Pasqua, una solennità ricca di simboli

 

Giovedì abbiamo parlato dell’uovo, ma la Pasqua è una solennità piena zeppa di simboli che affondano le loro radici nella religione, nella cultura e nel folklore. La Resurrezione di Cristo, avvenuta tre giorni dopo la sua sepoltura, rappresenta la festività più importante del Cristianesimo: con il passar dei secoli si è andata ammantando, quindi, di molteplici connotazioni simboliche. Di alcuni di questi emblemi si sono perse le origini, mentre altri sono diventati così celebri da essere dati per scontati. Facciamo un po’ di chiarezza e addentriamoci nella ricca iconografia pasquale.

 

L’agnello

 

Simbolizza il sacrificio di Gesù, che ha dato la vita per l’uomo. La tradizione di mangiare agnelli risale alla Pasqua ebraica, il cui nome, Pesah, indicava originariamente la liberazione, ad opera di Mosè, dai lunghi anni di schiavitù che gli Ebrei sperimentarono in Egitto. Fu Mosè, infatti, a guidare il loro esodo verso la Terra promessa. Durante la Pasqua ebraica era tassativo cibarsi degli agnelli per commemorare la salvezza: quando Dio inviò l’ultima piaga, che uccise ogni primogenito egiziano, gli Ebrei (su direttive di Mosè) sacrificarono degli agnelli. Li mangiarono insieme al pane azzimo e tinsero gli stipiti delle porte con il loro sangue. In questo modo, Dio avrebbe potuto riconoscere le loro dimore e risparmiare i loro primogeniti.

 

La campana

 

Il giorno di Pasqua, le campane suonano festosamente per celebrare la Resurrezione di Gesù. Il loro suono comunica gioia, simboleggia la gloria di Gesù risorto. Il Venerdì Santo, invece, giorno della morte di Gesù, le campane suonano a lutto.

 

La colomba

 

Simboleggia la Pace, ma anche lo Spirito Santo, ovvero il Terzo Membro della Santissima Trinità. La Colomba è una figura strettamente legata al Diluvio Universale. Quando il Diluvio si placò, Noè ordinò a una colomba di volare fuori dall’ Arca. La terza volta che lo fece, la colomba tornò con un ramoscello d’ulivo nel becco. Per Noè fu un chiaro simbolo della riconciliazione tra Dio e l’uomo. La colomba divenne quindi un emblema di Pace e della rinascita di Gesù, che si immola sulla croce per la nostra Redenzione: Gesù auspica un mondo all’insegna della Pace e della comunione tra gli uomini. All’inizio del XX secolo, la forma di una colomba cominciò a identificare il dolce pasquale per eccellenza.

 

Il coniglio

 

La lepre, con l’avvento del Cristianesimo, era un simbolo di Cristo. Questo animale infatti non ha una tana, in Primavera vaga liberamente nel bosco. E Cristo si era definito privo di una dimora, di un luogo che lo ospitasse, che gli garantisse il dovuto riposo. Il coniglio vero e proprio, in particolare il coniglio bianco, è una figura molto presente nei paesi del Nord Europa e in quelli anglosassoni (se vuoi saperne di più, rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato): viene chiamato Easter Bunny e ha il compito di distribuire ai bambini le uova di cioccolato. Probabilmente il coniglio, essendo un animale molto prolifico e che fa la muta in Autunno e in Primavera, divenne un emblema di rinnovamento e di rinascita.

 

La croce

 

All’epoca dell’Impero Romano, una croce di legno veniva utilizzata per dare la morte ai condannati: li si crocifiggeva infliggendo loro un supplizio che provocava una lenta agonia. A rendere ancora più atroce il tormento era la flagellazione che lo predeceva. Gesù venne condannato a morte per crocifissione in quanto la Palestina, all’epoca, faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente. Quando Gesù risorse, i credenti cristiani assursero la Croce a simbolo della loro religione e tramutarono quello strumento di tortura in un potente emblema di fede.

 

Il fuoco

 

Con il fuoco che tradizionalmente arde davanti alle chiese la notte di Pasqua, viene acceso il cero pasquale. E’ un rito molto importante a cui i fedeli assistono in massa: il fuoco simboleggia, la vita, la luce, il calore che sconfiggono la morte, l’oscurità e il gelo, ma anche il rinnovamento dello spirito e la luminosità che ci guida verso lo splendore eterno.

 

L’acqua

 

In questo caso, l’acqua è quella del fonte battesimale: durante la veglia pasquale, infatti, si celebra un gran numero di battesimi. L’acqua ha una valenza purificatrice, e il battesimo è un momento di passaggio dal buio alla luce. Battezzandosi si diventa figli di Dio, si abbraccia la luce e si lasciano le tenebre del peccato alle spalle. Con il battesimo rinasciamo a vita nuova proprio come Gesù è morto e risorto.

 

L’ulivo

 

Quando la colomba dell’ Arca ritornò da Noè con un ramoscello di ulivo nel becco, Noè capì subito che l’ira di Dio nei confronti degli uomini era terminata. Il Diluvio Universale si era concluso, la Terra poteva ricominciare a popolarsi. L’ulivo, dunque, divenne un emblema di pace. La Domenica delle Palme, quella che precede la Pasqua, i rami d’ulivo vengono benedetti in ricordo dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, dove venne salutato da una folla entusiasta che agitava rami di palma e ulivo.

Foto via Pexels e Unsplash

 

Lo spirito del duende

 

“Chi si trova sulla pelle di toro che si stende tra lo Jùcar, il Guadalfeo, il Sil o il Pisuerga (non voglio menzionare grossi corsi d’acqua vicino alle onde color criniera di leone agitate dal Plata), sente dire con relativa frequenza: “Questo ha molto duende”. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: “Hai voce, conosci gli stili, ma non avrai mai successo perchè non hai duende“. In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén o conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo riconosce con istinto efficace non appena compare. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “I giorni in cui canto con duende, non mi supera nessuno”; un giorno sentendo Brailowsky che suonava un frammento di Bach, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò “Olé! Questo sì che ha duende“, e si annoiò con Gluck e con Brahams e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l’uomo con più cultura nel sangue che io abbia mai conosciuto, quando ascoltò Falla in persona che eseguiva il suo Nocturno de Generalife, disse questa splendida frase: “Tutto quel che ha suoni neri ha duende”. E non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse l’uomo popolare di Spagna, e si trovò d’accordo con Goethe, che offre una definizione del duende quando parla di Paganini, e dice: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Ebbene, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi”. Vale a dire, non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura e, al contempo, di creazione in atto. Questo “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega è, in definitiva, lo spirito della Terra, lo stesso duende che infiammò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende che egli inseguiva aveva spiccato un salto dai misteri greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido sgozzato della siguiriya di Silverio. Ebbene, non voglio che nessuno confonda il duende con il demone teologico del dubbio, contro il quale Lutero, con sentimento bacchico, scagliò una boccetta di inchiostro a Norimberga, nè con il diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, nè con la scimmia parlante che porta con sè il Malgesì di Cervantes nella Comedia de los celos y la selva de Ardenia. No. Il duende di cui parlo, oscuro e trepidante, è un discendente di quell’ allegrissimo demone di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno in cui bevve la cicuta, e dell’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come una mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e linee, andava sui canali per sentir cantare i grandi marinai indistinti.”

Federico Garcìa Lorca, da “Gioco e teoria del duende”

 

 

Che cos’è il “duende”, un termine che riecheggia costantemente nella cultura andalusa? Ho lasciato ampio spazio alla definizione di Federico Garcìa Lorca, esauriente e significativa. Perchè spiegare il duende a parole non è facile. Lo si associa di frequente al flamenco: un ballo che è puro pathos, una potente quanto autentica espressione di emozioni; in grado di suscitare stati d’animo molto intensi e una vibrante partecipazione. Il duende cattura lo spettatore con una travolgente miscela di passione, evocatività, carisma, feeling in dosi massicce. Un artista che ha duende tocca le corde della tua anima ed è capace di darti i brividi, di trascinarti nel vortice della sua straordinaria, innata abilità espressiva.

 

 

Il duende, per Garcìa Lorca, è lo spirito della terra: un potere misterioso e profondo che parte dalle viscere. E’ amore e morte, tragedia e commedia, scorre nel sangue ed ha radici antichissime. Il suo legame con il folklore andaluso è inscindibile. Basti pensare che se ne rinvengono le prime tracce nel “Cante Jondo”, lo straziante canto di matrice gitana accompagnato dalla chitarra. Le influenze arabe e persiane sono molteplici, affiancate a vocalizzi ancestrali e della tradizione liturgica bizantina. D’altronde, nel corso dei secoli, in Andalusia si sono avvicendate e fuse innumerevoli culture. “Tener duende” non ha nulla a che fare con i virtuosismi, con un’ esecuzione perfetta. E’ una passione che arde dentro, una dote quasi sacrale.

 

 

Ma perchè oggi pubblico queste riflessioni sul duende? E’ molto semplice: sono l’introduzione ad un articolo che vedrà protagonista l’Andalusia, in particolare un tema specifico inerente questa affascinante regione della Spagna del Sud. Stay tuned su VALIUM per saperne di più…

 

 

Foto della “bailaora” sotto il testo di Federico Garcia Lorca: Imbi24, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Il miele del Vecchio Re

 

” Si inoltrarono all’ interno del bosco. L’acqua che scorreva sulle pietre sembrava cantare. Alice capì dove l’aveva condotta Giuseppe. Si fermarono accanto al massiccio tronco, i rami che si aprivano verso il cielo, le foglie d’argento che brillavano. Un lieve ronzio si univa al canto del ruscello. “E’ meraviglioso.” L’ulivo era immenso. Torreggiava maestoso circondato dalla sua corte di piante e fiori. “Custodisce le api d’oro. Al suo interno ci sono gli sciami originari delle api dell’ isola.” Restarono un istante a contemplare il Vecchio Re, così lo chiamava Giuseppe. Le enormi radici affondavano nel terreno. Le creste erano ricoperte di muschi vellutati e costeggiavano le acque limpide. Dietro di loro le api ronzavano felici. Giuseppe le porse una mano e insieme si avvicinarono alle arnie, allineate ai margini del prato. Mentre lui indossava la tuta, Alice, che invece l’aveva già, sollevò la testa e allora la vide. Volava nella sua direzione. Il cuore prese a batterle forte. La stava cercando, era lì per lei. Alice lo comprese nel momento stesso in cui sollevò la mano e l’ape si posò sul suo palmo. Si guardarono un istante poi l’insetto si alzò in volo. “Che succede?” Giuseppe era al suo fianco, un’ombra nello sguardo. “Sta per accedere qualcosa.” Lo disse così, semplicemente. “Qualcosa di importante.” “Sembri preoccupata.” “Non è nulla. Allora, da dove vuoi iniziare?” Le indicò l’apiario. “Le più urgenti sono quelle. Non so se te l’ho detto, ma il miele dell’albero non si vende.” “No? Come mai?” “E’ troppo prezioso, per questo lo regaliamo.” Lei sorrise, non aveva il minimo senso. Era il più prezioso, e dunque veniva donato. Illogico e insensato. Eppure, c’era un profondo significato in quello che Giuseppe le aveva detto. “Ci sono cose che appartengono a tutti. Ci sono cose talmente preziose che nessuna moneta potrebbe mai acquistare.”

Cristina Caboni, da “La via del miele”

 

 

 

L’arte come equivoco: conversazione con Carlo Cecchi

 

Incontro Carlo Cecchi a Fabriano, nella Sala Guelfo, lo spazio adibito alle mostre all’ interno del chiostro della Cattedrale di San Venanzio.  E’ qui che si è appena conclusa “Il passo del cielo”, un’ esposizione che concentra alcuni temi ricorrenti nell’opera dell’ artista jesino: nei 20 disegni realizzati a carboncino predominano un fiabesco bestiario, corpi celesti dispersi nell’ universo, scritte di matrice concettuale. Solo due colori: il bianco e il nero, alternati sullo sfondo giallognolo della carta da spolvero. A fare da leitmotiv è una visione del cosmo che il segno grafico di Cecchi rende fortemente onirica, evocativa. La sua surreale fauna fluttua in una galassia costellata di aloni neri, di volta in volta fitti o più radi. Le scritte sorprendono, confluiscono in uno spazio mentale dove si addensano gli interrogativi. “Questo lavoro”, scrive la storica d’arte Francesca Pietracci nel testo critico della mostra, “sembra condensare lo scibile umano, la sua evoluzione, la sua percezione, l’ incanto di una mano di talento guidata dagli occhi stupiti di un bambino. Quasi come di fronte ad un nuovo anno zero del cosmo…tutto rimane ancora da scoprire.” Le affascinanti suggestioni che questi motivi ispirano rappresentano solo uno degli spunti da cui è scaturita l’intervista che vi propongo oggi. L’ universo di Carlo Cecchi merita senz’ altro un approfondimento, e il Maestro risponde alle mie domande di buon grado: emozioni, frammenti di vita, memoria, paesaggi fisici e morali,  reminescenze di un’ umanità variopinta si fondono in un racconto dove tutto riconduce all’arte nella sua più profonda accezione.

Se dovessi presentarti ai lettori di VALIUM in poche righe, come esordiresti?

E’ sempre più difficile, credo, definirsi, perché questo è un mondo in cui tutti sembra che facciano e sappiano di tutto: sono tutti artisti, tutti allenatori di calcio, tutti d’avanguardia…Sono tutti molto belli, anche. Vanno tutti in palestra! Carlo Cecchi è un artista, un pittore soprattutto. Quando parlo di pittura parlo anche del disegno, che amo moltissimo. Forse amo più il disegno della pittura. Ma come diceva il mio amico Dino De Dominicis, “La pittura è la cosa più moderna che c’è proprio perché è la più antica.” Quindi sono un pittore, perché credo che il silenzio che contrassegna l’immagine fissa dia ai cosiddetti fruitori – un termine che mi fa pensare ai fruttivendoli, tra l’altro, per cui oserei dire “fruttitori” – possibilità il meno oggettivo possibili. Oggi si tende ad essere sempre più didascalici, addirittura a spiegare quello che si vede a occhio nudo. La pittura, e più che mai il disegno, invece, ha innanzitutto la possibilità di essere permeabile: attraverso il disegno si passa da un’altra parte, si va oltre. Non è mai descrittivo, perché in quel caso si rientrerebbe nell’ambito della didascalia, cioè dello spiegare. Più che “spiegare” mi ha sempre affascinato “piegare”. L’arte non va “spiegata”, va “piegata”. Come un fazzoletto…”Piegare” significa, in realtà, “nascondere”: la pittura deve nascondere, non evidenziare. La pittura è un luogo nascosto…non chiedermi di spiegare di più perché diventerei didascalico a mia volta. Durante una mia mostra scrissi una parola, “rivelazione”. La rivelazione, che per il vocabolario è uno “svelare”, a mio parere  è “velare ancora”: “ri-velare”, come “ri-vedere” cioè vedere due volte, significa moltiplicare i veli. Secondo la cultura araba, puoi vedere gli angeli solo se riesci a svelare 77 veli…Dunque a me piace molto rivelare, cioè nascondere.

 

“Il passo del cielo”, 2017

 

Quando e come è iniziata la tua liason con l’arte?

A scuola io sono sempre stato bocciato in disegno, forse perché non mi interessava. Che in realtà il disegno mi piacesse l’ho capito solo molto tempo dopo. Mia madre era una grandissima disegnatrice: quando io e i miei fratelli avevamo l’influenza, si metteva accanto al nostro letto e ci disegnava le storie degli inquilini del palazzo. C’era il bidello, c’era la nutrice…L’ infanzia l’ho vissuta in un quartiere nel cuore di Jesi, ero sempre in mezzo alla strada. La mia cultura si è forgiata tra gli artigiani, i negozianti, le prostitute…Ce n’erano ancora parecchie, in giro, nel dopoguerra. La sezione del Partito Comunista era attaccata alla chiesa, per cui eravamo trasversali: giocavamo a ping pong in parrocchia e dopo, magari, andavamo a vedere le partite a biliardo nella sezione. Indubbiamente, non mi sono mai interessato all’arte. Poi, dopo essere stato bocciato per tre anni di fila all’istituto tecnico industriale, ho seguito il consiglio di un mio amico batterista che mi ha suggerito di iscrivermi all’Istituto d’Arte di Ancona. Lì ho incontrato gente molto in gamba, in particolare due professori: il mio insegnante di Storia dell’Arte veniva da Roma ed era molto amico di Burri, di Guttuso, che andavano a trovarlo in albergo. Una volta me li ha anche presentati. E poi c’era il professore di Disegno dal Vero, che mi ha insegnato davvero tutto…Dopo il diploma mi sono iscritto all’ Accademia di Belle Arti, dove si faceva avanguardia. Erano gli anni dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale. Eravamo tutti un po’ concettuali…Alla fine dell’Accademia ho presentato la mia prima mostra a Bologna: concettuale, naturalmente. Sul muro, con una matita blu avevo tracciato una scritta che diceva “cielo mare cielo mare all’orizzonte”. Sempre a Bologna, ho gettato un drappo sul pavimento della Galleria e ho intitolato quella mostra “Raso al suolo”, con un significato doppio. Nel ’76, quando ancora non dipingeva nessuno, ho inaugurato la mia prima mostra di pittura. Ecco, ora vorrei raccontarti qualcosa di molto importante: vicino a Palazzo Ripanti, dove c’è il mio studio, quando ero ragazzino a Jesi c’era il cinema omonimo. I macchinisti tenevano la porta aperta, perché i proiettori dell’epoca riscaldavano moltissimo, e gettavano fuori i carboni che generavano l’arco voltaico. Io con questi carboni disegnavo sul pavè…Credo che l’amore per il disegno, in me, sia nato proprio allora. Tra mia madre e i carboni elettrici. Quello è stato un po’ il mio inizio.

 

“Senza Titolo”, 2013. Tempera su carta

 

Cosa rappresenta l’arte, per te?

Una bella domanda! Cos’è l’arte? Per me intanto è una possibilità esistenziale, mi ha aiutato e mi sta aiutando molto. E’ un anticorpo. E’ un modo per sporcarmi le mani e anche la mente. Argan ha detto forse la cosa più sensata che abbia mai sentito, per definire l’arte: l’arte è un fenomeno che diventa immagine. Poi, però, l’immagine diventa fenomeno a sua volta. Trovo abbastanza centrata la sua definizione. Su un piano personale, al contrario di quanto si pensi, credo che l’arte sia un linguaggio totalmente inespressivo. L’arte non ha il compito di comunicare, l’arte non comunica. L’arte sente, è una specie di alito…Come dicevo prima, l’arte non è didascalica. Non è mai stata didascalica, nemmeno in passato: c’è sempre qualcos’altro. Per citare non ricordo più chi, mi piace dire che “tutto avviene per altri motivi”. Quindi, l’arte avviene per altri motivi. Se io sono un pittore iconografico e dipingo un tavolino, come disse anche Magritte a suo tempo, “questo non è un tavolino”. L’arte è “un’altra cosa”…

 

“Il silenzio dei sassi”, 2012. Olio e tempera su legno

 

Molti critici hanno inserito le tue opere in un filone di stampo concettuale. Questa definizione ti trova concorde?

Una matrice concettuale c’è sicuramente: tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 eravamo tutti un po’ concettuali. I nostri amori erano Kossuth, Pistoletto, l’Arte Povera…I punti di riferimento della nostra generazione. Direi che oggi, nel mio lavoro, quella matrice è molto lontana. Mi piace dire che la mia non è un’arte concettuale, ma ingloba un segno concettuale al suo interno. A differenza dei concettuali, però, che erano tutti così “pulitini”, a me piace sporcarmi. L’arte è sporcarsi. Quindi, l’arte concettuale nel mio lavoro è presente nella misura in cui ha coinciso con la mia origine. Mi diverte raccontarti di “raso al suolo”, che era un gioco di parole. Mi piace la pittura, ma anche sconfessare l’idea che esprimo: se disegno un cavalluccio marino, ci scrivo accanto qualcosa che lo sconfessa. Oppure, lo affianco ad un’immagine che ha lo stesso scopo.

Ne “Il passo del cielo”, la mostra che hai appena presentato a Fabriano, prevale un bestiario tratteggiato con carboncino su carta da spolvero. Perché la scelta di questa visionaria fauna, e come nascono le scritte che la affiancano?

Questa fauna viene fuori da certi sogni (che non sono i sogni che faccio di notte) e da certi desideri. Il primo animale di cui mi sono occupato è stato il pinguino, perché rappresenta un po’ quello che ho appena detto. E’ elegante, sembra che porti il frac, però in realtà è goffo: basta guardare come cammina. E’ un uccello? E’ un pesce? Vive in acqua? E’ ambiguo. E siccome l’arte è ambiguità…Non è una dichiarazione di intenti, l’arte è proprio ambiguità, un errore. Una parte di queste opere l’ho presentata alla Biblioteca Angelica di Roma l’anno scorso. In quell’ occasione presentai un grande disegno, di cinque metri per due, associato ad altri, più piccoli, che raffiguravano animali. La mostra era intitolata “Cosmo-Caos-Dissonanze”,  con me c’erano anche un musicista e un attore che recitava Galileo. Le mie sono immagini di animali circondati dalle stelle, quindi c’è una sorta di rimando astrologico. Ma l’astrologia non mi interessa per niente. Quelle stelle hanno un alone nero intorno, evidenziano un’idea un po’ curiosa dell’universo. Io non sono avulso dalla realtà, parlo del mio essere nel mondo. Per cui, quando penso al cielo, penso a tutto quello che può essere legato al cielo dal punto di vista critico, come l’inquinamento. Inoltre “cielo” significa etimologicamente antro, caverna, e dichiarandomi un artista tribale io utilizzo il disegno…Il disegno è tribale.

 

“Il passo del cielo”, 2017 (particolare)

 

Questa mostra ha un gran senso tribale, mi rappresenta. Per quanto riguarda la mia relazione con gli animali, diciamo che non mi affascinano moltissimo. Mi piace la loro forma, ma difficilmente li ritraggo dal vero: i miei disegni passano sempre attraverso un filtro che potrebbe essere una fotografia, gli animaletti che trovi nei negozi per bambini…Amo il gatto, i felini. Mi piace il gatto perché è silenzioso, ha una sua autonomia, questa cifra quasi di assenza…E poi c’è l’ippopotamo. La prima volta che l’ho ritratto è stato quando, a Jesi, mi hanno chiesto di creare una scultura per una rotatoria. L’ ho inserito immaginando che in quella zona li, che è una zona industriale, ci fosse il mare. C’è stato un periodo in cui ho dipinto molti coniglietti, perché mia nonna me li portava a vedere dai suoi amici agricoltori. Mi diceva che hanno paura dell’acqua, quindi a Milano, negli anni ’80, feci una mostra dove c’erano dei coniglietti minacciati da grosse gocce d’ acqua. Nelle mie opere non c’è mai il presente, c’è o il desiderio del futuro o la memoria. Parlando di animali, ti cito la giraffa…Nel mio progetto per una scultura davanti all’ interporto, c’è questa giraffa avvolta negli scatoloni. L’ interporto è collegato ai “colli”: mi piaceva l’idea del “collo” e il gioco di parole “collo-colli”, un lungo collo di giraffa che svetta da una montagna di scatoloni di acciaio. La giraffa guarda lontano, è come un faro, vede tutto. Ma i miei animali non sono simboli, semmai segni. Preferisco l’aspetto semantico a quello simbolico. Le scritte? Sono dissociative, confondono, tendono a scombinare. Amo l’idea della scomparsa. In fondo è come dichiarare una cosa e smentirla subito dopo o in quel preciso istante. Se usi una scritta che non accompagna, bensì contraddice, crei una situazione in cui, in un attimo, dichiari e smentisci. L’arte è anche equivoco, soprattutto equivoco: è molto più interessante l’equivoco dell’oggettività. E’ un po’ come le bugie che raccontavano quando, da piccolo, mi appoggiavo sulla sponda del biliardo e guardavo i grandi giocare a boccette. In quei momenti inventavano delle storie esagerate, incredibili, prodezze sessuali mai avvenute…La menzogna è più interessante della realtà. La bellezza è questa, l’arte è questa.

 

“Lucia”, 2013. Olio e tempera su carta

 

Quali sono i leitmotiv del tuo immaginario ispirativo?               

Il mio leitmotiv ispirativo è la vita, la vita di tutti i giorni dove si mescolano la cosiddetta cultura alta con la cultura popolare, alla quale sono ancora molto legato. Bisogna vivere in mezzo alla gente, finchè avrà qualcosa da raccontare. Giorni fa ho presentato la mostra di un mio amico alla Biblioteca Angelica e mi è tornato in mente un episodio: mentre eravamo a cena insieme, lo scorso Agosto, è scoppiato un forte temporale e in quell’ istante è affiorato il progetto della mostra. Ecco, l’avversità: anche questo è un momento fondante del mio lavoro. L’arte è avversità. Perché avversità significa discontinuità: tutte le avanguardie hanno lavorato sul tema dell’avversità, cioè la discontinuità rispetto a quel che c’era prima. La natura è tutta fatta di avversità. Se entri in un bosco, ad esempio, la tensione che provi è la stessa che ti dovrebbe dare l’arte.

 

“La testa francese”, 2009. Olio su tela

 

In un’ epoca in cui predominano i crossover artistici, c’è ancora spazio per la pittura tout court?

Certo, assolutamente, c’è un grande spazio. Io sono molto attratto da tutto quello che è lontano dai miei linguaggi. Tuttavia, trovo che la maggior parte di queste operazioni abbiano carattere commerciale, siano perlopiù marketing. Amo la sobrietà, credo nella sobrietà. Il disegno, sei ci pensi, è l’arte più elementare però ha più forza di tutte. Ti dà la temperatura dell’artista: quando disegni è come quando fai l’elettrocardiogramma…

Vivi tra Jesi e Roma. A livello di suggestioni, trovi più stimolante la provincia o la metropoli?

Roma è Roma, è sempre bella. Ma può essere addirittura meno stimolante della provincia. Perché in provincia ci sono ancora delle situazioni, delle storie vere. E’ tutto piuttosto concentrato e anche l’assenza di suggestioni, comunque, può essere uno stimolo. Roma è affascinante quando la vivi con distrazione, non da turista. Bellezza a parte mi colpisce per l’umanità delle persone, un’umanità che in provincia trovo sempre meno. Nella Roma dei quartieri, come a Prati o al Rione Monti, invece c’è ancora. Oggi il modello è Milano, ma il modello di Milano è Londra, è New York, e con l’Italia non c’entra nulla. Se tu vai a Roma, in via del Governo Vecchio, accanto alla boutique di lusso trovi l’officina della moto Guzzi.  E questa commistione, secondo me, è indice di grande cultura.

 

Roma, via di Panico

 

Anche nelle nostre città di provincia, un tempo, trovavi di tutto e tutto affiancato, ma è un aspetto ormai completamente inesistente. Jesi, ad esempio, a mio parere non ha più una sua identità specifica. Dagli anni ’80 si sono ispirati un po’ tutti a Milano…Ma Milano devi viverla, non puoi “replicarla” in provincia. Le radici sono importantissime. Diciamo che i luoghi più ricchi di umanità sono quelli in cui l’arcaico si mescola al contemporaneo: è qualcosa che mi affascina profondamente. Anni fa, in provincia, era molto forte il rapporto tra città e natura, tra un sapere cittadino e un sapere del bosco. Oggi non abbiamo più un rapporto col paesaggio, ma con la memoria del paesaggio. Il paesaggio lo vediamo al cinema, in TV. Andiamo nel bosco, ma non abbiamo l’idea del bosco. “Bosco” significa anche fantasmi, gnomi, tutto il retaggio di una certa mitologia nordica. Il bosco era un posto dove si celavano grandi pericoli e grandi gioie, ai miei tempi ci si andava a fare l’amore.

 

Jesi, Palazzo Ripanti

 

Per Carlo Cecchi, in che direzione sta andando l’arte e la sua arte in particolare?

La mia, non lo so. In che direzione va l’arte? Posso dirti che nell’arte attualmente predominano due binari, ma non so dove portano: da una parte c’è la cosiddetta arte sociale, focalizzata in maniera molto didascalica su ciò che accade. Per esempio, sul tema dei migranti. Altre operazioni hanno un carattere estetico tout court; in questo mondo, d’altronde, tutto diventa estetico. In TV, anche il delitto più efferato viene seguito in un nanosecondo dalla partita di calcio, e molto spesso la gente si emoziona di più per la partita di calcio. Il gioco vale più della tragedia. Da un lato, quindi, c’è l’arte sociale, dall’ altra la decorazione. Molti giovani artisti fanno decorazione: cose che piacciono, che devono piacere, accattivanti. L’arte, però, secondo me non deve “piacere”, bensì “dispiacere”. Che non significa addolorarti, ma creare dis-piacere. Qualcosa di diverso, cioè, dal piacere.

 

“A tre quarti di latte”, 2015. Olio su tela

 

 

Foto di Palazzo Ripanti by Parsifall [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons