Novembre

 

L’anno è prossimo alla fine. Ottobre è il suo cielo al tramonto, novembre il tardo crepuscolo.

(Henry David Thoreau)

 

Caratteristiche

Novembre è il mese delle brume, dei primi freddi, della notte che arriva sempre più presto. I colori straordinari del foliage hanno lasciato il posto al nero dei rami scheletrici. L’Autunno è in dirittura di arrivo, pronto a dissolversi tra poco più di un mese. Composto da trenta giorni, Novembre esordisce con la solennità di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti.  E’ conosciuto come “mese dei morti” proprio per questa ricorrenza, celebrata il 2 Novembre, ma anche per le sue cupe atmosfere: la natura si assopisce profondamente, obbedendo al ciclo di morte e di rinascita che la contraddistingue; l’oscurità predomina, preparandosi a raggiungere il suo apice con il Solstizio d’Inverno. In un simile contesto di grigiore si inserisce, inaspettatamente, l’“estate di San Martino”, una serie di giornate tiepide e assolate che precedono l’11 Novembre, data della festa dedicata a Martino di Tours.

Storia

Il suo nome deriva da November, che in latino ha le sue origini in novem: nel Calendario Romano, che iniziava a Marzo, Novembre era infatti il nono mese dell’anno.

Segni zodiacali

Lo Scorpione domina la scena fino al 22 Novembre, poi è la volta del Sagittario, che viene seguito dal Capricorno il 22 Dicembre.

Ricorrenze

Novembre si apre con la solennità di Ognissanti. Il 2 viene celebrata la Commemorazione dei Defunti, l’11 la festa di San Martino, vescovo di Tours: questa ricorrenza, detta anche “festa dei cornuti” in virtù di alcune antiche usanze popolari (rileggi qui l’articolo che VALIUM le ha dedicato), coincide tradizionalmente con la degustazione del vino novello, che viene abbinato a tipici piatti autunnali.

Colore

Il colore di Novembre è il viola, intenso e mistico, perfetto per rispecchiare la suggestività di questo mese.

Pietra Preziosa

Non una, bensì due pietre sono associate al mese di Novembre: il topazio e il citrino. La prima, declinata in un’innumerevole varietà di colori, aveva il potere di allontanare gli incantesimi; la seconda, contraddistinta da una nuance di giallo a metà tra il giallo oro e il giallo limone, era una sorta di scudo contro i pensieri negativi.

 

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Il cappello della strega: le origini, la storia e la contemporaneità

 

Il cappello a punta, nero e rigorosamente a falda, rimanda da sempre a una figura ben precisa: quella della strega. Altre creature, come le fate ad esempio, indossano un cappello dalla forma conica, ma privo di falda; lo stesso vale per gli stjärngossar, i “ragazzi stella” che prendono parte alla processione svedese di Santa Lucia. Come nasce, dunque, il tipico cappello della strega? Oggi lo scopriremo insieme.

Le origini

In tempi antichissimi, tra il IX e il I secolo a.C., i ministri del culto indossavano un cappello a punta quando celebravano gli uffici divini. Questo tipo di copricapo, alto e “svettante” verso il cielo, rappresentava senza dubbio un trait-d’union tra l’uomo e le divinità. Reperti archeologici significativi in tal senso sono stati rintracciati sia in Sardegna che nell’area corrispondente all’antica Etruria: si tratta di piccole sculture in bronzo che riproducono religiosi vestiti di tutto punto e con un cappello conico in testa. Ma le preziose decorazioni che ornano i loro abiti sono tutto fuorchè trecce; le statuette rappresentano infatti degli aruspici, i sacerdoti che, nell’antica Roma, praticavano la divinazione tramite le viscere degli animali sacrificati sull’ara. Va da sé che quelle che sembrano trecce sono, in realtà, le interiora che gli aruspici utilizzavano per le preveggenze. Queste sculture, molto simili tra loro, affondano le radici in epoca nuragica ed etrusca; ad accomunarle è un dettaglio importante: il cappello a punta che sfoggiano i sacerdoti. Anche nell’antica Persia i ministri del culto indossavano un cappello a punta, nello specifico il berretto frigio, in uso a partire nientemeno che dal VI secolo a.C. Tutte le testimonianze appena descritte, ci inducono a trarre conclusioni ben precise: il copricapo conico era associato al prestigio, a un profondo senso di reverenzialità.

 

 

Il Medioevo

La situazione cambiò completamente con l’avvento del Cristianesimo. Nel Medioevo, epoca che coincide con la sua massima diffusione, la Chiesa Cattolica dovette prendere atto che, soprattutto nei villaggi e nelle aree più isolate del Sacro Romano Impero, il paganesimo rimaneva il culto a cui aderiva gran parte della popolazione. Cominciò quindi a sostituire feste, tradizioni e rituali pagani con i loro corrispettivi cristiani, ma anche ad avviare una campagna anti-pagana che snaturava e distorceva i più importanti simboli del paganesimo: le corna, ad esempio, antico emblema di forza e fecondità, vennero indissolubilmente associate al demonio. In quest’operazione di ribaltamento generale rientrò anche il cappello a punta, la cui storica autorevolezza fu soppiantata da una valenza di disonore e derisione. Prova ne è il fatto che nel 1215, durante il Concilio Lateranense, Papa Innocenzo III decretò che gli Ebrei dovessero indossare il cappello giudaico, o “pileus cornutus” (l’evoluzione del berretto frigio), per distinguersi dai cristiani. Tale imposizione, lungi dall’essere una semplice regola, cominciò ben presto ad apparire una sorta di discriminazione. Sempre nel Medioevo, tuttavia, il cappello a punta si tramutò in un accessorio di tendenza che, con il nome di hennin, tra il 1300 e il 1400 spopolò tra le dame europee. L’hennin derivava quasi certamente dal tipico copricapo delle donne mongole, che grazie a Marco Polo approdò nel Vecchio Continente. La moda dell’hennin esplose nelle Fiandre; era un cappello a cono alto circa 90 cm ornato di un velo che spesso arrivava a sfiorare il suolo. Avete presente il cappello indossato dalle fate nelle fiabe? Bene, si tratta proprio dell’hennin.

 

L’hennin di Isabella di Francia in un’opera anonima conservata nella Bibliothèque Nationale de France

In Europa veniva sfoggiato dalle donne aristocratiche, benestanti e acculturate. Ma a quei tempi, nel Regno Unito, si impose una nuova tipologia femminile: la alewife. Intorno alla metà del 1300, le vedove e tutte le donne in difficoltà economica avevano la facoltà di produrre e commercializzare birra artigianale. Le birraie gestivano le ale house, locande contraddistinte da una scopa di saggina a mò di insegna, oppure organizzavano banchetti ambulanti. Le alewife, però, non godevano di buona reputazione: a consumare birra erano più che altro gli uomini, inoltre l’alcol veniva considerato un potente afrodisiaco, una bevanda che eliminava i freni inibitori. Nell’immaginario collettivo, di conseguenza, le ale house vennero ben presto percepite come covi di stregoneria e prostituzione. E’ molto importante dire che le alewife vestivano rigorosamente di nero e indossavano un cappello (sempre nero) a punta che serviva a renderle riconoscibili: era una sorta di divisa, insomma. Ma anche il fatto che fossero vedove, ancor peggio nubili, ed economicamente autonome era mal visto: tutti elementi imperdonabili, per l’oscurantismo dell’epoca.

La caccia alle streghe

 

Era il 1484 quando Papa Innocenzo VIII, promulgando la bolla “Summis Desiderantes”, ordinò di inquisire e uccidere, dopo una serie di torture, tutte le streghe d’Europa. La caccia alle streghe raggiunse l’apice nel 1500 e perdurò fino alla metà del Settecento. Naturalmente, le alewife vennero bersagliate fin da subito. Molte di loro erano guaritrici, e utilizzavano le erbe a scopo terapeutico, ma furono accusate di servirsi dell’erboristeria per adulterare, o avvelenare, la birra che loro stesse producevano. Anche l’abbigliamento che caratterizzava le alewife venne assimilato a quello, tipico, delle streghe: gli abiti neri e il copricapo a punta entrarono a far parte dell’iconografia della perfida adoratrice del demonio, consolidandosi in particolar modo nell’età vittoriana, e forgiarono l’immagine della strega rimasta perennemente impressa nell’immaginario collettivo.

 

Francisco Goya, “Il tribunale dell’Inquisizione”, olio su tela (1812-1819 ca)

In un suo dipinto, “Il tribunale dell’Inquisizione”, Francisco Goya riprende il tema del carattere punitivo legato al cappello a punta e lo inserisce in un contesto che raffigura un processo per stregoneria: le presunte streghe, dopo la sentenza, erano tenute ad indossare un copricapo conico che fungesse da “segno di riconoscimento”. Il cappello, sul quale era scritta e disegnata la condanna, doveva renderle identificabili presso il popolo e contribuire alla loro emarginazione. In secoli più recenti, il motivo del cappello a punta come umiliazione e penitenza è riapparso sotto forma di punizione scolastica: gli alunni più svogliati esibivano il cosiddetto “cappello da asino” mentre erano in castigo dietro la lavagna.

Oggi

 

La Pop Culture contemporanea ha sdoganato la figura della strega, rendendola un’icona del nostro tempo. A questo hanno contribuito in gran parte i cartoon, i film (basti pensare a pellicole come “Ho sposato una strega” di René Clair, del 1942), i libri, le serie televisive. La strega non viene più dipinta come una creatura tenebrosa e legata al demonio; mantiene i suoi poteri magici, ma ha perso l’allure oscura. Un esempio? La strega Nocciola, all’anagrafe Nocciola Vildibranda Crapomena, che la Disney lanciò nei suoi fumetti e cartoni animati. Nocciola ha esordito nel cartoon “La notte di Halloween” del 1952; la sua unica malvagità? Prendere di mira Paperino per aiutare Qui, Quo e Qua a impossessarsi dei suoi dolcetti. Il cappello a punta rimane, ma a differenza del passato viene guardato con ironia e giocosità.

 

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Ottobre

 

Trasparente luce
d’ottobre, al cui tepor nulla matura
perché già tutto maturò: chiarezza
che della terra fa cosa di cielo.
(Ada Negri)

 

Caratteristiche

Nel Calendario Gregoriano, Ottobre è il decimo mese dell’anno. Conta 31 giorni ed è il primo mese completo dell’Autunno astronomico, che ha inizio con l’Equinozio d’Autunno. Il clima che lo contraddistingue è piuttosto eclettico: giornate ancora abbastanza calde ed assolate si alternano a piogge, nebbie e bruschi cali delle temperature. In agricoltura, prima che la natura si assopisca, le attività da svolgere sono molteplici; il detto “chi semina in Ottobre miete in Giugno” è indicativo: comincia la semina dei cereali, come il grano, l’orzo, l’avena e la segale. La raccolta del mais prosegue, insieme a quella del girasole, mentre nel frutteto si eseguono nuovi impianti. Termina la vendemmia tardiva e inizia la fermentazione nei tini. La tradizione prevede che ci si affidi alle fasi lunari per stabilire il momento della semina ed ottenere un abbondante raccolto.

Storia

Dato che il Calendario Romano iniziava a Marzo, Ottobre era l’ottavo mese dell’anno: da qui il nome di October. Commodo, imperatore della Roma antica che regnò dal 180 al 192, lo ribattezzò Invictus. La riforma, tuttavia, fu abolita con la morte di Commodo. Il Calendario della Rivoluzione Francese suddivideva Ottobre in due mesi: era Vendemmiaio fino al 22 e diventava Brumaio dopo questa data.

Segni zodiacali

Ottobre è governato dal segno della Bilancia fino al 22 del mese, poi entra in scena lo Scorpione.

Ricorrenze

Tra le principali ricordiamo la Festa dei Nonni, che cade il 2 Ottobre e coincide con quella degli Angeli Custodi. Il 7 Ottobre si celebra la Vergine del Rosario, il 12 negli Stati Uniti si festeggia il Columbus Day, data in cui Cristoforo Colombo, nel 1492, scoprì il continente americano. A concludere il mese in bellezza è Halloween, che ricorre il 31: la vigilia di Ognissanti è attesissima in tutto il mondo occidentale.

Colore

Ottobre per alcuni corrisponde al giallo ocra, per altri all’arancione. Sono colori che rimandano alla zucca, l’iconico frutto simbolo del mese.

Pietra Preziosa

Le gemme del mese di Ottobre sono due, l’opale e la tormalina. L’opale, apprezzata dagli antichi Greci che le attribuivano virtù divinatorie, è composta di acqua dal 6 al 20% e ciò influisce sul suo colore, ricco di splendidi giochi di luce che spaziano dal bianco latte al rosso passando per il verde, il giallo e il marrone. La tormalina, in tempi remoti considerata una pietra che viaggiava con l’arcobaleno, leggenda vuole che fosse intrisa delle sue sette cromie. Questa gemma, in effetti, si declina in innumerevoli tonalità e tutte incredibili: non è un caso che sia proprio il colore a determinare il valore della pietra.

 

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Il luogo: Gotland, il fascino nordico dell’isola vichinga delle rose

 

Abbiamo già esplorato le isole del Mediterraneo (rileggi qui l’articolo), adesso è tempo di ritornare nel Grande Nord. Precisamente a Gotland, un’isola situata nel mar Baltico, al largo delle coste svedesi sud-orientali: appartenente alla Svezia, dista quaranta minuti di aereo da Stoccolma ed è ricca di storia, cultura, bellezze architettoniche e naturali. Le sue origini antichissime (risalgono al 5000 a.C.) sono circondate da affascinanti leggende; una di queste descrive Gotland come una terra che, generata dal mar Baltico, torna negli abissi ogni sera al tramonto. L’alone mitico che la ammanta si intreccia a doppio filo con la storia dell’isola, che vede protagoniste svariate popolazioni vichinghe: Gotland fu abitata dai Gotlandi, dai Geati e dai Goti, che poi si spinsero a Sud abbandonando la Scandinavia. L’isola ebbe un ruolo molto importante nel commercio tra il Nord Europa e l’Oriente. La sua posizione strategica sul mar Baltico, infatti, la fece entrare di diritto nella Lega Anseatica, che dal 1358 al 1862 detenne il predominio commerciale nell’ Europa Settentrionale e nel mare collocato tra la penisola scandinava e il continente. Non è un caso che il Medioevo, epoca in cui si costituì la storica alleanza, sia uno dei periodi che ha lasciato maggiori tracce architettoniche sull’isola: ne è un esempio Visby, la capitale di Gotland, circondata da imponenti mura fortificate e decretata Patrimonio dell’Umanità Unesco. Ma lasciando da parte il passato, che cosa rappresenta Gotland oggi? Alcuni la chiamano la “Capri del Nord”: le sue spiagge, le scogliere rocciose della sua costa, gli splendidi paesaggi e gli edifici di design, un connubio di stile tipicamente hygge e pura raffinatezza, la rendono oltremodo speciale. Ma Gotland non è solo questo. E’un’isola verdeggiante, ricca di reperti archeologici, e, su tutto, la patria di un’ottima cucina. Viene considerata, non senza una ragione, la capitale culinaria della Svezia.

 

 

Un altro dei suoi punti di forza è il clima mite. Qui, le rose fioriscono anche in Inverno: un particolare che è valso a Gotland l’appellativo di “isola delle rose”. La secolare isola vichinga appartiene a un arcipelago che comprende isolette come Fårö (dove il regista Ingmar Bergman visse e ambientò molti suoi capolavori),  Karlsö e Gotska Sandön. Vantando una superficie di 2994 km quadri, Gotland è la più grande isola svedese situata nel mar Baltico e la seconda isola, in quanto a estensione, dopo la danese Selandia. Abitata da circa 60.000 persone in tutto, l'”isola delle rose” è rimasta splendidamente selvaggia: alberi in via di estinzione come gli abeti rossi e l’antichissima specie equina dei Pony Gotland, che risale all’Età della Pietra, sopravvivono ancora nelle sue lande incontaminate.

 

 

Dal momento che ha radici così remote nel tempo, ospita numerosi resti archeologici che spaziano dal Paleolitico all’Età del Bronzo, dall’Era dei Vichinghi al Medioevo. Cosa visitare, dunque, in questa suggestiva località del mar Baltico? Non si può che iniziare con il capoluogo, Visby, raggiungibile dalla Svezia (partendo da Oskarshamn) in circa tre ore di traghetto. Visby è una città medievale fortificata che, come vi ho già detto, venne inclusa nella Lega Anseatica: la sua appartenenza a quell’importante alleanza commerciale è compresa tra il XII e il XIV secolo. Nel 1995, omaggiando la sua pittoresca bellezza, l’Unesco ha dichiarato Visby Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Il centro storico è percorso da un intrico di viuzze fiancheggiate da case in colori pastello e dai tetti a punta; risaltano le guglie della cattedrale, le chiese e gli edifici sorti all’epoca dei Vichinghi, le torri che intramezzano le mura. Potete visitare la città in tutta calma, a piedi, o decidere – in puro stile nordico – di effettuare i vostri spostamenti in bicicletta.

 

 

Un giro turistico non può prescindere dalle mura della città. Innalzate tra il XIII e il XIV secolo, sono lunghe 3,44 km e completamente edificate in pietra calcarea. Le intervallano trenta torri che oltrepassano i venti metri di altezza; torri ammantate, peraltro, di una potente aura di leggenda: in una di esse, la Torre della Fanciulla, si narra che fu murata viva la figlia di un orefice innamoratasi del re danese Valdemar Atterdag; ciò fu considerato un tradimento nei confronti della città; nella feritoia di un’altra torre, la Sankt Goransporten, è rimasta incastrata una pietra risalente alla guerra civile duecentesca. Dopo la costruzione delle mura, Vilby fu suddivisa in due aree ben distinte. All’interno delle fortificazioni si trovavano gli artigiani e i mercanti, che potevano commerciare con l’estero, all’esterno i pescatori e gli agricoltori, abilitati solamente al commercio interno. Alcuni spazi delle mura, oggi, sono stati adibiti a punti panoramici da cui ammirare lo splendore di Vilby e dei suoi dintorni.

 

 

Il Gotlands Museum è un altro must see: una vera meraviglia per tutti gli appassionati della civiltà vichinga. La fondazione della struttura risale al 1875. Al suo interno, il Museo ospita permanentemente reperti archeologici compresi in un arco di tempo che va dall’Età della Pietra all’Era dei Vichinghi. Accanto ad essi spiccano fossili rinvenuti nel mar Baltico, pietre runiche, e nella sezione dedicata ai secoli più recenti la ricostruzione di una fattoria settecentesca fa bella mostra di sè. Nel Museo viene anche custodito il tesoro vichingo più vasto del mondo: una ricchissima collezione di manufatti e monete in argento e bronzo.

 

 

La Cattedrale è famosa per le sue guglie, un dettaglio inconfondibile e iconico che simboleggia la città di Visby. Destinata ai mercanti tedeschi della Lega Anseatica, la chiesa fu inaugurata nel 1190. Nel 1125 venne dedicata a due tipologie di fedeli, gli abitanti di Gotland e i forestieri; a officiare la messa erano ministri di culto differenti. Nel 1500 le fu conferito lo status di Cattedrale. Questa maestosa chiesa medievale, che nel tempo ha conosciuto molte modifiche, viene tuttora utilizzata. Gli stili predominanti nella sua architettura sono il romanico e il gotico. A Visby esiste circa una decina di ulteriori chiese medievali, ma di esse rimangono solo le rovine. Le più rappresentative sono quelle delle chiese di San Nicola, San Clemente e Santa Caterina.

 

 

Nel Botaniska Tradgarden, il giardino botanico, è possibile effettuare una full immersion nella natura. Sorto nel 1855, si trova nei paraggi del mare; lo contraddistingue un vero e proprio tripudio di verde, piante e fiori esotici, prati tenuti in modo impeccabile. All’interno del giardino sono situate le suggestive rovine della chiesa di Sankt Olof.

 

 

Se siete appassionati del senso del mistero e della cultura ancestrale di quest’isola svedese, non mancate di visitare i suoi labirinti. Si trovano nei pressi della città di Vilby, e nella riserva naturale di Galberget è collocato il più celebre. I labirinti, denominati Trojaborg, sono stati costruiti in tempi remotissimi formando linee quasi circoncentriche con una serie di massi e pietre posati sulla terra. Ma a cosa servivano questi labirinti di sassi? Lo scopo era quello di farvi rimanere intrappolate la sfortuna e le entità malvagie. La maggior parte dei Trojaborg risale al Medioevo, e un buon numero di essi venne realizzato in prossimità delle aree costiere: i pescatori avevano l’abitudine di entrare in un labirinto poco prima di salpare, per propiziarsi una pesca fruttuosa e le migliori condizioni di navigazione; appena finivano di percorrerlo, correvano in tutta fretta sulla loro barca affinchè i troll, le entità malvagie e la malasorte rimanessero imprigionati nel labirinto. Il Trojaborg della riserva naturale di Galberget è stato scoperto nel 1740 e si pensa che sia stato realizzato nel Tardo Medioevo.

 

 

Accanto ai labirinti, a Gotland troviamo anche le navi di pietra, monumenti funerari tipicamente scandinavi dell’Età del Bronzo. All’interno di questi spazi composti da pietre conficcate nel terreno che riproducono la forma di una nave, si seppellivano i notabili della comunità. La forma del monumento serviva a garantire una buona traversata verso l’altra dimensione. Sull’isola, potrete ammirare le navi di pietra nei dintorni di Gnisvärd: una quarantina di case, tradizionali e coloratissime, abitate dai pescatori. Gnisvärd, villaggio estremamente suggestivo, è diventato celebre anche per la prosperosa pesca di aringhe.

 

 

Spostandoci verso la costa, incontriamo un altro tipo di roccia: i raukar, formazioni calcaree dalle forme alquanto bizzarre. Sull’isola di Fårö, di cui vi ho già accennato, si trovano le più spettacolari. Somigliano a colossi di pietra, e la leggenda vuole che il loro sguardo sia costantemente rivolto a Thor, figlio di Odino, divinità norrena del tuono e del fulmine. Fårö conta solo cinquecento abitanti, ma possiede un fascino unico: è selvaggia, incontaminata, vanta un mare cristallino, spiagge con dune di sabbia e un’esplosione di verde rigoglioso. Qui vivono le tipiche pecore di Gotland, che sfoggiano un riccioluto pelo grigio, e i rami degli alberi sembrano torcersi con il vento. Non è un caso che questa sorprendente isoletta sia stata scelta da Ingmar Bergman come location di molti suoi film: ricordiamo ad esempio “Persona” (1966), “L’ora del lupo” (1968) e il famosissimo “Scene da un matrimonio” (1973). Innamorato di Fårö, Bergman decise di viverci fino alla sua morte. Sull’ isola, in suo onore, è sorto il Bergman Center. La struttura include un cinema, una biblioteca interamente incentrata su Ingmar Bergman, e al regista svedese vengono dedicate mostre che celebrano il suo rapporto con Fårö. Esiste anche la possibilità di svolgere dei workshop creativi.

 

 

Tornando a Gotland, vale la pena di fare una visita a Villa Villacolle: è la casa dove venne ambientato il celebre telefilm “Pippi Calzelunghe”, ispirato al personaggio creato negli anni ’40 dalla scrittrice svedese Astrid Lindgren. Villa Villacolle si trova a una manciata di chilometri da Visby, precisamente all’interno del Kneippbyn Resort, un parco dei divertimenti per bambini che comprende un campeggio, un parco acquatico, piscine, scivoli d’acqua e giochi vari. C’è anche la possibilità di praticare windsurf, dato che il mare è a pochi passi dal Resort. Pippi Calzelunghe, in questo luogo, viene omaggiata con numerose e costanti pièce teatrali.

 

 

Veniamo ora a una delle eccellenze di Gotland: la buona cucina. Gotland straripa di ristoranti e bistrot, e nel 2013 è stata addirittura nominata Capitale Culinaria della Svezia. Il clima temperato dell’isola, infatti, rende il suolo particolarmente fertile. Proliferano la verdura, la frutta, le mele in particolare: il maggior produttore di sidro di tutta la Svezia, Halfvede Musteri, non a caso si trova proprio a Gotland. Ma soprattutto, Gotland è un autentico paradiso dei tartufi. Tutti gli anni ne vengono raccolti tra i sette e gli otto quintali, e pare che a Stoccolma siano richiestissimi. Sull’isola sono presenti anche diversi vigneti, e si produce il vino più a nord del mondo. Ma anche la birra non scherza: Gotland vanta la maggior densità di birrifici per abitanti di tutta l’Europa. E siccome in Svezia le bevande contenenti alcol in una percentuale maggiore al 3,5% sono proibite, un birrificio ha lanciato la Sleepy Bulldog, birra analcolica dal gusto squisito. Se adorate i dolci non perdetevi la saffranspannkaka, una torta-pancake allo zafferano tipica dell’isola: viene servita con panna montata e marmellata di more, ed è a dir poco irresistibile.

 

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Foto del Trojaborg di Arkland, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Foto della nave di pietra di Jürgen Howaldt, CC BY-SA 2.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/de/deed.en>, da Wikimedia Commons

Foto della Saffranspannkaka di Toyah, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

 

Il luogo: il Mediterraneo e le sue isole

 

Gli antichi romani lo avevano battezzato Mare Nostrum, e ciò la dice lunga sulle civilità millenarie che hanno vissuto sulle sue sponde e sulle sue isole. Il mar Mediterraneo, infatti, lambisce le coste dell’ Europa, dell’Africa del Nord e dell’Asia Occidentale: non è un caso che il suo nome provenga dal latino Mediterraneus, ossia “in mezzo alle terre”. Vanta litorali che si snodano per una lunghezza pari a 46.000 km e una profondità media di 1500 m, mentre la sua superficie misura 2.500.000 km quadrati. Ma oggi siamo qui non tanto per parlare del Mediterraneo, bensì delle sue isole. Perchè sono circa 200 e di rara meraviglia, eterogenee eppure accomunate da paesaggi incredibili e dalle tracce delle antiche culture con cui sono venute a contatto. Le principali caratteristiche delle isole del Mediterraneo sono la natura lussureggiante e il mare di un turchese sbalorditivo, che unitamente alle numerose baie, all’estrema verietà delle coste e ai suggestivi villaggi dei pescatori danno vita a scenari dall’immenso fascino.

 

 

Parlare di tutte le isole del Mediterraneo sarebbe impossibile. Una selezione si rende obbligatoria, ma intanto vediamo quali sono quelle che vantano la maggiore superficie: la Sicilia (25.426 km quadrati) è al primo posto, seguita dalla Sardegna (24.100, 02 km quadrati), da Cipro (9251 km quadrati), dalla Corsica (8681 km quadrati) e da Creta (8336 km quadrati). Per quanto riguarda alcune delle isole imperdibili del Mediterraneo, invece, il nostro itinerario partirà da occidente e si concluderà ad oriente. Iniziamo con l’arcipelago delle Baleari, comunità autonoma della Spagna che ha per capoluogo Palma di Maiorca.

Maiorca

 

L’isola più grande dell’arcipelago delle Baleari è un incantevole mix di attrattive paesaggistiche, storiche, artistiche e culturali. Spiagge da sogno, calette, scogliere rocciose, mare cristallino, immensi aranceti immersi in una natura rigogliosa e città millenarie come Palma di Maiorca sono solo alcune delle sue meraviglie. Palma coniuga sapientemente la ricchezza del suo patrimonio culturale con il divertimento. La splendida Cattedrale gotica di Santa Maria de Palma è il monumento più iconico della città e si trova proprio accanto al Palazzo dell’Almudaina, un’ ex fortezza araba dove i reali di Spagna trascorrono le vacanze estive.

Ibiza

 

Considerata l’isola della nightlife per eccellenza, Ibiza è in realtà molto di più. Vanta un panorama naturale straordinario, una serie di grotte da mozzare il fiato, pinete che incorniciano splendide insenature e una campagna costellata di candidi casali rustici. Per saperne di più sulla “Isla Blanca”, rileggetevi qui l’articolo che le ho dedicato un anno fa. Vorrei invece approfondire l’aspetto bohémien che ha sempre aleggiato sull’isola, meta prediletta degli hippies sin dai primi anni ’60: la natura incontaminata e l’aria di libertà che si respirava in questo luogo non ancora invaso dal turismo di massa la resero il rifugio ideale dei figli dei fiori. Le tracce del “movimento” sono evidenti soprattutto nei mercatini hippy di Las Dalias, Playa d’en Bossa, San Jordi e Punta Arabì, dove è possibile acquistare coloratissimi capi e accessori dell’epoca, gioielli esotici, oggetti artigianali, stravaganti strumenti musicali e memorabilia di ogni tipo.

Formentera

 

Un mare turchese, incantevole, come quello che circonda gli atolli tropicali; spiagge bianche che si snodano per chilometri e chilometri; una natura selvaggia, allo stato brado: sono le caratteristiche principali di Formentera, 115 km quadrati di isola che la rendono la quarta, in ordine di grandezza, dell’arcipelago delle Baleari. Sport acquatici come lo snorkeling e la vela sono molto praticati, lungo le sue coste. Tra le spiagge da non perdere rientrano Playa de Ses Illetes, Playa de Es Pujols, Cala Saona e Playa de Llevant, perfette per chi adora coniugare mare, sole e relax.

 

Sardegna

 

E’ un’isola ricca di tutto ciò che si può desiderare in vacanza: splendide spiagge bianche (non è un caso che Lina Wertmuller girò qui, precisamente a Cala Luna, il film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di Agosto”, con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini), baie che si insinuano inaspettate, spettacolari scogliere, mare che sfoggia le più intense sfumature di smeraldo e di turchese. L’intero territorio è cosparso delle tracce di una civiltà antichissima che vede nei nuraghi la sua espressione più pregnante. Alla mondanità della Costa Smeralda si contrappongono paesaggi di una selvaggia rigogliosità naturale: l’interno, con le sue montagne ricoperte dai boschi di leccio, abbonda di villaggi incastonati in scenari mozzafiato ed è popolato da una fauna sbalorditiva. Qualche esempio? Gli asini albini dell’Asinara, i cervi sardi del monte Arcosu (a rischio estinzione), i fenicotteri rosa che proliferano negli stagni della Sardegna del Sud. A tanta meraviglia si aggiunge una tradizione culinaria che non ha eguali in quanto a sapori e varietà di proposte.

 

Capri

 

Esclusiva, elegantissima, mondana: Capri è, da sempre, una delle mete del jet-set internazionale. Si trova al largo del Golfo di Napoli e vanta bellezze scolpite nella roccia quali i Faraglioni, l’ Arco Naturale e la Grotta Azzurra, a cui è possibile accedere unicamente con una barca a remi. Al suo interno, il mare turchese crea incredibili giochi di riflessi sulle pareti della cavità carsica: l’effetto è mozzafiato, pura magia acquatica. Tra i luoghi più iconici dell’ isola rientrano la celebre Piazzetta, un must per incontrarsi e socializzare, ma anche le viuzze pavimentate a ciottoli, le botteghe di sandali capresi (rigorosamente realizzati a mano), i vasti limoneti da cui si ricava il limoncello, un liquore noto in tutto il mondo e ideato proprio a Capri, da Maria Antonietta Farace, nei primi anni del 1900. Le ultimissime tendenze dell’isola vedono ancora una volta protagonista il limone, ma in versione ripiena: farcito, cioè, di sorbetto, gelato al limone o spritz al limoncello.

 

Sicilia

 

I Fenici, i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi e i Normanni sono solo alcuni dei popoli che, nel corso dei secoli, l’hanno conquistata. La Sicilia conserva meravigliose testimonianze storiche, architettoniche, artistiche e culturali di quelle dominazioni: è stata senza dubbio un crocevia di tutte le più antiche civiltà del Mediterraneo, e ciò le ha conferito una ricchezza straordinaria. In tal senso, diventa tassativa una visita alle otto città barocche della Val di Noto (Caltagirone, Militello in Val di Catania, Catania, Palazzolo, Ragusa, Modica, Noto e Scicli), ma anche ai templi dorici della Valle dei Templi, Patrimonio dell’Umanità Unesco. Vibrante e passionale, l’isola più grande del Mediterraneo è intrisa di un fascino potente. Le attrattive naturali, ovviamente, ne sono parte integrante: il vulcano principale, l’Etna, predomina maestoso, affiancato da spiagge selvagge e villaggi suggestivi. Le tradizioni e una gastronomia celebre in tutto il mondo rendono la Trinacria (così la chiamarono i Greci), un territorio decisamente unico.

 

Malta

 

Così come la Sicilia, Malta è stata profondamente influenzata dalle culture dei popoli che l’hanno dominata: al principio i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani, gli Arabi, poi i Normanni, gli Aragonesi, i Cavalieri di Malta, i Francesi e gli Inglesi. La capitale, La Valletta, è una splendida città barocca diventata Patrimonio dell’Umanità Unesco al pari dell’ Ipogeo di Hal Saflieni (una struttura sotterranea risalente alla Preistoria), e al tempio megalitico di Hagar Qim. Impreziosita da un mare mozzafiato, spiagge paradisiache, baie e insenature rocciose, Malta vanta un autentico must see: la Grotta Azzurra, costituita da sette grotte marine in cui l’acqua sfoggia una favolosa tonalità cobalto.

 

Cipro

 

Tanto antica quanto magnifica, Cipro è ricca di spiagge da sogno e una costa che alterna la sabbia dorata ai promontori di roccia modellati dal tempo. Il mare è di un azzurro intenso. Nelle zone interne, aree archeologiche e secolari manieri testimoniano le remote origini dell’isola, suddivisa in due parti di diversa appartenenza: greco-cipriota e turco-cipriota. A Cipro, le zone decretate Patrimonio dell’Umanità Unesco sono molteplici : la città di Paphos, affacciata sul mare, il sito archeologico di Choirokoitia e la maestosa necropoli denominata Tombe dei Re. Sport acquatici come l’immersione sono molto praticati lungo la costa di Larnaca, mentre nell’interno prevale il trekking in mezzo alla natura. Il Meze, un cibo tipicamente cipriota, viene consumato nelle taverne tradizionali e non è raro che il pasto duri un pomeriggio intero.

 

Santorini

 

Appartenente all’arcipelago greco delle Cicladi, Santorini è una delle isole più caratteristiche e più amate. Le case immacolate scavate nella roccia scura, i tetti a cupola blu cobalto la rendono unica e inconfondibile. Di origine vulcanica, l’isola nel corso dei secoli è stata plasmata dalle numerose eruzioni. Le città principali sono tre: Fira, la capitale, Oia, famosa per i suoi mulini a vento, e Imeroviglia. Da ognuna di esse è possibile ammirare la meraviglia del tramonto sul mare Egeo, un’esperienza che non ha eguali. Il vino, prodotto nei vigneti dell’isola, è una delle eccellenze di Santorini. La caldera è assolutamente da vedere, e lo si può fare via mare o via terra. Le spiagge più particolari sono la spiaggia di Perissa, di sabbia nera, e quella di Vlychadao, di sabbia rossa. Il percorso di trekking che congiunge Oia e Fira, lungo nove chilometri,  è considerato tra i più suggestivi del Mediterraneo.

 

Patmos

 

Situata nel mare Egeo, è considerata l’isola dell’Apocalisse in quanto la parte conclusiva della Bibbia venne scritta proprio a Patmo, esattamente nella Grotta dell’ Apocalisse. La Grotta, visitabile, è collocata a poca distanza da Chora, la capitale dell’ isola. Un punto di forza di Patmo sono le piccole cale, numerosissime: tra le più belle figurano Petra, Diakofti, Psili Ammos, da visitare preferibilmente in sella a un motorino per poter percorrere con facilità tutta l’isola.

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Cantine Aperte 2024, un weekend all’insegna del vino e della sua cultura

 

Torna Cantine Aperte, un weekend completamente all’insegna della cultura del vino e dell’enoturismo. L’appuntamento, organizzato dal Movimento Turismo del Vino, è arrivato alla sua 32esima edizione e si prevede che anche stavolta farà l’en plein di visitatori. Tra oggi e domani, oltre 500 cantine apriranno i battenti in tutto lo Stivale: questo fine settimana sarà una vera e propria festa che coinvolgerà i produttori e gli appassionati del vino. Il calendario comprende degustazioni, visite alle cantinepranzi e cene conviviali, picnic e aperitivi organizzati nei vigneti, tour nei territori dell’eccellenza enologica italiana, passeggiate alla scoperta delle vigne, ma anche escursioni nei borghi delle “lande del vino”. Grazie ai pranzi e ai picnic sarà possibile assaporare le tipicità enogastronomiche di ogni regione, mentre le visite ai borghi permetteranno di ammirare le meraviglie paesaggistiche e di esplorare i musei. Tutte le regioni d’Italia prenderanno parte a questa straordinaria kermesse: dal nord al sud, la nostra penisola si prepara ad intonare un’ode al vino.

 

 

“Anche questa edizione di Cantine Aperte sarà una grande occasione per celebrare il meglio dell’enoturismo nazionale integrando la passione per il vino all’approfondimento della storia e delle tradizioni che sono dietro ogni produzione e tante attività naturalistiche, culturali e artistiche, organizzate con creatività dai produttori di ogni regione”, dichiara Nicola D’Auria, il Presidente del Movimento Turismo del Vino, nel comunicato stampa dell’ iniziativa. L’accoglienza e l’ospitalità sono i punti cardine di una manifestazione che punta ad un’offerta enoturistica sempre più immersiva e diversificata. Non solo vino, insomma: ad essere coinvolti saranno tutti i prodotti locali. L’olio evo, ad esempio, e poi il miele, i distillati, salumi e formaggi tipici, in un percorso sensoriale all’insegna dei sapori più pregiati.

 

 

Ma non è finita qui. Cantine Aperte 2024 si prefigge di regalarvi un weekend ricco di relax e divertimento all’aria aperta. Gli intinerari enoturistici delle varie regioni, oltre al wine trekking, includono le attività più disparate: passeggiate a cavallo, escursioni in bici, visite nei boschi, laboratori artistici, aperitivi sullo sfondo del tramonto, camminate romantiche in riva al mare, corsi di ceramica, approfondimenti sull’apicoltura…Per conoscere dettagliatamente i programmi regionali e le cantine che prendono parte all’evento, è sufficiente collegarsi al sito ufficiale del Movimento Turismo del Vino. Questa due giorni di festa non mancherà, inoltre, di ribadire i valori dell’associazione no profit che la organizza: il consumo responsabile del vino e il bere moderato, must imprescindibili per godere di un’incredibile esperienza che permette di esplorare a tutto campo il mondo del “nettare degli dei”.

 

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Maggio, il look del mese

 

Un verde splendente, luminoso, che ricorda le sconfinate distese dei prati in Primavera. E a impreziosirlo, un tripudio di fiori rosa pastello. Ma il dettaglio che cattura immediatamente l’occhio, che innamora a prima vista, sono le due grandi applicazioni floreali sullo scollo e sul davanti dell’abito: impalpabili e vaporose, rosa anch’esse, donano al look una marcia un più. Per rappresentare il mese di Maggio ho scelto un long dress ampio, arioso e completamente abbottonato frontalmente; le maniche a sbuffo, che arrivano a metà dell’avambraccio, amplificano ulteriormente i suoi volumi. A firmare l’abito è Lebor Gabala, un nome che è una sorta di trascrizione fonetica di “Leabhar Ghabàla na hEireann”: il titolo in irlandese, cioè, de “Il libro della presa dell’Irlanda”, un volume dell’ XI secolo che narra (sia in prosa che in versi) la storia e la mitologia dell’ Isola di Smeraldo a partire dalle origini fino al Medioevo. Dietro al marchio Lebor Gabala si cela la designer spagnola Maite Muñoz, che l’ha fondato oltre 20 anni orsono. La filosofia del brand è incentrata sull’atemporalità. Lebor Gabala propone capi senza tempo, unici, preziosi, ma immuni dalle concessioni alle mode del momento. Sono pensati apposta per essere indossati e rindossati a proprio piacimento, anche dopo anni, prescindendo dalle tendenze. La qualità e la cura dei dettagli rappresentano due punti di forza della griffe, portabandiera di un’eleganza senza tempo e magnificamente intrisa di accenti accattivanti.

 

La colazione di oggi: la casetta di pan di zenzero, tra tradizione, arte e gusto

 

Tradizione natalizia tipica della Germania e dell’ Europa del Nord, la casetta di pan di zenzero è diffusissima anche negli Stati Uniti. In tedesco si chiama  Lebkuchenhaus o Pfefferkuchenhaus  e viene considerato il dolce più goloso e conosciuto preparato con il famoso impasto speziato (“pepparkakor” il suo nome in svedese). Ho già parlato di questa pasta biscotto a base di miele, melassa e zucchero di barbabietola aromatizzati con zenzero, cannella e chiodi di garofano (rileggi l’articolo qui), stavolta voglio soffermarmi sulla casetta e sulla sua storia. Prepararla non è molto difficile, sono le decorazioni a renderla un’opera d’arte: la pasta dev’essere compatta, dopodichè si taglia in modo da formare le parti di una casa. I pannelli, una volta cotti, si assemblano delineando la struttura di un’abitazione. Per unirli vengono usati la glassa o lo zucchero fuso; la glassa, ricoperta di zucchero a velo, serve anche a creare l’effetto neve o dettagli specifici del dolce, come le tegole. Confetti, zuccherini colorati e caramelle completano l’opera, dando un aspetto oltremodo invitante alla casetta. Lo zenzero, che ha una lunga durata di conservazione, contribuisce a mantenerla integra per molto tempo.

 

 

La preparazione dell’ impasto si avvale, oltre che del pan di zenzero, di farina, uova, burro, noce moscata e cacao; al fine di rendere la pasta sufficientemente compatta, la si lascia indurire per alcune ore. Con il pan di zenzero si possono realizzare dolcetti dalle forme più disparate: alberi di Natale, stelle, cuori (basti pensare a quelli, tipici, dei mercatini natalizi tedeschi), renne, fiocchi di neve, animali, cavalieri, santi protettori sono ed erano le più diffuse. Questi dolci cominciarono ad essere prodotti in Germania sotto forma di biscotti (i Lebkuchen) tra il XIII e il XIV secolo. Norimberga, in particolare, considerata la “capitale mondiale del pan di zenzero”, divenne celebre per i capolavori artistici che i fornai realizzavano con il pan di zenzero nel 1600. Nel resto d’Europa, la golosissima pasta biscotto arrivò nel XIII secolo. In Svezia il “pepparkakor” venne diffuso dagli immigrati tedeschi, mentre pare che gli omini al pan di zenzero fossero abitualmente preparati alla corte di Elisabetta I Tudor a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

 

 

Nel XVII secolo, produrre dolci al pan di zenzero si tramutò in una professione che rientrava in una corporazione specifica. Le creazioni erano elaboratissime, impreziosite da elementi ornamentali, e coniugavano il gusto con la pura bellezza; a Natale, venivano vendute soprattutto nei mercatini e nelle bancarelle poste in prossimità delle chiese. La produzione “artistica” di pan di zenzero, in Europa, divenne una realtà consolidata nelle città di Norimberga, Lione, Praga, Pest, Torùn e in molti altri centri sparsi tra la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca. Con la massiccia emigrazione tedesca negli Stati Uniti, successivamente, la tradizione invase paesi a stelle e strisce come il Maryland e la Pennsylvania. Ma come nacque l’usanza delle casette al pan di zenzero?

 

 

La loro origine viene fissata a Norimberga, dove tra il 1500 e il 1700 i mercanti erano soliti importare enormi quantità di spezie quali appunto lo zenzero, la cannella, il pepe e le mandorle, mentre l’apicoltura a cui era consacrata la foresta reale garantiva una produzione di miele continua. Secondo una leggenda, la creazione delle prime casette risalirebbe proprio a quell’epoca: un fornaio che viveva nella città tedesca cominciò a prepararle sostituendo la farina con le mandorle per destinarle a sua figlia, affetta da una patologia rara. Secondo gli studiosi, invece, la casette al pan di zenzero vennero prodotte a partire dal 1800: in seguito alla pubblicazione della fiaba “Hansel e Gretel” dei Fratelli Grimm, nel 1812, un gran numero di fornai pensò di riprodurre la casa di leccornie con cui la strega attira i due protagonisti. Inutile dire che fu il pan di zenzero a plasmare quelle casette, che prontamente andarono a ruba. Questo dolce si impose durante le festività natalizie, e a tutt’oggi nulla è cambiato.

 

 

Nel 1800, le casette “raggiunsero” anche il Regno Unito: Thomas Hardy le cita in “Jude l’oscuro”, che apparve sotto forma di romanzo nel 1895, mentre nel ricettario “Dinner With Dickens: Recipes Inspired by the Life and Work of Charles Dickens”, uscito non molti anni orsono, la casetta di pan di zenzero è inclusa tra i dolci associati alla vita e all’opera di Dickens.

 

 

Oggi, a Norimberga vengono prodotte annualmente più di 70 milioni di casette. La città tedesca può essere considerata la città simbolo di questo dolce natalizio, che ha ottenuto peraltro il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Tuttavia, la gingerbread house rientra a pieno titolo anche tra le tradizioni natalizie del Nord Europa: il pan di zenzero, ricco di calorie, è un valido aiuto per contrastare le temperature polari della penisola scandinava. Nei paesi in cui la casetta è diffusa, inoltre, la tipicità gioca un ruolo molto importante. In famiglia, nei giorni che precedono il Natale, ci si riunisce tutti insieme per preparare il dolce; in Germania è possibile trovarlo in ogni mercatino nel periodo delle festività. In Svezia, la ricorrenza di Santa Lucia coincide con l’inizio della preparazione delle casette. In determinati luoghi vengono creati dei maestosi villaggi al pan di zenzero: il più grande a livello mondiale è Pepperkakebyen, costruito in Norvegia dagli abitanti di Bergen; notevoli e molto conosciuti sono anche Gingertown, la città di pan di zenzero realizzata a Washington, e il villaggio dell’ Hotel Marriott Marquis di New York, che contiene persino un treno.

 

 

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La colazione di oggi: il cacao in polvere, per un Natale delizioso ma non solo

 

Il cacao in polvere? Una golosità unica. E a Natale regna sovrano: lo troviamo tra gli ingredienti di un gran numero di dolci, oppure spolverato su deliziosi dessert. Può essere gustato anche in modo molto semplice, soprattutto a colazione. Ad esempio, sciolto in una tazza di latte caldo: chi non ha mai provato il celeberrimo Nesquik, protagonista di tutti i breakfast della nostra infanzia? I nutrizionisti, per iniziare la giornata, consigliano di utilizzare cacao in polvere in una dose pari a due cucchiaini da caffè. Di una cosa potete esser certi: i benefici sono garantiti. Perchè il cacao amaro abbonda di sostanze salutari per l’organismo. Il suo utilizzo risale alla notte dei tempi; i primi a scoprire le virtù della polvere di cacao furono i Maya. La coltivazione del Theobroma Cacao (nome botanico della pianta del cacao), infatti, ebbe inizio nel 1000 a.C. all’ interno della nota civiltà precolombiana. L’alimento arrivò in Europa nel 1500 ad opera dei Conquistadores spagnoli, ed è datata 1585 la traversata del primo carico di cioccolato dal porto di Veracruz, in Messico, a quello di Siviglia. Per saperne di più sulla storia del cacao potete far riferimento all’articolo che VALIUM ha dedicato ai vari tipi di cioccolato, lo rintracciate cliccando qui. Quello che mi interessa oggi, invece, è approfondire le portentose proprietà della polvere di cacao, ottenuta grazie a una lavorazione che coinvolge le fave contenute nei baccelli del Theobroma Cacao: i semi vengono sottoposti a fermentazione, essiccazione e tostatura per poi passare attraverso procedimenti di separazione dal guscio e successiva macinazione. Dopodichè, la massa di cacao originata dai frammenti delle fave viene pressata allo scopo di separare la polvere dai lipidi costituiti dal burro di cacao. Il cacao in polvere, quindi, è contraddistinto da livelli molto esigui di grassi e da un aroma straordinariamente intenso, quello del cacao amaro.

 

 

Ma quali virtù possiede, esattamente, la polvere di cacao? Innanzitutto è ricca di polifenoli, dei potenti composti antiossidanti che espletano anche funzioni antinfiammatorie e cardioprotettive. I polifenoli, inoltre, hanno il potere di ridurre livelli troppo elevati di pressione sanguigna contrastando l’ipertensione. Le benefiche proprietà di questi antiossidanti, presenti nel cacao in polvere in grande quantità, si estendono anche alle lipoproteine LDL, dense di colesterolo che diffondono nei tessuti periferici: i polifenoli sono in grado di ridurle ed esercitano una funzione anti-aggregante, contribuendo a mantenere il sangue più fluido con notevoli vantaggi per il cuore e i vasi sanguigni. Persino le funzioni cognitive risentono delle salutari virtù dei polifenoli; attraversando la barriera ematoencefalica, le loro proprietà antiossidanti determinano un miglioramento del flusso sanguigno nel cervello e contrastano le patologie neurovegetative. Come avviene per il cioccolato fondente, il cacao in polvere ha la capacità di incentivare il buonumore tenendo a debita distanza la depressione: ciò è dovuto alla teobramina e al triptpfano contenuti nel prodotto; il triptofano, in particolare, è il precursore della serotonina, il cosiddetto “ormone della felicità”. In più, gustare del cacao in polvere non comporta gli inconvenienti associati al consumo delle tavolette di cioccolato. I polifenoli, rallentando l’assorbimento intestinale del glucosio, scongiurano le impennate glicemiche e migliorano la sensibilità insulinica con effetti positivi anche in chi è affetto da diabete. Un’ulteriore proprietà di questi composti antiossidanti riguarda la lotta all’obesità: altamente saziante, il cacao in polvere riduce l’appetito migliorando il profilo metabolico e favorendo il mantenimento della linea.

 

 

Appurato che il consumo di polvere di cacao apporta innumerevoli benefici, vediamo ora come utilizzarlo a colazione. E’ importante dire che sarebbe opportuno scegliere un cacao privo di zuccheri aggiunti, conservanti e latte in quantità eccessive per non intaccare i salutari effetti dei polifenoli (un suggerimento in tal senso? Provate il cacao in polvere bio). A Natale, ma non solo, è possibile preparare moltissimi dolci con la polvere di cacao: biscotti natalizi dalle forme più svariate, torte, brownie, tiramisù…Consumata nella cioccolata calda accentua il suo delizioso gusto, aggiunta al latte caldo, allo smoothie o ai cereali dona loro un sapore ricco, del tutto speciale. Gli sportivi “spruzzano” di cacao in polvere i frullati, oppure lo degustano con le barrette proteiche: la potente energia che è in grado di donare questo alimento è cosa nota. E se in occasione delle feste volete esagerare, prendete la polvere di cacao e cospargetela sui brownie, i famosi dolcetti made in USA. Sono golosissimi, interamente al cioccolato e a forma di piccoli rettangoli: trovate la ricetta qui.

 

 

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VALIUM accende le luminarie

 

“I cieli grigi e le luci di dicembre sono la mia idea di gioia segreta.”
(Adam Gopnik)

E’ arrivato il momento di accendere le luminarie! VALIUM, come ogni anno, inaugura il periodo che ci conduce al Natale risplendendo di mille luci simboliche e beneaugurali. Oggi prende ufficialmente il via lo Speciale Natale del blog: d’ora in poi si succederanno articoli che, sia che appartengano alle consuete rubriche o meno, ruoteranno attorno alla festa più magica dell’anno. Ci occuperemo di tradizioni, curiosità, viaggi, libri, usanze natalizie nel mondo, della storia e dell’iconografia del Natale. Senza naturalmente trascurare la moda, il beauty, il make up e tutto ciò che fa brillare, come una frizzante coppa di champagne, l’ultimo mese del calendario. Ma l’incanto di Dicembre, e chi segue VALIUM lo sa già, inizia molto prima del giorno della nascita di Cristo. Le settimane dell’Avvento abbondano di ricorrenze suggestive e celebrate dalla notte dei tempi. Due esempi su tutti? Santa Lucia, il Solstizio d’Inverno…Ne parleremo ancora, anche se da un’angolazione diversa. Rimanete sintonizzati su VALIUM per riscoprire, giorno dopo giorno, il fascino sempiterno del “Christmas Time”: perchè, come Leopardi proclamava ne “Il sabato del villaggio”, l’attesa della festa è essa stessa gioia e felicità.

 

 

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