La Lapponia e il fenomeno del Crepuscolo Polare

 

Quante sono le ore di buio, in Lapponia, durante l’Inverno? Chiunque stia progettando un viaggio nel Grande Nord, sicuramente se lo sarà chiesto. Alcuni temono che l’oscurità sia presente 24 ore su 24. Il fenomeno della Notte Polare, però, riguarda  solo le zone situate al di sopra del Circolo Polare Artico e al di sotto del Circolo Polare Antartico. Al Polo Nord e nelle isole Svalbard, ad esempio, per tre mesi all’anno le tenebre non hanno mai fine. Per quanto riguarda la Lapponia, che delle lande artiche rappresenta l’area più meridionale, il Sole si mantiene ininterrottamente sotto l’orizzonte con un’angolazione compresa tra 0 gradi e -6 gradi: in questo caso si parla di Crepuscolo Polare, un fenomeno in base al quale l’astro infuocato, pur non essendo visibile, diffonde una luce simile a quella di un crepuscolo che dura una manciata di ore. Il cielo esplora sfumature variabili, spaziando dalle tonalità dell’alba e del tramonto per poi sprofondare nell’azzurro della cosiddetta “ora blu”; in quegli istanti, il paesaggio è avvolto in una luce sospesa. Non è giorno, ma non è neanche notte: ci troviamo di fronte, appunto, a un lungo crepuscolo. La meraviglia è totale.

 

 

La luce irradiata dal Sole negli strati più alti dell’atmosfera, esaltata dal chiarore della Luna e delle stelle,  fa sì che il buio, in Lapponia, non sia mai assoluto. Due ulteriori elementi contribuiscono ad accentuare questa luminosità soffusa: le spettacolari luci dell’aurora boreale e la neve. Già, proprio la neve, che grazie al suo candore riflette e amplifica l’azzurro crepuscolare. Si può ribadire, quindi, che la Notte Polare (che i finlandesi chiamano “Kaamos”) non avvolge mai le terre lapponi nella completa oscurità. Da Novembre a metà Gennaio, certo, le ore di luce sono poche, e diminuiscono andando verso Nord. Il fenomeno è graduale: intorno alla metà di Novembre il Sole è ancora visibile quotidianamente, ma per circa tre ore. Dal 4 Dicembre al 10 Gennaio sparisce sotto l’orizzonte dando origine al Crepuscolo Polare e alle sue incantate atmosfere. Le ore di luce, come ho già accennato, possono variare a seconda della latitudine: si riducono nelle località settentrionali aumentando in quelle situate a Sud.

 

 

Prendendo a riferimento Rovaniemi, capoluogo della Lapponia e città di Babbo Natale, notiamo che le ore di luce ammontano a tre o quattro la prima metà di Gennaio e diventano cinque o sei durante la seconda metà. A Febbraio avremo dalle sei alle otto ore di luce le prime due settimane e dalle otto alle nove nella seconda parte del mese. A Marzo le ore di luce arriveranno a dieci e se ne aggiungeranno tre a fine mese. Per consultare un calendario delle ore di luce in Lapponia, vi rimando ai tanti che potete trovare in rete. Nel frattempo, pensate al Crepuscolo Polare e incominciate a sognare

 

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Yule, Solstizio d’Inverno: la leggenda del Re Quercia e del Re Agrifoglio

 

“Mentre l’anno del calendario Gregoriano volge al termine, le notti si allungano e le ore di luce sono sempre più brevi, fino al giorno del Solstizio invernale. Il respiro della natura è sospeso, e il tempo stesso pare fermarsi: è uno dei passaggi dell’anno dove l’oscurità regna sovrana, ma nel momento del suo trionfo cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume invernali. “

(Ossian D’Ambrosio, da “Yule. Riti, tradizioni e spiriti del Natale”, a cura di Davide Marré, di Alessandro Azzoni et al., Phanes Publishing)

 

L’agrifoglio, pianta sacra degli antichi Celti, è un sempreverde che rientra tra i miti di Yule, il Solstizio d’Inverno: simboleggiando la metà più buia e gelida dell’anno si associa al Re Agrifoglio, raffigurato come un anziano perennemente sorridente dalla lunga barba bianca. Si narra che il Re Agrifoglio, ad ogni Solstizio, lottasse contro il Re Quercia, personificazione dei mesi in cui il Sole torna a splendere. L’uno aveva la meglio sull’altro a fasi alterne. Il Solstizio d’Inverno sanciva il trionfo del Re Quercia sul Re Agrifoglio, favorendo il ritorno progressivo della luce. Durante il Solstizio d’Estate, invece, era il Re Agrifoglio a vincere il combattimento: ciò determinava la graduale ricomparsa dell’oscurità e l’assopimento della natura. Le figure del Re Quercia e del Re Agrifoglio sono strettamente connesse, l’una non potrebbe mai fare a meno dell’altra. I due Re si fronteggiano in un equilibrio perfetto, così come perfettamente armonico è il trionfo del primo sul secondo e viceversa.

Oggi, alle 10.21, la stagione fredda ha fatto il suo ingresso ufficiale: buon Solstizio d’Inverno.

 

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Il fascino ombroso di Novembre

 

Se ad Ottobre predominano colori come il rosso, l’arancio, l’oro e il viola, Novembre sfoggia una palette più scarna, ma altrettanto intensa, che include il nero e tutte le gradazioni del grigio. La natura è pronta per il lungo riposo invernale, il cielo si incupisce, il buio prevale sulla luce del giorno. Eppure, questa trasformazione è impregnata di un fascino indescrivibile: basti pensare che alla fine del mese, quando i lampioni si accendono intorno alle quattro del pomeriggio, l’oscurità viene squarciata da un tripudio di luci e luminarie natalizie. Impariamo quindi a godere delle atmosfere ombrose, dei grigiori di Novembre. Sono giorni che coincidono con la fase di raccoglimento che anticipa il periodo più magico dell’anno.

 

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Il corvo, tra mito e simbologia

 

Restando in tema di oscurità novembrina  (un argomento accennato nell’articolo apparso ieri su VALIUM), oggi incontriamo il corvo: un volatile che ha il colore del buio pesto e una fama tenebrosa. Il corvo comune o corvo selvatico (nome scientifico Corvus frugilegus Linnaus) è un passeriforme la cui area di diffusione spazia dall’Europa Centrale al Giappone passando per l’Asia Minore e l’estremo Oriente. In questo periodo dell’anno, prima dell’arrivo dei rigori invernali, è solito migrare in direzione sud-ovest, ma non tutti i corvi effettuano lo svernamento. Mentre alcuni volano verso luoghi caldi anche molto lontani (dal Nord Europa, ad esempio, ai paesi del Mediterraneo), altri gruppi si rifugiano presso gli alberi dove si dedicheranno alla nidificazione: i corvi, infatti, nidificano in colonie sui rami delle piante, e le fasi del corteggiamento hanno inizio già nei mesi freddi. Ma perchè il corvo, nel mondo occidentale,  viene frequentemente associato a connotazioni e presagi oscuri? Basta pensare al suo aspetto per provare un senso d’inquietudine: il piumaggio è di un nero talmente profondo da evidenziare riflessi verdi o color porpora, se viene lambito dai raggi del sole; il becco, parzialmente nero e ricurvo, ha ispirato la maschera che nel Medioevo indossavano i Medici della Peste. Non è un caso che il corvo, nutrendosi (anche) di carcasse, rimandi così spesso alla simbologia della morte. E poi, l’antica leggenda che lega i corvi della Torre di Londra al destino della Corona è ben nota: se i misteriosi pennuti muoiono o si allontanano, e il loro numero scende sotto il sei, secondo la profezia cadrà la Corona stessa.

 

 

Il corvo e le streghe

Il corvo, in realtà, è un animale complesso che in secoli e culture diverse è stato soggetto a molteplici interpretazioni, non solo negative. Eppure, la sua reputazione sinistra prevale. Nel Medioevo, ad esempio, la figura del corvo veniva immancabilmente messa in relazione con quella della strega, della quale incarnava uno dei famigli: le entità demoniache, cioè, con sembianze di gatti, furetti, corvi o gufi che la strega riceveva in regalo dal diavolo e che diventavano i suoi servitori o assistenti. Il corvo, inoltre, veniva considerato un messaggero delle adoratrici del demonio, che all’occorrenza avevano la facoltà di tramutarsi in un cupo passeriforme. Anche demoni specifici come Malphas e gli Harab erano soliti trasformarsi in corvi.

 

 

Il corvo e Odino

La mitologia norrena associa i corvi a Odino, che un kenning definiva “dio corvo”. La divinità suprema del mito scandinavo possedeva due corvi, seduti costantemente sulle sue spalle; il loro scopo era quello di volare intorno al mondo per poi riferire a Odino, una volta tornati, le notizie e i segreti più importanti. Il dio norreno li spronava a prendere il volo all’alba; la sera, dopo aver vagato per mari e monti, i corvi ritornavano e si posavano sulle spalle di Odino per bisbigliargli all’orecchio quanto avevano appreso. I volatili si chiamavano Huginn, “pensiero” in norreno, e Muninn, ossia “memoria”: due nomi indicativi, se pensiamo che il corvo è un animale che vanta una straordinaria intelligenza.

Il corvo e il suo ingegno fuori dal comune

Forse, il corvo ha acquisito la nomea di animale “diabolico” anche in virtù delle sue abilità intellettive. Questo volatile ha la capacità di elaborare un pensiero sommamente complesso, è in grado di risolvere problemi e di concepire accuratissime strategie di sopravvivenza. Solo animali come il delfino e lo scimpanzè, oltre al corvo,  possiedono la dote di riconoscersi allo specchio; ma non è finita qui: a contraddistinguere il corvo è anche uno sbalorditivo senso della memoria. A quanto pare, i nomi dei due corvi di Odino non erano stati scelti a caso! D’altronde, in tempi molto antichi, l’intelligenza e la saggezza del passeriforme dalle piume nere erano state notate persino dai Celti d’Irlanda e dai nativi americani, che su di esse imbastirono innumerevoli leggende.

 

 

Il corvo e l’alchimia

Il corvo e il mistero sono un tutt’uno. Gli aspetti che lo legano alla simbologia magica non vanno dimenticati. Su tutti, spicca la valenza del “passaggio” da una condizione all’altra, indossolubilmente associata al concetto di metamorfosi e trasformazione. Il corvo è un’importante emblema di transizione; i nativi americani lo ricollegavano al Grande Spirito, colui che connetteva il mondo terreno con l’aldilà. Ma a prescindere da questo, la funzione simbolica di “passaggio” rivestita dal corvo è in stretto connubio con il viaggio iniziatico nel mondo spirituale: la transizione, ad esempio, dall’ignoranza alla conoscenza. Gli alchimisti utilizzavano il corvo con degli intenti ben precisi. Decapitandolo, favorivano la nascita del basilisco (la creatura mitologica serpentiforme che era in grado di uccidere o tramutare qualcuno in pietra con un solo sguardo); la testa del corvo, infatti, insieme al suo cuore, venivano frequentemente adoperati per la creazione di potenti pozioni magiche.

Foto: Sonny Mauricio via Unsplash

 

Pieno Sole

 

Ferragosto: vacanze, relax, ma soprattutto sole, tanto sole. Il sole, non a caso, è l’emblema per eccellenza di questa festa. E i rituali pagani, anticamente, lo celebravano con grandi falò che avevano lo scopo di propiziarsi la sua luce per molto tempo ancora. Nel periodo in cui le giornate cominciano ad accorciarsi a poco a poco, onorare il Sole era un modo per esorcizzare il buio dell’inverno, la stagione in cui la natura si assopisce e cessa di elargirci i suoi frutti. I falò, inneggiando al Sole e alla sua potenza, avevano anche una funzione purificatoria e scacciavano gli spiriti maligni. In molte zone d’Italia, questa tradizione è rimasta invariata. Se ci facciamo caso, comunque, anche i fuochi d’artificio di Ferragosto rappresentano un anelito di luce: esplodono nell’oscurità e la accendono di scoppiettanti, luminose e coloratissime scintille. Ed è proprio alla luce, ma a quella del Sole splendente del 15 Agosto, che ho voluto dedicare la nuova photostory di VALIUM.

 

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Yule, il Solstizio d’Inverno degli antichi Celti, e le sue tradizioni

 

Le giornate sono brevi
Il sole una scintilla
stesa sottile tra
buio e buio.
(John Updike)

 

E’ arrivato l’Inverno. E l’ha fatto silenziosamente, mentre tutti dormivano: erano le 4,27 di stamattina quando è entrato ufficialmente. Oggi è il giorno più corto dell’anno, quello che i popoli germanici della tradizione pre-cristiana chiamavano Yule. Le vibrazioni cosmiche sono potenti, quasi palpabili, come per renderci partecipi di questo importante momento di trasformazione: l’oscurità è al suo apice, ma già da domani comincerà gradualmente a lasciar spazio alla luce. L’atmosfera sospesa ci invita ad assaporare attimo per attimo l’arrivo dell’Inverno astronomico. Gli antichi popoli hanno sempre celebrato la nascita del “nuovo Sole”: basti pensare ai romani e al Dies Natalis Solis Invicti, “invitto” sulle tenebre imperanti, o alla ricorrenza celtica di Yule, dove si festeggiava il Sole Bambino. Sia il Dies Natalis Solis Invicti che Yule cadevano in un periodo compreso tra il 22 e il 25 Dicembre (il calendario Giuliano fissava il Solstizio proprio in questa data), quando il Sole, nell’emisfero Nord, sembra fermarsi nel bel mezzo del cielo. “Solstizio” deriva infatti dal latino “Solstitium”, un termine che unisce “sol” (sole) e “sistere” (fermarsi). Dal punto di vista astronomico significa che il Sole, nel suo moto apparente lungo l’ellittica, raggiunge il punto di declinazione minima. Ma anche se il Solstizio sancisce la nostra massima distanza dall’astro infuocato, possiamo assaporare la magia di questi momenti nella consapevolezza della sua rinascita. Dopo la notte più lunga dell’anno il Sole tornerà a sorgere e ci regalerà, giorno dopo giorno, dei minuti di luce in più.

 

 

Tornando a Yule, la festa celtica del Solstizio di cui VALIUM ha già parlato tante volte (rileggi qui uno degli articoli), è interessante esaminare alcuni rituali giunti fino ai giorni nostri che, molto spesso, fanno parte delle tradizioni del Natale. L’albero solstiziale, ad esempio, era un abete (sempreverde simbolo di immortalità rispetto al gelo invernale) che veniva decorato con un tripudio di campanelli e mini rappresentazioni del Sole. In cima all’albero, a mò di puntale, svettava una stella a cinque punte, emblema dei cinque elementi della natura. L’albero veniva allestito rigorosamente all’interno delle case per offrire un rifugio agli spiriti che popolavano la foresta. Il ceppo di Yule, anche questo un argomento trattato approfonditamente da VALIUM (rileggi qui l’articolo che gli ho dedicato), veniva acceso a Yule utilizzando un grosso ciocco di quercia. Le famiglie lo bruciavano nel camino della propria casa per allontanare le entità maligne che si nascondevano nell’oscurità. Prima di compiere questo rito, però, al ceppo venivano legati i rametti di alcune piante dalla valenza simbolica: l’edera, associata al dio del Solstizio; l’agrifoglio, che incarnava l’anno che volgeva al termine; il tasso, emblema della morte dell’anno; la betulla, rappresentazione del nuovo inizio e delle nuove vite. I rametti dovevano essere annodati al ceppo con un nastro rigorosamente rosso, e il ceppo si accendeva usando il tizzo che risaliva all’anno prima. Il ceppo di Yule veniva lasciato ardere l’intera notte e si riaccendeva la sera dopo, un rituale che andava compiuto per dodici giorni di seguito. Infine, le ceneri si spargevano in giardino per proteggere le piante (allontanano i parassiti) e scongiurare la negatività.

 

 

Il ramo dei desideri era un’usanza che consisteva nell’appendere un ramo di grandi dimensioni nell’atrio della propria dimora. Ciò veniva fatto nove giorni prima di Yule dopo aver effettuato ulteriori operazioni: il ramo doveva essere tinto di vernice dorata e decorato con nastri di carta rossa. Tutte le persone che avrebbero varcato la soglia di casa potevano esprimere un desiderio trascrivendolo sui nastrini di carta, che poi venivano accuratamente ripiegati e legati al ramo. La sera del Solstizio, una volta acceso il focolare, si lasciava ardere anche il ramo dei desideri: il fumo avrebbe raggiunto gli dei, che forse li avrebbero esauditi.

 

 

I Celti consideravano il vischio di quercia una pianta sacra, tant’è che aveva la facoltà di raccoglierlo solo il Sommo Sacerdote servendosi di un falcetto d’oro. I Druidi, successivamente, lo immergevano in una bacinella dorata ricolma d’acqua che distribuivano al popolo: al vischio, magico in quanto cresceva su rami e tronchi di molti alberi pur essendo privo di radici ed emblema di immortalità in quanto sempreverde, si attribuivano portentose proprietà guaritrici. La quercia, per i Celti, era un simbolo della presenza divina sulla terra. E sulla quercia si scagliava frequentemente la folgore, il che collimava con la credenza che il vischio scendesse dal cielo insieme ai lampi, emblemi  della discesa sul suolo terrestre delle divinità. Alle sue virtù guaritrici si aggiungevano quelle propiziatorie, associate alla fertilità (dato il suo aspetto simile allo sperma) e al buon auspicio. Non è un caso che il vischio sia onnipresente a tutt’oggi tra le decorazioni natalizie: attirerebbe l’abbondanza e la fecondità, prova ne è il fatto che gli innamorati usano baciarsi sotto il vischio in segno beneaugurale.

 

 

L’agrifoglio, per i Celti d’Irlanda, si legava al Solstizio poichè le ghirlande che venivano realizzate con questa pianta erano un’emblema della ruota dell’anno. Nell’ “isola di smeraldo”, a Natale, vige tuttora l’usanza di decorare le case con molteplici ghirlande di agrifoglio; la tradizione vuole che si rompano e si lancino all’esterno della casa dopo le feste per rappresentare il termine delle tenebre e la rinascita della luce.

 

 

Auguro un Buon Solstizio d’Inverno a tutti e mi raccomando, non dimenticate di accendere molte candele in casa: la fiamma che balugina nel buio è un omaggio alla luce che rinasce, a poco a poco, nell’oscurità.

 

 

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Verso Santiago

 

“Il giorno passa, musei, strade, negozi, giornali, cala una sera con la luna e nubi veloci, non sai chi è il fuggiasco e chi l’inseguitore. E di nuovo suonano le campane, prima tre brevi rintocchi, metallo contro metallo, rumore secco, senza melodia, poi dodici rintocchi sonori che scagliano le ore sulla strada e spezzano la notte a metà: l’ora dei fantasmi. La piazza è avvolta alternatamente di luce e di oscurità, tanto che sembra anch’essa in movimento, diventa un mare e la chiesa è un rimorchiatore diretto a Occidente, un’imbarcazione che si trascina dietro un paese, un paese come una nave che è grande come un paese. Una volta Antonio Machado chiese al Duero (il poeta chiede al fiume): la Castiglia non corre sempre verso il mare, proprio come lo stesso Duero, e cioè verso la morte e quello che viene dopo? Se è vero, è a quest’ora che lo si può vedere: a Puigcerdà, a Somport, a Irùn non soltanto la Castiglia, ma tutta la Spagna si stacca ancora una volta dall’ Europa, Santiago è il capitano sul rimorchiatore, la forma nera della cattedrale traina la nave di Aragona e di Castiglia e di tutte le regioni della Spagna fino all’oceano, e, appoggiato al parapetto, tra preghiere, brindisi e gran segni di commiato, il Grande Teatro della Spagna, Alfonso il Saggio e Filippo II, Teresa di Avila e san Giovanni della Croce, El Cid e Sancho Panza, Averroè e Seneca, l’Hadjib di Còrdoba e Abraham Benveniste, Gàrgoris e Habidis, Calderòn de la Barca, gli ebrei e i mori scacciati, i roghi dell’ Inquisizione e le suore esumate della guerra civile, Velàsquez e il duca di Alba, Francisco de Zurbaràn, Pizarro e Jovellanos, Gaudì e Baroja, i poeti del ’27, le marionette di Valle-Inclàn e il cagnolino di Goya, anarchici e vescovi mitrati, il piccolo dittatore e la regina ninfomane, il castello di Peñafiel sulla sua collina color zolfo, l’Alhambra rosata e la Valle dei Morti, amici e nemici, vivi e morti. La zona in cui un tempo si estendeva la meseta ora è un mare in tempesta, il frastuono è assordante, e poi, d’un tratto, come se il tempo stesso si fermasse, tutto è finito, il viaggiatore sente i propri passi sulle grandi lastre di pietra, vede il chiaro di luna sulle torri e sui palazzi severi e sa che dietro quelle fortificazioni del passato dev’esserci un’altra Spagna che forse non vuole più conoscere la sua, oppure non sa riconoscerla. Le sue deviazioni, le sue disgressioni sono giunte al termine. Il suo viaggio in Spagna è finito.”

Cees Nooteboom, da “Verso Santiago. Disgressioni sulle strade di Spagna”

 

 

Da Lussi a Santa Lucia: il 13 Dicembre in Scandinavia tra Paganesimo e Cristianesimo

 

“Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.”
(Proverbio)

 

Oggi festeggiamo Santa Lucia, una delle ricorrenze più importanti dell’Avvento. VALIUM ne ha parlato spesso, focalizzando l’attenzione sulla sua celebrazione in Svezia e sulla storia della “Santa della Luce” (clicca sui due link per rileggere gli articoli). In questo post, invece, approfondirò la matrice pagana della festa. Le location sono ancora una volta le magiche, innevate lande del Nord Europa: in Scandinavia, anticamente, la notte del 13 Dicembre era dedicata a una suggestiva festività dell’ era pre-cristiana. Innanzitutto, va precisato lo scenario in cui tale data si andava a collocare. Per i popoli nordici, Dicembre è il mese più buio dell’anno; l’oscurità fagocita le distese di fitti boschi, i campi, i laghi, i villaggi. Le forme si fanno indistinte. Questo periodo, molti secoli orsono,  veniva identificato con il caos primordiale:  l’ indefinito, le tenebre antecedenti alla creazione. Quando arrivava l’ Inverno, era come se si regredisse a quella condizione. La notte del 13 Dicembre, con il suo buio interminabile, rivestiva una precisa valenza simbolica. Era la più lunga, e quindi la più oscura notte dell’ anno; poteva nascondere insidie e pericoli. In Scandinavia venne battezzata “Lussinatt” o “Langnatt”, ovvero “lunga notte”, e si riteneva che Lussi, una divinità pagana il cui nome significa “luce” poichè era considerata la “Madre del Sole Nuovo”, regnasse su di essa.

 

 

Lussi era anche la madre degli spiriti dell’ Altro Mondo, e la notte del 13 Dicembre soleva volare nelle tenebre con il suo corteo di gnomi, fate, elfi e troll: un seguito sinistro e fantasmatico denominato Lussiferda. Questo particolare connette la figura di Lussi con il mito della Oskoreia, la “Caccia Selvaggia” capeggiata da Odino; imbattersi in una simile processione soprannaturale non era certo di buon auspicio, si rischiava di essere rapiti e trascinati nel Regno dei Morti. Ma anche Lussi e il suo corteo non scherzavano. Quando arrivava la Lussinatt, sorvolavano le case castigando tutti coloro che non si comportavano a dovere. Lussi si calava nei camini per prelevare i bambini malvagi e portarli nel Regno dei Morti, e puniva le famiglie che non adempivano ai preparativi per la festa di Yule. La notte del 13 Dicembre, inoltre, anche gli animali erano dotati del dono della favella: si riteneva che conversassero tra loro e commentassero come venivano trattati dai rispettivi padroni. Ogni istante della Lussinatt, insomma, era intriso di magia. Il motivo è molto semplice. Nel mese di Yule, quando il buio imperversava, cadevano le barriere tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti e delle creature fatate. Un numero illimitato di ombre poteva celarsi nell’ oscurità; incantesimi e pericoli erano in agguato dietro l’angolo.

 

 

Potremmo considerare Lussi la controparte oscura di Santa Lucia. La divinità pagana portava un nome che inneggiava alla luce, eppure regnava sulla notte più lunga dell’ anno; era rappresentata come una vecchia, a metà tra la strega e la maga, ma aveva il compito di concepire l’astro solare, che immergeva in un caldaio e rigenerava grazie al bollore delle fiamme. Queste ambivalenze, in realtà, appaiono frequentemente nel Paganesimo. In quanto Madre del Sole Nuovo, Lussi era anch’essa, come Lucia, una “portatrice di luce”: il suo nome aveva una valenza potentemente simbolica.

 

 

Ma quando avvenne, esattamente, la transizione dal culto di Lussi a quello di Santa Lucia? In Scandinavia il passaggio non fu così rapido. Il Cristianesimo cominciò a diffondersi nell’ anno 1000 in quelle lande nordiche, e tuttavia svariate testimonianze dimostrano che, nel XIII secolo, la figura di Lussi era ancora saldamente ancorata nell’ immaginario collettivo. La venerazione di Santa Lucia, e i riti che a tutt’oggi la contraddistinguono, sono fenomeni che in Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia si affermarono dalla fine del 1800 in poi (in Norvegia, il culto di Lucia di Siracusa prese piede addirittura dopo il secondo conflitto mondiale): prova ne è il fatto che “Santa Lucia”, la celebre canzone napoletana che si accompagna alle celebrazioni nordiche, fu scritta da Teodoro Cottrau nel 1849. Solo nel XX secolo la devozione a Lucia, portatrice di luce e protettrice della vista, si consolidò nella penisola scandinava. Fino a quel momento, soprattutto nelle zone rurali, le tracce delle antiche tradizioni pagane non erano mai scomparse del tutto.

 

 

Lussi e Lucia: due figure agli antipodi accomunate, però, da più d’una caratteristica. La prima è l’essere entrambe “portatrici di luce”. Lussi in quanto artefice del rinnovamento del Sole, Lucia per il suo nome e poichè nel suo sguardo vibrava la luce spirituale del cambiamento e della speranza. Non è un caso che, secondo la leggenda, le furono cavati gli occhi. Ma gli elementi che Lussi e Lucia hanno in comune sono anche altri. Uno di questi è venato di accenti vagamente sinistri, e sembra riportare al clima oscuro della Lussinatt: gli antichi popoli sostenevano che guardare negli occhi le divinità femminili più “tenebrose” (e tra queste rientrava Lussi) portava a conseguenze terribili e irreversibili. Curiosamente, tutto ciò riporta a una credenza relativa a Santa Lucia. Ai bambini si raccomandava di non guardarla, quando passava di casa in casa per consegnare i doni, perchè avrebbe gettato cenere nei loro occhi accecandoli temporaneamente.

 

 

Gli stessi occhi che Lucia conserva in un piattino sono un’ immagine inquietante. Eppure, al tempo stesso, hanno una valenza positiva: emblema di luce, gli occhi giacciono inanimi così come il Sole soccombe all’ oscurità dell’ Inverno. Ma la luce e il Sole rinasceranno a Yule, il giorno del Solstizio, quando il buio comincerà ad arretrare progressivamente. In omaggio al Sole che rinasce, gli svedesi hanno ideato un dessert tipico della festa di Santa Lucia: i Lussekatter, ribattezzati in Italia “Gatti di Santa Lucia”. Si tratta di dolcetti soffici e di un giallo luminoso (come lo è, appunto, il Sole) ottenuto con lo zafferano. La loro forma ad “S” rimanda, non a caso, alla rinascita ciclica del Sole, anche se da molti viene associata alla coda del gatto protagonista di un’antica leggenda sui Lussekatter.

 

 

L’ illustrazione è dell’ artista svedese Gerda Tirén

 

La prima notte di luglio

 

” Nella vita di Herr Cazotte trascorrere la prima notte di luglio all’aperto era una specie di rito. Ad esso fedele, anche il primo luglio di quell’anno, subito dopo che la Corte e tutti gli abitanti di Rosenbad si erano ritirati per la notte, egli uscì sotto le stelle pallide in un cielo terso, in un mondo rorido di rugiada e colmo di fragranza. A tutta prima camminò rapidamente per allontanarsi, poi rallentò il passo per guardarsi intorno. E men­tre così faceva sentì che il suo cuore traboccava di gratitudine. Si tolse il cappello. “Quale tremendo, insondabile potere di immaginazione” si disse “ha formato ognuno dei più piccoli oggetti che ho d’intorno, e li ha combinati in una possente unità! Io non sono una persona modesta, ho una notevole considerazione per i miei talenti, e oso cred­ere che avrei anche potuto immaginare l’una o l’altra delle cose che mi circondano. Avrei potuto inventare i lunghi fili d’erba, ma sarei stato capace di inventare la rugiada? Avrei potuto inventare l’oscurità, ma sarei stato capace di inventare le stelle? Di una cosa sono sicuro” disse tra sé mentre rimaneva perfettamente immobile e ascoltava “che non sarei mai stato capace d’inventare l’usignolo”. “I fiori del castagno” continuò “si tengono dritti come i ceri degli altari. I fiori del lillà sembrano erompere in tutte le direzioni dal tronco e dai rami, dando a tutto l’arbusto l’aspetto di un lussureggiante bouquet e i fiori del cìtiso si inchinano penduli come do­rati ghiaccioli estivi nell’aria di un pallido azzurro. Ma i fiori del biancospino si spandono lungo i rami come fragili strati di neve bianca e rosea. Non è possibile che una varietà così infinita sia necessaria all’economia della Natura, dev’essere per forza la manifestazione di uno spirito universale, inventivo, ottimista e giocondo all’estremo, incapace di trattenere i suoi scherzosi torrenti di felicità. E davvero, davvero: ” Domine, non sum dignus.” Si aggirò a lungo per i boschi. “Stanotte” pensò “sto rendendo omaggio al grande dio Pan”.”

 

Karen Blixen, da “Ehrengard”