. «Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!» e intendeva il sole, che stava per tramontare. «Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte.» Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti. Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte. Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro. «Eccolo che arriva dall’altra parte!» disse l’uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo. «Gli ho tolto l’abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un’altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre.»

(Hans Christian Andersen, da “L’Uomo di Neve”)

 

E’ buffo, giocoso, e soprattutto…completamente bianco. Il che non sorprende, dal momento che è la neve a dargli forma. Emblema del Natale, ma anche dell’ Inverno, il pupazzo di neve rimanda alla gioia e alla spensieratezza. Esiste da tempi immemorabili, e definirlo solo un “pupazzo” sarebbe riduttivo: nel corso dei secoli, infatti, ha rivestito valenze molteplici e molto interessanti. Le sue radici risalgono al folklore del Nord Europa, dove i pagani lo assursero a simbolo della ciclicità naturale. Così come il seme, durante l’Inverno, riposa in attesa del risveglio primaverile, il pupazzo di neve “prende vita” con il freddo e si scioglie con il primo sole. Sappiamo tutti come sia fatto: il suo aspetto antropomorfo viene ottenuto collocando due o tre grandi palle di neve una sopra l’altra. Ma a quando risale, esattamente, la comparsa di questo personaggio? Lo scrittore, illustratore e cartoonist Bob Eckstein ne descrive le origini nel libro “La Storia del Pupazzo di Neve”. Secondo le sue ricerche, il candido emblema natalizio appariva già nel Medioevo.  In un manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale dell’ Aia, il “Libro delle Ore” (data di pubblicazione 1380), spicca infatti un disegno – un pupazzo di neve accovacciato davanti al fuoco – che lo vede protagonista. Nel 1494, persino Michelangelo ebbe a che fare con l’ “omino immacolato”. Dopo la morte di Lorenzo Il Magnifico, il suo mecenate, accettò una commissione di Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo) che gli chiese di realizzare una statua di neve. La scultura che Michelangelo creò per lui fu talmente strabiliante da farlo rientrare subito alla corte medicea. In alcune stampe del 1500, un pupazzo di neve viene attorniato da un girotondo di fanciulli. Nel XVI secolo, inoltre, l’ “uomo di neve” fu protagonista di un rilevante evento sociopolitico: il cosiddetto “Miracolo del 1511” di Bruxelles. L’ Inverno di quell’ anno fu particolarmente rigido, e il popolo, sfinito dal gelo e dall’ indigenza, ideò un metodo originale per scagliarsi contro l’aristocrazia e la Casa Reale. Creò oltre 100 pupazzi di neve con le loro fattezze, deformandole in un modo a metà tra il grottesco e il licenzioso. Fu una sorta di satira politica a base di neve. La popolarità dello “snowman”, come lo chiamano gli anglosassoni, raggiunse un vero e proprio boom durante l’ epoca vittoriana. Il Principe Alberto, che era un grande appassionato di tradizioni natalizie tedesche, importò l’ usanza del pupazzo di neve direttamente dalla Germania. Dal Regno Unito al resto del mondo il passo fu breve; l’ uomo di neve divenne una vera e propria icona del Natale, emblema di  speranza e dei piccoli piaceri che ci regala l’ Inverno. Libro di Eckstein a parte, una delle più suggestive testimonianze storiche che riguardano il pupazzo viene associata a San Francesco di Assisi.

 

 

Pare che il Santo – così, almeno, viene affermato in una parabola – adorasse i pupazzi di neve e ne incoraggiasse la realizzazione. Il fatto che la neve scendesse dal cielo la equiparava a un dono divino, come divino era il suo candore. Per San Francesco i pupazzi di neve erano degli autentici angeli, creature celesti che tenevano lontane le forze demoniache. Ma erano anche gli intermediari tra gli uomini e Dio, a cui trasmettevano le loro richieste. Vigeva l’ uso di ritrovarsi attorno a un pupazzo di neve per formulare desideri; si attendeva, poi, che si concretizzassero quando la neve si sarebbe sciolta con i primi tepori. Un’ antica leggenda narra invece che il pupazzo di neve sia un aiutante di Babbo Natale: è lui che si impegna affinchè la notte di vigilia nevichi, per creare un’atmosfera adeguatamente magica quando Santa Klaus va a consegnare doni con la sua slitta.

 

Oltre ad apparire in note pellicole americane (una su tutte “Jack Frost”, datato 1998, di Troy Miller), il pupazzo di neve è il protagonista principale di una celebre fiaba di Hans Christian Andersen, “L’uomo di neve”. Pubblicato nel 1861, il racconto è incentrato sul dialogo tra un pupazzo di neve e un vecchio cane. Tema principale è la condizione precaria sperimentata dal primo dei due, che diventa quasi una metafora della caducità della vita: ” Il sole ti insegnerà senz’altro a correre!”, dice il cane al pupazzo. ” L’ho già visto con il tuo predecessore dell’anno scorso, e con quello dell’anno prima. Via, via! e tutti ve ne andrete!”. Gli “uomini di neve” sono accomunati dalla stessa sorte, vivere d’Inverno per poi sparire sotto i raggi del sole. Ogni anno, nei mesi freddi, vengono creati pupazzi di neve destinati a sciogliersi e ad essere dimenticati. La situazione si ripete tutti gli Inverni, originando un ciclo perenne che presenta non poche similitudini con quello dell’ esistenza.

 

Immagini: seconda illustrazione dall’ alto, “A Merry Christmas” (1903), from the Miriam and Ira D.Wallach Division of Arts, Prints and Photographs. Picture collection by an unknown artist, original from The New York Public Library, digitally enhanced by Rawpixel. Terza immagine dall’ alto via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0 . Quarta immagine dell’ alto via snap713 from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

 

La colazione di oggi: dolcetti al pan di zenzero, una magica spezia per un magico Natale

 

Parlare di colazioni natalizie senza citare lo zenzero sarebbe improponibile! Avete presente quei giocosi e golosissimi biscotti a forma di omini, alberi di Natale, renne, fiocchi di neve e quant’altro? O le incantevoli casette ornate di glassa che sembrano uscite dalla fiaba di “Hansel e Gretel”? Bene: lo zenzero è l’ ingrediente basilare di dolci diventati ormai l’ emblema del periodo che gravita attorno al 25 Dicembre. E non a torto: sono squisiti, leggeri ed emanano un aroma di spezie che li rende del tutto speciali. Gustarli a inizio giornata, credetemi, è davvero l’ optimum. Basti pensare che vengono preparati con un ricco impasto composto da zenzero in polvere, cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Al tutto si aggiunge successivamente il miele oppure la melassa (quest’ ultima, soprattutto nel Nord Europa). Il risutato sono dolci dalla consistenza morbida al punto giusto: possono essere plasmati nelle forme più disparate e decorati con dosi massicce di Ghiaccia Reale, una glassa che si indurisce ad asciugatura ultimata. Di conseguenza, risultano una vera e propria delizia sia per il palato che per gli occhi. Alcuni, addirittura, li utilizzano per addobbare la casa e l’ albero di Natale! Ma privarsi del gusto di assaporarli sarebbe un vero peccato. Anche perchè lo zenzero è una spezia che abbonda di proprietà salutari, e viene considerato portentoso sin da tempi remotissimi.

 

 

Vanta virtù energizzanti, mantiene giovani e genera benefici per l’ intero organismo. E’ infatti un potente antiossidante, antibatterico oltre che antinfiammatorio, favorisce il benessere dello stomaco (azzerando la nausea e facilitando la digestione) e rafforza il sistema immunitario. Questa spezia appartenente alla specie delle Zingiberaceae – una pianta che proviene dall’ Estremo Oriente – possiede inoltre la facoltà di diminuire i livelli di glicemia e di colesterolo: un punto di forza non da poco. Durante l’ inverno è un autentico toccasana per i malanni stagionali. Nello specifico, lo zenzero è ricco di carboidrati, acqua e proteine, ma è anche una preziosa miniera di minerali quali il potassio, il fosforo, il calcio, il sodio, il ferro, lo zinco e il manganese.

 

 

Relativamente alla storia e alle leggende che la circondano, poi, la radice di zenzero è in grado di meravigliarci al pari dei dolci che con essa vengono preparati. Innanzitutto va detto che questa spezia, secoli orsono, veniva considerata magica. Il motivo principale risiedeva nel fatto che gli antichi popoli scoprirono che favoriva la conservazione dei cibi, ma non solo. Le sue virtù furono apprezzate fin da subito, quando Alessandro Magno la “trapiantò” in Europa dall’ Oriente. Greci e Romani ne decantavano le virtù: e se Confucio, nella lontana Cina, giudicava lo zenzero un ottimo “disintossicante” per la mente, pare che Dioscoride Pedanio, medico e botanico vissuto nella Roma imperiale di Nerone, lo ritenesse insuperabile per sedare i disturbi di stomaco. Secondo Pitagora, invece, lo zenzero era perfetto come antidoto al veleno dei serpenti. Tra il 1400 e il 1500, durante il regno di Enrico VIII, in Inghilterra si credeva che avesse il potere di allontanare le epidemie. Nel Medioevo, effettivamente, lo zenzero aveva acquisito un valore inestimabile sotto tutti i punti di vista. Per fare solo un paio di esempi, era richiestissimo in cucina e cominciò a guadagnarsi la fama di essere un efficace afrodisiaco.

 

 

Molto importante è citare la valenza magica attribuita allo zenzero sin dalla notte dei tempi. I maghi bruciavano la sua radice e utilizzavano il fumo per compiere svariati rituali, uno su tutti rompere incantesimi. Dalla spezia venivano estratti speciali profumi che avevano lo scopo di instaurare un contatto con l’aldilà. Si riteneva che tramite lo zenzero fosse possibile invocare la potenza del Sole, o del Dio Marte, ma non veniva unicamente utilizzato dagli “operatori dell’ occulto” (tra cui le streghe). Antiche credenze dotavano lo zenzero della capacità di esaudire i desideri (bastava masticarne la radice quel tanto che bastava per interiorizzare i suoi poteri), propiziare ricchezza e prosperità, rinvigorire l’energia, scongiurare i malanni, allontanare la malasorte, tornare a far ardere l’ amore sensuale in un rapporto di coppia…Amuleti allo zenzero proliferavano così come i medicinali che contenevano la sua radice, ritenuta altamente salutare.

 

 

In Inghilterra, gli omini al pan di zenzero che compaiono durante le festività (soprattutto a Natale, quando i simpatici biscotti assumono le forme dei tipici emblemi del periodo) vantano una lunga e prestigiosa storia. Pare che fu la Regina Elisabetta I Tudor a farli preparare, poichè amava offrirli agli autorevoli ospiti che invitava a corte. In seguito, intorno al 1875 circa, l’ omino al pan di zenzero (in inglese “gingerbread man”) diventò il protagonista di una fiaba/filastrocca famosissima nei paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa. La storiella viene tuttora narrata ai bambini in occasione del Natale, ma il fatto che sia stata tramandata oralmente e che abbia conosciuto un’ ampissima diffusione ha fatto sì che ne esistano innumerevoli versioni. 

 

 

Il 25 Dicembre del 1905 a Broadway venne addirittura inaugurato un musical, “The Gingerbread Man”, che rimase in cartellone per mesi sia a New York che a Chicago. Il biscotto più amato di Natale appare anche ne “La strada per Oz”, il libro che Lyman Frank Baum scrisse a mò di sequel de “Il meraviglioso mago di Oz” (la serie dei “Libri di Oz” contiene ben tredici volumi), ma il nostro eroe è comparso perfino sul grande schermo: riveste il ruolo di protagonista nel cortometraggio muto “John Dough and the Cherub” (1910) di Otis Turner e si fa notare tra i personaggi delle fiabe della saga di “Shrek” (che ha avuto inizio nel 2001).