Il noce di Benevento: l’albero delle streghe tra leggenda, realtà e superstizione

 

Attorno al noce, l’albero che i Romani consacrarono a Giove (il nome botanico della pianta, Juglans regia, deriva da “Jovis glans”, in latino “la ghianda di Giove”), sono sorte innumerevoli leggende. Cominciamo col dire che, anticamente, alle noci si attribuivano delle portentose virtù curative: venivano considerate afrodisiache per la loro somiglianza con le gonadi dell’uomo, e benefiche per le emicranie in quanto la parte interna del frutto ricorda la forma di un cervello. L’albero della noce, tuttavia, nel corso dei secoli non si guadagnò lo stesso tipo di reputazione. Le sue radici contengono juglandina, una sostanza potentemente tossica che provoca il deperimento di tutte le specie vegetali sorte nelle vicinanze: ecco perchè il noce è una pianta così solitaria, raramente immersa nel fitto verde. Il Juglans regia, inoltre, veniva definito “maledetto” poichè con il suo legno era stata costruita la croce su cui venne crocifisso Gesù Cristo. La nomea negativa del noce era alla base di molte credenze, in particolare nell’ ambito della cultura agreste. Si pensava che addormentarsi sotto un noce avrebbe portato a soffrire delle forti emicranie, o che se le radici del noce si fossero sviluppate sotto una stalla avrebbero fatto soccombere il bestiame. Ma questa reputazione “maledetta” deriva soprattutto dal noce di Benevento e dalla sua associazione con le streghe, dal momento che si diceva che proprio ai piedi di quell’albero celebrassero il loro sabba.

 

Illustrazione tratta da “Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894” di Enrico Isernia, Benevento, Stabilimento Tipografico A. D’Alessandro e Figlio, 1895.

Le leggende riguardo al noce di Benevento presero vita in epoche remotissime, ma si consolidarono nel 1200. Prima di recarsi al sabba, le streghe si sfregavano il petto con un unguento e pronunciavano una formula magica; dopodichè, si libravano in volo a cavallo di una scopa. Grazie all’ unguento diventavano invisibili, puro spirito che fluttuava nel vento, tant’è che adoravano volare nella tempesta. L’ appuntamento era fissato per tutte sotto il noce di Benevento, dove si riuniva una moltitudine di streghe provenienti dalle località più disparate. Lì, durante il sabba, praticavano riti magici e blasfemi, danzavano, si lanciavano in orge sfrenate con i demoni e gli spiriti infernali…il tutto alla presenza del Demonio che sfoggiava le sembianze di un caprone. A Benevento le streghe venivano chiamate “janare”: prima della Seconda Guerra Mondiale, quando fu bombardato, esisteva un ponte dal quale si diceva che spiccassero il volo.

 

“Il grande caprone”, Francisco Goya (1795)

Una volta terminato il sabba, le streghe si dedicavano ai malefici e ad azioni terribili nei confronti degli abitanti del luogo. Si introducevano nelle case attraverso la fessura del portone, il che non era difficile data la loro consistenza incorporea, e infastidivano le famiglie addormentate: le sferzavano con una raffica di vento, oppure le opprimevano provocando un senso di soffocamento scaturito da una forte pressione sul petto. Ma non si limitavano certo a questo: le streghe erano in grado di far abortire le partorienti con un semplice incantesimo, storpiavano i neonati infliggendo loro un insopportabile dolore e a volte li rapivano per lanciarseli l’un l’altra sopra le fiamme del fuoco. Si diceva anche che, quando si intrufolavano nelle stalle, riempivano di trecce la criniera dei cavalli e che li riconsegnassero provatissimi dopo averli cavalcati per l’intera notte. Secondo antiche superstizioni, per tenere le streghe a distanza bisognava mettere una scopa e una ciotola di sale dietro la porta principale della propria casa: la strega non sarebbe potuta entrare senza aver contato, prima, tutte le setole della scopa e tutti i granelli di sale, ma a quel punto la luce del giorno l’avrebbe obbligata a fuggire.

 

“Départ pour le Sabbat”, cartolina di Albert Joseph Pénot (1910)

Ma dove si trovava, esattamente, il noce di Benevento? A dire di alcuni, nei paraggi del fiume Sabato (Sabatus in latino), da lì l’associazione con il sabba. Questa ubicazione fu detta Ripa delle Janare, però esistono molte altre ipotesi sulla collocazione dell’albero. Considero più importante sapere da dove ha preso vita la leggenda del noce delle streghe: nel VII secolo, Benevento era la città principale di un ducato longobardo, e il popolo germanico usava praticare dei raccapriccianti rituali pagani. All’epoca, sotto la reggenza del duca Romualdo I, i longobardi erano soliti onorare Odino con un rito piuttosto inquietante: il luogo in cui si svolgeva, guarda caso, si trovava proprio accanto al fiume Sabato. Dopo aver appeso la pelle di un caprone al ramo di un noce, i longobardi galoppavano sfrenatamente intorno all’albero tentando di strappare lembi della pelle con le loro lance. Poi, si cibavano dei brandelli come prevedeva il rituale. I cristiani di Benevento, sconvolti da quella pratica ai loro occhi barbara, cominciarono ad accostarla al sabba. Le urla dei guerrieri, la pelle di caprone, il trambusto provocato dal rito vennero associati, dai beneventani, a una riunione orgiastica organizzata dal Demonio e dalle streghe.

 

“Il noce di Benevento”, Giuseppe Pietro Bagetti (1816)

Barbato, un sacerdote di Benevento, espresse più volte la sua avversione per quella pratica pagana. Così, quando nel 663 la città fu assediata dai Bizantini, promise al duca Romualdo che gli invasori sarebbero arretrati grazie all’ intervento divino ma ad una condizione: il suo popolo avrebbe dovuto abbandonare il Paganesimo. Il duca acconsentì e, miracolosamente, i Bizantini batterono in ritirata. Secondo la leggenda, il duca Romualdo nominò Barbato vescovo di Benevento e quest’ ultimo corse subito a sradicare il famigerato noce. Nella località in cui sorgeva l’albero fece poi costruire una chiesa che chiamò Santa Maria in Voto. Nel Medioevo, tuttavia, a Benevento si ricominciò a parlare dei convegni delle janare. Due secoli dopo, queste voci vennero avvalorate da una donna accusata di stregoneria: secondo la sua testimonianza, le streghe erano solite riunirsi attorno a un noce. Lo scalpore suscitato dalla notizia fu immenso. Il Demonio aveva fatto sicuramente ricrescere l’albero che Barbato aveva abbattuto! Nel 1500, il ritrovamento di un mucchio di ossa sotto un noce riaccese i riflettori sulla vicenda. Tra le ipotesi sull’ origine della leggenda del noce di Benevento, quella relativa a Barbato (poi diventato Santo e Santo Patrono di Benevento) e ai riti dei Longobardi rimane, senza dubbio, la più accreditata. A tutt’oggi il mito del noce di Benevento continua ad affascinare, e le adunanze delle streghe hanno contribuito a creare un’aura magica su tutta la città campana e i suoi dintorni.

 

“El Alquelarre”, Leonardo Alenza y Nieto (1830-1845)

“La sorcière allant au Sabbat”, Luis Ricardo Falero (1880)

“Il Sabbath delle streghe”, Francisco Goya (1819-1823)

“La leçon avant le sabbat”, Louis-Maurice Boutet de Monvel (1880)

“Le Sabbat des sorcières”, Hans Baldung Grien (1508-1510)

 

Immagini

Foto di copertina di Моходу Хеу, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, da Wikimedia Commons

Dipinti, cartoline e incisioni Public Domain via Wikimedia Commons

 

Notte di San Giovanni, la “notte delle streghe”: tre antichi rituali sotto il magico influsso della rugiada

 

Chi nasce la notte di San Giovanni non vede streghe e non sogna fantasmi.

(Proverbio Popolare)

 

Se il Solstizio d’Estate è governato dal Sole, sulla notte di San Giovanni la Luna regna assoluta. Anche se la tradizionale accensione dei falò appartiene a entrambe le ricorrenze, la notte che precede il 24 Giugno (solennità della nascita di San Giovanni Battista) viene considerata una notte magica ed è associata a un tripudio di credenze e di rituali. Per gli antichi popoli nordeuropei, non a caso, rientrava nella triade delle notti degli Spiriti insieme a Calendimaggio e Samhain (più conosciuto come Halloween). Ma la notte di San Giovanni è stata anche ribattezzata la “notte delle streghe”, perchè, secondo il folklore popolare, tra il 23 e il 24 Giugno le fattucchiere si radunavano attorno al noce di Benevento per celebrare il Sabba. Sempre alle streghe rimandano le erbe tradizionalmente raccolte questa notte, dalle virtù miracolose, e le capacità divinatorie, che nelle ore antecedenti all’ alba di San Giovanni Battista sarebbero particolarmente sviluppate. Chi meglio delle streghe, infatti, era in grado di padroneggiare le arti dell’erboristeria e della divinazione? Nella magica notte di San Giovanni, un rituale prevedeva che posizionando dei mazzi di erbe sotto il cuscino si propiziassero sogni a carattere divinatorio. La divinazione è un tema ricorrente, legata in particolare agli indizi che poteva fornire alle giovani donne sull’identità dell’uomo che avrebbero sposato. Esistono innumerevoli pratiche al riguardo, diffuse in tutta Europa ma differenti da regione a regione; un ruolo chiave spetta alla rugiada di San Giovanni, associata alla Luna (e alla dea Artemide) come l’acqua e quindi impregnata di magici poteri. Le erbe raccolte il 23 Giugno, generalmente la ginestra insieme all’iperico e a piante aromatiche come il timo, il rosmarino, la salvia, il basilico, la rosa, l’alloro, la lavanda, il finocchio selvatico, la maggiorana, il caprifoglio e il fiore di tiglio, venivano esposte alla rugiada notturna e tenute a bagno fino all’alba prima di essere utilizzate per lavarsi il mattino dopo. La cosiddetta “acqua di San Giovanni” era considerata un toccasana per la pelle e una protezione da tutti i “malanni”, come recita un noto proverbio.

 

 

Nelle Marche, più precisamente a Fabriano, la “città della carta” circondata dai monti dell’ Appennino umbro-marchigiano, le giovani donne usavano versare la chiara dell’ uovo in un bicchiere e poi posizionavano quest’ ultimo fuori casa, sotto il magico influsso della rugiada: il mattino dopo, la forma che aveva assunto la chiara avrebbe offerto indizi sul futuro sposo di colei che aveva effettuato il rituale.

 

 

Un altro rito fortemente legato alla notte di San Giovanni è la preparazione del nocino, un liquore a base di noci verdi impreziosito da erbe e da deliziose spezie che gli donano un sapore inconfondibile. Le origini di questo liquore sono remotissime: pare che fosse molto apprezzato sia dagli antichi romani che da popolazioni celtiche come quella dei Picti. La tradizione vuole che, durante la notte di San Giovanni, una donna salga su un noce scalza e che raccolga le noci rigorosamente a mani nude. Il numero di noci raccolte dev’essere dispari; dopodichè, utilizzando il loro mallo, si procede alla preparazione del liquore. La bevanda attirerà la ricchezza e il benessere ad ampio spettro per tutti i mesi a seguire. Anche in questo caso, la rugiada della notte di San Giovanni riveste un ruolo fondamentale: le noci, infatti, vengono esposte alla guazza notturna prima della macerazione in alcool. Il nocino è ricco di proprietà salutari. Anticamente, le sue virtù digestive, antibatteriche, antinfiammatorie e antifungine lo rendevano un vero e proprio antidoto contro un gran numero di patologie. Le origini del liquore sono legate ai rituali che le streghe compivano attorno al noce di Benevento già nel VI secolo d.C. Lì danzavano, lanciavano incantesimi e nella notte tra il 23 e il 24 Giugno, una delle più corte dell’ anno, raccoglievano noci acerbe per propiziare un’esistenza perpetua all’ albero nei giorni in cui il buio era sconfitto dalla luce. Ma il nocino non si beve a San Giovanni: il 24 Giugno, il mallo viene posto in infusione nell’alcool  dove rimane fino alla notte di Samhain, o Halloween che dir si voglia. Sicuramente, una data non casuale.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Il maggiociondolo, uno sfarzoso tripudio di fiori gialli tra leggende e tradizioni

 

Fiorisce a Maggio, come suggerisce il suo nome. E se vi è capitato di vederlo, potete star certi non lo dimenticherete: i suoi grappoli di fiori gialli pendono dai rami come una rigogliosa cascata. La somiglianza con quelli del glicine è evidente. A differenziarli è il colore, un giallo brillante che cattura lo sguardo e lo riempie di meraviglia. La pianta di cui sto parlando è il maggiociondolo (nome botanico Laburnum anagyroides), un piccolo albero che appartiene alla famiglia delle Fabacee. La sua altezza è compresa tra i 4 e i 6 metri e sfoggia grappoli del colore del sole che raggiungono i 25 cm di lunghezza. I fiori, profumatissimi, ciondolano dai rami ad ogni alito di vento: da qui il nome “maggiociondolo”.

 

 

Il legno del tronco è molto scuro e super resistente. I frutti dell’ albero si presentano come baccelli contenenti innumerevoli semi neri, ma nascondono un’insidia: sono ricchi di citisina (un alcaloide), il che significa che sono estremamente velenosi per l’uomo e per alcune specie animali. La brutta notizia è che del maggiociondolo non risultano velenosi solo i semi. Quest’ albero, infatti, è velenoso nella sua interezza. “Guardare e non toccare” potrebbe essere il motto che lo rappresenta. Gli animali a maggior rischio avvelenamento sono i cavalli, le capre, le mucche: se queste ultime brucano i rami della pianta, c’è il pericolo che la tossicità si trasmetta finanche nel loro latte. I semi sono particolarmente letali, soprattutto se non ancora maturi. Ci si può intossicare anche ingerendo un solo seme, e consumandone molti si mette a rischio la propria vita. Misteriosamente, tuttavia, animali selvatici quali le lepri, i cervi e i conigli si nutrono dei semi del maggiociondolo senza incorrere in spiacevoli conseguenze: è uno dei motivi per cui questa pianta viene considerata magica sin da tempi remotissimi. Ed è proprio in virtù di ciò che vi parlo del maggiociondolo, un albero altamente simbolico, associato a molteplici leggende e a secolari tradizioni, nello specifico quelle della notte di San Giovanni.

 

 

Il Laburnum cresce nelle zone temperate ed è diffuso principalmente nell’ Europa del Sud: l’area sudorientale della Francia, catene montuose come le Alpi e gli Appennini, i rilievi della Penisola Balcanica. L’habitat in cui si sviluppa è il bosco. Il legno scurissimo e solido del maggiociondolo, che negli esemplari anziani accentua queste sue caratteristiche, è valso alla pianta l’appellativo di “falso ebano”, poichè può sostituirlo perfettamente.  Antiche leggende ricollegano l’albero alla figura delle streghe: pare che, nel Medioevo, si servissero dei suoi semi per la preparazione di elisir e pozioni magiche, mentre durante i Sabba erano solite cavalcare bastoni ricavati dal suo legno. Ma il maggiociondolo non è un albero che rimanda unicamente a connotazioni “malefiche”. I riti della notte di San Giovanni, ad esempio, prevedevano che venissero accesi dei falò con i rami di sette alberi, tra cui, appunto, il maggiociondolo. I falò ardevano con valenza purificatoria, in omaggio al sole e per alimentare l’energia interiore. Tale usanza persiste in molte aree geografiche.

 

 

Tornando alle streghe, vale la pena di approfondire alcuni aspetti del loro utilizzo del maggiociondolo. Le pozioni che preparavano con i componenti dell’albero sortivano effetti psicotropi: “liberavano” dal peso del corpo, davano l’illusione di poter levitare nell’aria. Lo scopo era quello di alterare lo stato di coscienza per esplorare nuove dimensioni. Questa pratica, chiamato “volo della strega”, veniva effettuata nel corso dei raduni. Il bastone di maggiociondolo utilizzato durante il sabba, invece, era un palese simbolo fallico, ma anche una sorta di strumento di riconoscimento che decretava lo status di strega. Simboleggiava inoltre il volo, il trionfo nei confronti della materia e delle costrizioni corporali. Pare che proprio da tale tipo di verga nacque la leggenda della “scopa volante”: per sfuggire agli inquisitori, le streghe usavano cammuffare i loro bastoni tra mazzi di saggina. Davano così l’impressione di essere delle normalissime scope.

 

 

In tempi remoti, il maggiociondolo era chiamato anche “pioggia d’oro” per la teatralità dei suoi grappoli fioriti. La chioma dell’ albero, un tripudio sfarzoso di giallo, è stata celebrata da poeti e letterati. Il poeta inglese Francis Thompson, in un suo componimento, definisce il maggiociondolo “miele di fiamme selvagge”. J.R.R. Tolkien, l’autore de “Il Signore degli Anelli”, inserisce la pianta nell’ opera mitologica “Il Silmarillon” e lo identifica con Laurelin, l’Albero d’Oro della terra primordiale di Valinor. Anche Sylvia Plath cita spesso il maggiociondolo nei suoi versi; la poesia “The arrival of the bee box” recita: “C’è il laburno, con i suoi biondi colonnati,/E le gonnelle del ciliegio”. Persino Giovanni Pascoli lo nomina ne “La capinera”.

 

 

Per concludere, una leggenda che fa riferimento al territorio abruzzese. Si narra che la Frigia, una remota regione situata in Asia Minore, fosse popolata da guerriere gigantesse chiamate “Majellane”. Maja, una di loro, ebbe un figlio da Giove che partorì in Arcadia, sulle alture del Monte Cillene. Hermes – così fu battezzato il bambino – divenne un giovane di bellissimo aspetto e imponente come sua madre. Un giorno, dopo che rimase ferito durante una terribile battaglia, Maja lo condusse in un luogo dove proliferavano erbe officinali di ogni genere: il Monte Paleno, nell’attuale Abruzzo.  Purtroppo, però, quando raggiunsero il Monte si accorsero che era completamente ricoperto di neve e per Maja risultò impossibile procurarsi la pianta di cui era in cerca. Hermes morì e sua madre cadde nella disperazione più totale. Il pianto della gigantessa risuonò tra le valli del massiccio montuoso per un anno intero, dopodichè fu stroncata dal dolore. Sceso sul Monte, Giove provò un’enorme sofferenza nel constatare che Maja era morta. In suo ricordo, allora,  creò il maggiociondolo, un alberello che “esplodeva” di fiori gialli, e le dedicò il mese di Maggio (poichè era il mese della fioritura). Sebbene non fosse più in vita, Giove elevò la madre di Hermes a ninfa delle selve e delle sorgenti del Monte. Ordinò che il Paleno fosse ribattezzato Monte Majella, un nome che onorava la memoria di Maja, e stabilì che sarebbe diventato il tempio eterno della donna che aveva amato suo figlio di un amore così profondo.

 

 

 

La colazione di oggi: la noce, il frutto dell’antico albero di Giove

 

Con loro si preparano biscotti, golose torte, crostate, plumcake, muesli da mettere nel latte o nello yogurt…Di cosa sto parlando? Delle noci, frutti dell’albero il cui nome botanico è “Juglans regia”, diffusissime proprio in questo periodo dell’ anno. Il termine Juglans vanta origini mitologiche: deriva da “Jovis glans”, ovvero “ghianda di Giove”, perchè gli antichi Romani consacrarono l’ albero del noce al re di tutti gli dei. “Regia”, cioè “regale”, si riferisce invece alla storia del noce, portato per la prima volta in Europa dai re di Persia. Non è un caso, infatti, che il Juglans regia sia una pianta originaria del Medio Oriente. Anche i Greci conferirono una valenza sacrale a questo arbusto, che battezzarono Karya Basilica (ossia “noce regale”) e definirono “profetico”. Le noci che tutti conosciamo sono solo una parte del frutto, classificabile come una drupa. L’ involucro, il mallo, è carnoso, profumato e di colore verde; internamente racchiude un nocciolo ovale, dalla consistenza legnosa, suddiviso in due valve. Qui si trova il seme, due cotiledoni chiamati gherigli: è delizioso e saporito, ricco di olio, ma rischia di diventare rancido se non viene consumato in tempi brevi. Potremmo quindi definire la noce un “seme” che appartiene alla categoria della frutta secca.  Le noci vengono raccolte a partire da Settembre fino ad Autunno inoltrato, e sono un toccasana sia per l’energia che forniscono che per il loro elevato valore nutrizionale. Dalla pressatura dei gherigli si ottiene un olio, l’olio di noce, che abbonda di acidi grassi polinsaturi ed è molto salutare per l’organismo. Sempre i gherigli, che rappresentano la parte commestibile del frutto, possono essere gustati freschi oppure disidratati; il loro utilizzo in cucina è vasto ed eterogeneo, ma dato il tema di questa rubrica ci concentreremo sui dessert.

 

 

Valutiamo, innanzitutto, le proprietà delle noci. Sono ricche di elettroliti, oligominerali e sali minerali quali il magnesio, il potassio, il calcio, il fosforo, il rame, il ferro e lo zinco, un immunomodulatore basilare. Gli acidi grassi insaturi e i polinsaturi, in particolare gli acidi grassi omega 3, sono presenti in dosi massicce e apportano innumerevoli benefici all’ organismo: donano energia, favoriscono l’equilibrio ormonale e la sintesi dell’ emoglobina, incrementano la formazione delle membrane cellulari e contribuiscono a veicolare l’ossigeno nel sangue. Gli omega 3, inoltre, contrastano le patologie cardio-circolatorie, regolarizzano il livello degli zuccheri e svolgono un’ efficace azione antitumorale. Alla funzione cardiotonica delle noci si accompagnano altre portentose doti: questi frutti sono un ottimo antidoto contro l’ipercolesterolemia, l’ipertensione e le infiammazioni in generale. Per il sistema nervoso, le noci risultano un toccasana; hanno proprietà sedative e antispastiche, basti pensare che il magnesio è un potente antistress. Gli elettroliti possiedono la virtù di assestare le funzioni nervose e muscolari. Le noci contengono anche una buona quantità di proteine, fibre, antiossidanti e vitamina B1. L’ alto valore energetico e le caratteristiche nutrizionali le rendono un tipico alimento della stagione fredda.

 

 

Come inserire le noci nella prima colazione? Le possibilità sono infinite. Potete aggiungerle nel latte o nello yogurt insieme ad altra frutta secca, al miele e ai cereali, tritarle per preparare una deliziosa crema di noci, utilizzarle per guarnire dolci o cospargerle su una fetta di pane affiancate ad ingredienti vari. Con le noci si possono realizzare dei dessert squisiti: torte e tortine, plumcake, biscotti, brioches cotte al forno, crostate. Anche gli abbinamenti sono molteplici. Il sapore delle noci viene esaltato dal cioccolato, dal miele, dalla ricotta, dalla marmellata, dalle mele…Con il mallo della noce macerato in alcol si ottiene il nocino, un tipico liquore della notte di San Giovanni. In rete troverete un’incredibile quantità di ricette a base del frutto del Juglans regia.

 

 

Veniamo ora a qualche curiosità legata all’ albero del noce. Bisogna premettere, intanto, che gli alberi hanno rappresentato un elemento di interconnessione con il cosmo sin da tempi remotissimi: il sottosuolo era simbolizzato dalle radici, la terra dal tronco e il cielo dalla chioma dell’arbusto. Per i Celti, queste tre dimensioni possedevano accezioni leggermente differenti; le radici simboleggiavano gli inferi, il tronco il mondo terreno e la chioma il divino. Il noce, con le sue origini antichissime, godeva di una considerazione speciale. Nel trattato “Naturalis Historia”, Plinio il Vecchio scriveva che i Greci erano soliti importare noci già nel VII secolo a.C. I Celti inclusero il noce nel loro Oroscopo degli Alberi, che associava ciascun periodo dell’ anno a una pianta diversa. Il noce, l’ albero magico dei Druidi, corrispondeva ai nati tra il 21 e il 30 Aprile e tra il 24 Ottobre al 2 Novembre. La sacralità del noce si ricollegava al mistero: il Juglans regia simboleggiava la terra, l’ oscurità del sottosuolo, quindi era un emblema di saggezza. Mangiare noci durante le feste, per i Celti, costituiva una sorta di rito propiziatorio della fertilità.

 

 

Nella mitologia greca, il noce rivestiva un ruolo chiave in quanto rimandava al dio Dioniso. Narra una leggenda che Dioniso si recò alla corte di Dione, il re della Laconia, e che si innamorò di sua figlia Caria. Le sorelle di quest’ ultima, invidiose del loro amore, misero il padre al corrente della relazione. Dioniso lo venne a sapere e si vendicò tramutando le due donne in roccia. Dopo aver appreso la notizia, Caria ne fu talmente addolorata da perdere la vita. Dioniso, che di Caria era perdutamente innamorato, decise di trasformarla in un albero di noce: avrebbe continuato a vivere attraverso la fecondità dei suoi frutti. In onore di Caria, i Laconi fecero erigere un tempio dove imponenti sculture in legno di noce impreziosivano il suo ingresso: le statue, che riproducevano delle figure femminili, vennero battezzate Cariatidi. E’ interessante anche approfondire la valenza che ricoprì il noce nei secoli successivi. Tra il 1500 e il 1600, per esempio, data la vaga somiglianza del frutto a un cervello umano, la noce era ritenuta un ottimo rimedio contro le patologie cerebrali. Nel Medioevo, l’ albero del noce si ammantò di un alone diabolico: la leggenda vuole che le streghe accorressero a frotte sotto il noce di Benevento per la celebrazione del Sabba della notte di San Giovanni. Il Juglans regia, all’ epoca, era considerato l’albero delle streghe in tutta Italia. A Roma si narrava che la Chiesa di Santa Maria del Popolo venne fatta costruire dove sorgeva un noce attorno al quale i demoni si scatenavano in balli sfrenati; ovunque si credeva che le “lamie” organizzassero i loro convegni presso questa pianta. Ma perchè da albero sacro il noce divenne “l’albero del male”? In realtà, già nella Bibbia ci si riferiva al Juglans regia come all’albero che fu escluso dal Paradiso Terrestre. Il Vangelo, dal canto suo, riporta che la croce su cui venne inchiodato Cristo era fatta di legno di noce.