Primavera

 

“…allora posai i vestiti sull’erba e prima di entrare nel fiume guardai il colore che ci lasciava il sole e il colore che ci lasciava il cielo e la luce tutta che era ormai diversa, perchè la primavera era iniziata dopo aver vissuto nascosta dietro la terra e dentro i rami. Entrai nell’acqua piano piano, senza il coraggio di respirare, e sempre con la paura che, appena entravo nel mondo dell’acqua, l’aria, svuotata dal fastidio che ero, si arrabbiasse e , diventata vento, soffiasse forte come d’inverno, quando quasi spazzava via le case e la gente. Avevo cercato la parte più ampia del fiume, la più bassa, la più lontana dal paese, dove non andava praticamente mai nessuno, perchè non volevo che mi vedessero. L’acqua scorreva sicura di sé, di quel peso che le veniva dalla neve delle montagne e da tutte le sorgenti che fuggivano dall’ombra attraverso un foro nella roccia. Fusa per la frenesia di fondersi, l’acqua formava il fiume. Poco dopo aver superato le stalle e il recinto dei cavalli mi ero accorto che un’ape mi seguiva insieme al fetore di sterco e all’odore dei glicini che stavano fiorendo. L’acqua era fredda, la fendevo con le braccia, la pestavo con i piedi, chiazzata dal sole che nasceva oltre le Pietre Alte con la smania di volare. Ci infilai la testa perchè l’ape perdesse le mie tracce; sapevo bene che certe api vecchie di sette anni erano più che astute. Dentro era torbido, una nube di vetro, e mi fece pensare alle sfere di vetro nei cortili, sotto i pergolati di glicine robusto, di quei glicini che scendevano lungo le case. Ogni primavera le dipingevamo del colore della rosa e per questo la luce del paese sembrava diversa, inebriata com’era dal rosa delle case. D’inverno, al chiuso delle sale da pranzo, rosse del fuoco che fuggiva su per il camino, facevamo i pennelli con le code dei cavalli, e i manici di legno che poi legavamo con il fildiferro. Quando erano pronti li mettevamo al sicuro e partivamo, uomini e ragazzi, a cercare la polvere rossa della Maraldina, la montagna coperta di eriche con in cima l’albero rinsecchito e il vento che fischiava tra i cespugli. (…) Appena tornati in paese lasciavamo i sacchi sotto la tettoia, aspettavamo il bel tempo per mescolare la polvere rossa con l’acqua e facevamo la pittura rosa che poi l’inverno cancellava.”

Mercé Rodoreda, da “La morte e la primavera” (Edizioni La Nuova Frontiera)

 

La villa sull’ Appia Antica

 

“Entra nella nostra vita Franco, di cui all’ epoca non so nulla, solo che è un pittore. Ha la mascella squadrata, è affettuoso con me e tumultuoso con la mamma, percepisco l’ effervescenza del loro amore, si respira nell’aria. Li vedo abbracciarsi, inseguirsi, bramarsi, in continuo movimento, sembrano cavi elettrici senza guaina. Sono pazzamente innamorati e il mondo è ai loro piedi, tanto che a un certo punto ci trasferiamo sull’ Appia Antica, in una villa di Carlo Ponti, il famoso produttore cinematografico nonchè marito di Sophia Loren. Una casa enorme, dove decidono di costruire una piscina, abusiva naturalmente, infatti dalla terra rinvengono piatti di oro zecchino, resti archeologici, che si “grattano” gli operai. La sala da pranzo è una catacomba, lo studio di Franco un giardino di inverno, ci sono i suoi quadri poggiati sopra le poltrone, barattoli, pennelli, un odore fortissimo di acquaragia che mi piace da pazzi, come il disordine di quella stanza piena di taglierini, forbici, scotch, colla e macchie di colore ovunque (…). Un camino di pietra gigantesco scalda il salone: le stanze si riempiono spesso di amici di ogni genere, le feste sono improvvise, rocambolesche, divertentissime. Lo champagne scorre a fiumi, la mamma è un giro di giostra. Selvatica, a piede libero, non indossa mai le mutande. Un giorno decide di disfarsi di tutti i bagagli della sua amica Pia, una modella brasiliana che spesso è ospite da noi, che entra ed esce da casa con gran disinvoltura. La mamma è scocciata con lei, perchè non va più via, quella che doveva essere una delle sue visite si è trasformata in una vacanza in pianta stabile, per questo decide di buttare tutte le sue valigie e tutti i suoi vestiti nel bosco antistante la grande villa. Mi coinvolge nell’ avventura, lo vivo come un gioco assurdo e provocatorio, liberarsi assieme degli abiti dell’ amica. Insieme alla mamma li lancio tra i rovi: magliette, jeans, cinte e sandali. Lancio tutto quello che mi viene alle mani. Mi diverto con lei. E soffro quando non c’è. “

 

Lucrezia Lante della Rovere, da “Apnea. La mia storia”

 

 

Foto: Luca di Ciaccio via Flickr, CC BY-NC-SA 2.0