La fika: alla scoperta della pausa conviviale e rilassante adorata dagli svedesi

 

Cos’è la fika? In Svezia, questo termine indica una pausa conviviale e rilassante che si effettua come minimo due volte nella stessa giornata. Per gli svedesi, la fika è irrinunciabile ed è parte integrante della quotidianità: più che uno stile di vita, è ormai un’istituzione. Durante la fika, che generalmente ha inizio intorno alle dieci del mattino e alle tre del pomeriggio, ci si incontra con gli amici (o con i colleghi di lavoro) e si beve un caffè accompagnandolo ai più tipici, oltre che golosi, dolci svedesi. E poi si chiacchiera, si ride, ci si confronta…la fika è un break rigosamente all’insegna del relax, potremmo definirla un rito sociale. Dove ci si riunisce? A casa, in caffetteria, in un bar…ovunque sia possibile sorseggiare un buon caffè, bevanda-simbolo di questo break. La valenza della fika, tuttavia, va ben oltre l’identificazione con una pausa caffè. E’ il tempo che viene dedicato alla socialità, a se stessi, dimenticando per un attimo le incombenze giornaliere. Nulla vieta di effettuarla anche da soli, all’occorrenza: sono momenti che si assaporano, di solito, tuffandosi tra le pagine di un libro. L’importanza della fika è talmente rilevante che in molti luoghi di lavoro viene considerata un appuntamento fisso e imprescindibile. I dipendenti possono usufruire del break, organizzato sia di mattina che pomeriggio, per poi tornare a svolgere le proprie mansioni con rinnovata energia.

 

 

La storia

Il caffè, nelle origini della fika, riveste un ruolo decisivo. In Svezia, questa bevanda venne proibita più volte: rimane celebre l’editto promulgato dal re Gustavo III, che sancì il divieto di bere caffè dal 1794 al 1820. Il consumo clandestino di caffè, tuttavia, proseguì. Il termine fika deriverebbe da uno slang che si impose nell’Ottocento: colloquialmente, invertire le sillabe dei sostantivi era molto cool. E “kaffi” era precisamente il vocabolo con cui, a quell’epoca, gli svedesi designavano il caffè. Invertendo le sillabe si otteneva fika, un nome che ha attraversato i secoli per giungere fino a noi. All’inizio, al caffè si accompagnavano sette diversi tipi di biscotti preparati artigianalmente; intorno al 1940 venne pubblicato un libro di ricette, “Sju Sorters Kakor”, che in Svezia riscosse un enorme successo; era incentrato proprio sui biscotti destinati alla fika. Anticamente, la bontà dei biscotti era la priorità. Si realizzavano in famiglia e si offrivano agli ospiti, che ne avrebbero apprezzato la delizia. Con il passar del tempo, la fika andò tramutandosi in un rito prettamente associato alla socialità.

 

 

Bevande e dolci della fika

Durante la fika si beve solo caffè? La risposta è no. Oggi esistono molte alternative: le più comuni sono il , il latte o la cioccolata calda. Per quanto riguarda il caffè, in Svezia si prepara versando acqua calda sul caffè macinato e si serve ben caldo dopo averlo filtrato. La fika viene effettuata con calma, seduti comodamente attorno a un tavolo o a un tavolino; non c’è bisogno di dire che la fretta sia bandita, così come il consumo al banco del bar. Il dolce che tradizionalmente si accompagna al caffè, o alla bevanda scelta, è il kanelbulle, una prelibata girella alla cannella le cui origini risalgono a circa un secolo orsono. Ma non ci sono solo i kanelbullar: il termine fikabröd (“pane per la fika”) sta ad indicare tutta la varietà di dolci, siano essi torte, biscotti o dolcetti (su VALIUM troverete un approfondimento a breve), degustati nel corso di questa pausa rigenerante. Tra essi, figurano preparazioni tipicamente svedesi come la kladdkaka, considerato il dessert della fika per antonomasia. La kladdkaka è una torta al cioccolato (che può essere fondente, bianco oppure al latte) soffice e pastosa, solitamente guarnita con frutti di bosco. Accanto ad essa abbiamo altre delizie locali: ad esempio la prinsesstårta, pan di Spagna con crema alla vaniglia ricoperto di marzapane, ma anche il kringel, un dolce al burro simile al brezel, e poi la morotskaka, una torta che combina le carote con le mandorle e le spezie, oppure ancora i chockladbollar, dolcetti sferici a base di cocco e cioccolato. Ce n’è abbastanza, credo, per far scoccare un amore a prima vista tra noi e l’incantevole break svedese che risponde al nome di fika.

 

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Scandi Winter

 

Non so come la pensate voi, ma quando Dicembre si avvicina la mia mente prende il volo in direzione dei paesi scandinavi. Per me, le lande innevate del Nord Europa sono luoghi che esprimono alla perfezione la mia visione dell’Inverno e della magia natalizia. Atmosfere, cultura, paesaggi, cibo, usanze, fiabe e tradizioni danesi, finlandesi, norvegesi e svedesi (rigorosamente in ordine alfabetico) si fondono in un incantevole connubio da cui traggo ispirazione. Domani, per esempio, andremo in Svezia: scopriremo che cos’è la fika (posso solo anticiparvi che non si discosta molto dal concetto danese di hygge) ed esploreremo tutti i piccoli rituali che ad essa si accompagnano. Sarà un viaggio affascinante nella cultura e nella socialità svedese. Per saperne di più, naturalmente…rimanete sintonizzati su VALIUM.

 

La vendemmia: un rito antichissimo e le sue tradizioni

 

Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)

 

Settembre, da sempre, è tempo di vendemmia. Un termine che indica la raccolta dell’uva da vino: l’ultima tappa di un impegno nei vigneti che dura un anno intero, a cominciare dalla potatura invernale di Gennaio. L’uva che si raccoglie durante la vendemmia, in sintesi, è quella che troviamo sulle nostre tavole tramutata in delizioso nettare degli dei. Ma la vendemmia, oltre ad essere una pratica agricola, è un vero e proprio rituale: sopravvive da secoli, portando con sè un bagaglio di tradizioni, usanze scaramantiche e tecniche entrate far parte degli annali della cultura agreste. La vendemmia nasce nell’antica Roma, e lo dice il termine stesso; “vendemmia” proviene dal latino “vindimia”, che unisce “vinum” (vino) e “demere” (raccogliere). Sin da allora, dunque, designava la raccolta dell’uva destinata alla vinificazione. I romani adoravano questo periodo, tant’è che gli dedicarono una festività, i “vinalia rustica”, che cadeva ogni 19 Agosto. Ma non solo: chiamarono il mese di Settembre “mensis vindemialis” e lo consacrarono interamente alla vendemmia. In quei giorni, il lavoro nei vigneti veniva coniugato con feste e rituali in onore degli dei; i romani esprimevano così la loro gratitudine alle divinità per l’abbondanza del raccolto.
E qui torniamo al discorso iniziale: la vendemmia, al di là dell’importantissima funzione che ricopre a livello agricolo, è sempre stata un’attività ricca di significati. In primis rappresenta un momento di aggregazione fondamentale per la comunità agreste, un evento all’insegna della convivialità e della voglia di festeggiare. Ci si ritrova tutti insieme in vigna e la raccolta dell’uva viene celebrata con canti, stornelli, chiacchiere e risate. Il duro lavoro si alleggerisce lasciando il posto alla magia che impregna questa fase dell’anno agrario. Usanze e rituali abbondano, così come la superstizione. E una volta terminata la raccolta, ci si diverte tramite balli, degustazioni e musica rigorosamente suonata dal vivo. La vendemmia è una festa da condividere in compagnia.
In più, c’è un dato non trascurabile da prendere in considerazione: il vino produce ricchezza. E non solo in qualità di bevanda. L’enoturismo, ovvero il turismo del vino, ultimamente ha conosciuto un incremento eccezionale. Un  numero sempre maggiore di persone è attratto da mete che hanno fatto del vino la loro eccellenza. Si moltiplicano le visite alle cantine, ai grandi vigneti, alle aziende vinicole, per vivere esperienze che spaziano dal semplice giro di perlustrazione ai workshop, le attività all’aria aperta, le degustazioni, gli approfondimenti culturali sui “territori del vino”. Il valore del vino, di conseguenza, è inestimabile sia dal punto di vista economico ma anche socio-culturale: definisce l’identità di un luogo, ne sancisce le tradizioni, favorisce la socialità e la coesione sociale.
Continuando a parlare della vendemmia e delle sue usanze, notiamo che sono innumerevoli e variano da regione a regione. Si tratta di consuetudini secolari, ma per la maggior parte tuttora in uso: un modo per mantenere ben saldo il legame tra l’uomo e le proprie radici. Ma quali sono le tradizioni più diffuse nei vigneti d’Italia? Tanto per cominciare, prima ancora che la vendemmia inizi, la vigna dovrebbe essere benedetta da un sacerdote: questo gesto, oltre che a scacciare la malasorte e a porre il vigneto sotto la protezione divina, serve a garantire un raccolto vinicolo abbondante.
La data di inizio della vendemmia, solitamente, viene stabilita dopo un attento studio delle fasi lunari, che si pensa possano influire sull’uva e sulla sua pregiatezza. Si tratta più che altro di superstizioni, ma sono in pochi a non tenerle in conto. Per una buona vendemmia, dunque, ne andrebbe ponderato l’avvio con il calendario alla mano.
Il primo grappolo d’uva raccolto ha un’importanza decisiva. Lo si mostra a tutti i partecipanti, a volte lo si benedice, lo si passa di mano in mano, lo si condivide mangiandone qualche chicco a testa. Ciò assicurerebbe una buona riuscita della vendemmia e una copiosa raccolta di grappoli.
L’inizio della vendemmia è un momento cruciale: le tradizioni proliferano e sono tutte volte a propiziare il successo della pratica agricola. In molte regioni italiane, ad esempio, la prima persona che entra nel vigneto è determinante. Una classica figura di buon auspicio è la donna, che alcuni vogliono bionda e altri bruna. Costei sarebbe portatrice di fecondità.
E’ comune accompagnare la vendemmia con canti, stornelli e botta e risposta pepati tra i due sessi. Nelle Marche, per esempio, i più giovani erano soliti scambiarsi frasi di corteggiamento attraverso gli stornelli. Si faceva a gara a chi formulava la proposta più arguta, o a chi replicava con un’altrettanto arguta risposta. Gli adulti chiacchieravano tra loro del più e del meno. Si rideva molto, questo sì, e la fatica risultava dimezzata. In alcuni vigneti d’Italia, invece, si ritiene che la vendemmia vada svolta in silenzio: servirebbe a non risvegliare le entità naturali, che potrebbero vendicarsi rendendo l’uva di pessima qualità.
Vendemmiando, va fatta molta attenzione al numero di grappoli che contiene ogni cesta. Anche in questo caso, trionfa la superstizione: tuttavia, le credenze differiscono in ogni regione. Ad attirare la buona sorte potrebbe essere, a seconda del territorio, un numero pari o un numero dispari. Il numero pari sarebbe emblema di armonia, il numero dispari di straordinarietà.
Frequenti sono anche le usanze che riguardano il primo mosto, il succo dei grappoli schiacciati poco tempo prima: a scopo propiziatorio viene versato sul suolo oppure lo si usa per produrre il vino “apripista” dell’annata.
Lo spirito della vigna è una credenza popolare molto diffusa. Questo spirito veglierebbe sul vigneto proteggendolo costantemente; non è un caso che un gran numero di viticoltori gli dedichi preghiere o doni per attirarsi i suoi favori.
Esistono poi delle curiosità che voglio citare ispirandomi ancora una volta alla mia regione, le Marche. Torniamo per un momento alla raccolta dell’uva. I grappoli venivano inizialmente sistemati nelle ceste e, a filare ultimato, versati nelle cassette che con un biroccio (un carretto a due ruote) si trasportavano fino alla cantina. Lì le uve si scaricavano nelle “canà”, grandi vasche adibite alla pigiatura. Quindi iniziava il lavoro che uomini e donne compivano con i propri piedi, pigiando i chicchi per lasciar fuoriuscire il mosto. Il movimento era una sorta di saliscendi che coinvolgeva  in alternanza la punta e il tallone del piede. Questa operazione, a seconda della quantità d’uva raccolta, non era raro che durasse tre giorni di fila. L’elemento interessante è la leggenda che è stata imbastita attorno alla pigiatura: si narra che un conte, avendo notato che i pigiatori procedevano stancamente, mandò a chiamare un suonatore ambulante di organetto. Quando questi arrivò nella cantina, il conte gli chiese di suonare una ballata dal ritmo serrato e molto allegra. I pigiatori si rinvigorirono non appena la ascoltarono, si lasciarono trascinare dalla musica e diedero involontariamente vita a un ballo che fu chiamato “saltarello”: è tipico delle Marche e di molte regioni dell’Italia centrale, come il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo. Viene considerata una delle danze più antiche d’Italia; con la vendemmia ha dunque in comune, oltre che l’origine, le radici ancestrali.
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Libertà: il nuovo tema della settimana

 

Estate e libertà sono un tutt’uno. Quando ci si libera dalla routine quotidiana, ci si sente liberi di esplorare nuovi orizzonti. Si è liberi di partire, viaggiarescoprire paesi e scenari mai visti prima. Le lunghe giornate di vacanza, svincolate dai soliti orari, sono scandite da altri ritmi: quelli della libertà di fare ciò che più ci piace fare. Il caldo ci permette di liberarci dagli abiti che rende superflui, di liberare i nostri piedi dalle scarpe scomode e di infilarli dentro a un paio di sandali in tutta libertà. In piena estate siamo liberi di vivere all’aria aperta, di riscoprire la socialità, di conoscere nuove persone. Gli eventi, i festival e i grandi concerti vengono organizzati sotto le stelle, regalandoci sensazioni di profonda libertà e condivisione. La natura è la location che ci fa sentire più liberi e ci trasmette il maggior numero di emozioni. Per tutti questi motivi, e per molti altri ancora, voglio dedicare il tema della settimana alla libertà: perchè, come disse il poeta di origne libanese Khalil Gibran, “La vita senza libertà è come un corpo senza lo spirito”.

Foto: Ian Dolley via Unsplash

 

Il luogo

 

Il dilagare della pandemia di Covid ci ha messo di fronte a una nuova realtà, mai sperimentata prima, dove i cambiamenti nello stile di vita sono all’ ordine del giorno. Tra lockdown e contagi in rialzo, chiusure e mascherine a oltranza, il 2020 è trascorso come un incubo a occhi aperti. In questi mesi di graduale normalizzazione dello scenario socio-sanitario, tuttavia, l’ entrata in vigore del Green Pass ha dato adito a proteste e rivolte a ruota libera. E nelle grandi città, già in preda al caos urbano, all’ inquinamento e al pericolo contagio, cortei e manifestazioni proliferano. C’è chi ha pensato da tempo, soprattutto quando la pandemia era nel suo pieno, di trasferirsi in luoghi più a misura d’uomo: magari in provincia, o nei piccoli centri. Oppure ancora in campagna, nei villaggi…dove l’aria è rimasta pura e la natura è una costante della quotidianità e dei paesaggi. Questa scelta si ricollega strettamente al tema del mutamento, alle nuove coordinate esistenziali che il Covid ci ha imposto. Avendone la possibilità (un’ attività in smart working o come freelance, l’ opportunità di raggiungere facilmente il proprio posto di lavoro in città), in molti hanno deciso di trasferirsi in un “borgo selvaggio” di leopardiana memoria. Immaginate quegli antichi e pittoreschi villaggi che abbondano nella nostra Italia, dove le strade sono ancora lastricate di ciottoli e ci si conosce tutti per nome: ecco, mi riferisco a location di questo tipo. I vantaggi del vivere in un borgo sono riassumibili in pochi punti: aria pulita, tranquillità, albe non di rado salutate dal canto del gallo, costo della vita irrisorio come le distanze, generalmente percorribili a piedi o al massimo in bicicletta. E poi, un più stretto contatto con la natura, un minor rischio assembramenti favorito dall’ esiguo numero degli abitanti, una socialità spiccata, zero criminalità. Con il valore aggiunto di poter apprendere il savoir faire artigianale di svariati settori: il gusto del “fatto a mano”, nei paesini, non è mai venuto meno. Molto spesso, inoltre, gli antichi borghi vantano angoli, scorci e vedute panoramiche senza pari. La decisione di trasferirsi in un villaggio, ciononostante, va valutata bene. Conoscere tutti ed essere conosciuto da tutti, far parte di una piccola comunità, può rappresentare un vantaggio e uno svantaggio a un tempo. La vita tranquilla, in genere, non regala troppe sorprese. Soppesare i pro e i contro di una scelta così radicale è tassativo. Entrano in gioco le attitudini, gli interessi, l’ indole individuale. Non ultima, la fase esistenziale che in quel momento si sta vivendo. La domanda principale da porre a se stessi è innanzitutto una: “Sono pronto a rinunciare alle opportunità e al fermento che mi offre una grande città?”.

 

 

 

 

 

 

Primo giorno di scuola

 

Lo scopo dell’educazione è quello di trasformare gli specchi in finestre.
(Sydney J. Harris)

Primo giorno di scuola qui nelle Marche, dove vivo, così come in molte altre regioni. Auguro un buon inizio a tutti, perchè la scuola svolge un ruolo fondamentale: educa, amplia gli orizzonti, arricchisce culturalmente, ma non solo. La scuola insegna il valore della socialità e della convivenza. Non stupisce che oggi, per molti, sia una giornata gioiosa: dopo tre mesi di vacanze, si ritrovano gli amici e i compagni di classe. Fate tesoro del periodo trascorso sui banchi, sarà una miniera di apprendimento inesauribile sotto molteplici aspetti. E la spensieratezza che caratterizza questi anni diventerà uno dei più bei ricordi che possiate portare nel cuore.

 

 

Foto di Polina Tankilevitch via Pexels