La colazione di oggi: le castagnole, il dolce-simbolo del Carnevale

 

Carnevale è una ricorrenza nota anche per la bontà dei suoi dolci: le castagnole, le frappe, le chiacchiere, le frittelle e la cicerchiata rappresentano il coté goloso della festa più folle dell’ anno. Mi soffermerò sulle prime, le castagnole appunto, in quanto svariate regioni italiane ne rivendicano la paternità e sono ormai il dolce-emblema del periodo che precede la Quaresima. Ne esistono diverse versioni, ma due elementi fanno immancabilmente da leitmotiv: la forma tondeggiante e la frittura in olio bollente. Possono essere con o senza ripieno; nel primo caso, generalmente si farciscono con della crema pasticcera, panna o cioccolata. Nel secondo, vengono ricoperte di miele. Quasi tutte le varianti del dolce, comunque, sono accomunate da una guarnizione a base di zucchero a velo o di alchermes. Anche gli ingredienti restano perlopiù gli stessi. Farina, uova, burro e zucchero si amalgano con il lievito, una scorza di limone, l’ essenza di vaniglia, il liquore (rum, anice o alchermes) o il latte per creare un impasto soffice. Alcune tipologie di castagnole vengono cotte nel forno anzichè in olio bollente. In tutti i casi, il risultato è estremamente invitante: un delizioso dolcetto sferico ricco di squisiti ripieni o guarnizioni. Il nome “castagnola” deriva proprio da questa conformazione; le dimensioni mini e la rotondità, infatti, evidenziano non poche similitudini tra la ghiottoneria carnascialesca e la castagna.

 

 

Le regioni che includono le castagnole tra i propri dolci tradizionali sono molteplici: la Lombardia, il Veneto, la Liguria, l’ Emilia Romagna, le Marche, il Lazio, l’ Umbria e l’ Abruzzo le hanno elette a suprema leccornia del Carnevale, ma la loro presenza è massiccia anche in Campania. Le origini del dolcetto appaiono controverse, tuttavia sembra certo che nacque nel Settentrione; non a caso, la castagnola è stata attestata “De.CO.” (denominazione comunale di origine) del Comune di Ventimiglia. Il periodo storico a cui risale si colloca a cavallo tra il 1600 e il 1700: ricette di castagnole sono state rinvenute nel 1684 e nel 1692 tra i manoscritti dei cuochi Nascia e Latini, rispettivamente al servizio di casa Farnese e della famiglia reale dei D’Angiò. Entrambi citavano gli “struffoli alla romana”, ma di fatto (dati gli ingredienti e la preparazione) si trattava di castagnole vere e proprie. Nel tardo ‘700, un libro conservato nell’ Archivio di Stato di Viterbo conteneva quattro differenti ricette del dolce carnascialesco, compresa la versione cotta al forno. Da antichi manuali ottocenteschi pare invece che derivebbero le ricette utilizzate attualmente. Ma l’ esistenza delle castagnole è stata attestata, in realtà, in epoche ancora più remote di quelle citate finora: un prototipo piuttosto rudimentale veniva preparato già nell’ Antica Roma.

 

 

In questa puntata della rubrica “La colazione di oggi” non sto ad elencarvi nè le proprietà nè i benefici del dolce in questione, come ho fatto anche in occasione dei cupcake di San Valentino. E’ chiaro che, di tanto in tanto, arricchire con delle castagnole il proprio breakfast è altamente benefico: sia per il palato, che in fatto di buonumore. A partire da oggi, che non a caso è Giovedì Grasso

 

 

Foto: la terza dall’ alto via Cleare Garofalo from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0, l’ ultima via Ted Eytan from Flickr, CC BY-SA 2.0

La colazione di oggi: la cioccolata calda, il “cibo degli dei”

 

E’ una delle declinazioni più golose del cioccolato, e già questo funge da garanzia: la cioccolata calda sembra creata apposta per la stagione invernale. Del cioccolato solido possiede i benefici, ma la sua consistenza liquida permette di sorbirla in tutto relax, comodamente, magari a colazione per farsi una coccola a base di dolcezza e di energia. Immaginate di gustarla davanti al camino, oppure in cucina, mentre dalle finestre penetra la luminosità della neve: sorseggiarla rimanda a sensazioni di piacere puro. I suoi ingredienti sono pochi, ma buoni. Latte, zucchero e polvere di cacao si fondono in un mix irresistibile da servire tassativamente caldo. Al momento di scegliere la polvere, puntate su quella che contiene la massima percentuale di cacao ed è scura il più possibile: corrisponde al cioccolato fondente, meno rielaborato e dunque maggiormente salutare. Come saprete, esistono svariati tipi di cioccolato. Il cioccolato fondente viene considerato il più “puro”, il cioccolato al latte è amalgamato al latte condensato mentre il cioccolato bianco, derivando da un impasto di burro di cacao e latte, è del tutto privo di polvere di cacao. Per analizzare i benefici della cioccolata calda, dobbiamo quindi riferirci alle proprietà del cioccolato fondente.

 

 

Affinchè sia sano al massimo, dovrebbe contenere almeno il 70% di cacao. Contenuto nei semi del Theobroma Cacao, una pianta originaria del Sudamerica, il cioccolato abbonda di grassi saturi e monoinsaturi (come l’acido oleico, ricco di proprietà antinfiammatorie), di minerali quali il potassio, il ferro, il magnesio e il rame. Particolarmente rilevanti sono però i polifenoli, dalle spiccate virtù antiossidanti. I flavonoidi, nello specifico, svolgono un ruolo basilare nella neutralizzazione dei radicali liberi, causa dello stress ossidativo e dell’ invecchiamento dell’ organismo. Grazie ai flavonoidi e all’ epicatechina, che mantiene le arterie coronarie ben dilatate, il cioccolato fondente si rivela un toccasana per l’ apparato cardiovascolare; a tutto ciò vanno sommati i benefici che comporta l’ abbassamento della pressione arteriosa. Un’ altra preziosa virtù del cioccolato fondente riguarda l’ ottimizzazione dei valori di colesterolo, con un calo significativo del colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) e un incremento del colesterolo HDL (o colesterolo “buono”). L’ effetto antistress dell’ alimento più goloso di tutti è ben noto: aumentando i livelli di serotonina, l’ “ormone del buonumore”, il cioccolato agisce come un autentico antidepressivo naturale. Questo alimento, inoltre, è particolarmente efficace nel prevenire le malattie neurovegetative. L’ ossido nitrico, del quale stimola il rilascio nel sangue, contrasta infatti la formazione di beta amiloide (la proteina responsabile del morbo di Alzheimer). Le proprietà dei polifenoli sono praticamente infinite: riducono l’ avanzamento delle patologie oncologiche, incentivano la produzione di insulina combattendo il diabete di tipo 2, arricchiscono la flora intestinale di lattobacilli e bifidobatteri. Per chi fa sport, i polifenoli si rivelano preziosi nel tenere a bada i radicali liberi che si attivano con l’ allenamento, mentre gli zuccheri forniscono una bomba di energia prima, durante e dopo l’attività fisica. In più, grazie all’ elevato numero di fibre contenute nel cioccolato, l’ appetito viene tenuto costantemente sotto controllo. Il cioccolato fondente favorisce anche un minor assorbimento dei grassi e dei carboidrati. Il risultato? Al contrario di quanto si possa pensare, non fa ingrassare e contribuisce al mantenimento del peso forma. Certo, va assunto in quantità ragionevoli: considerate che 100 g di cioccolato contengono 545 calorie.

 

 

Come gustare la cioccolata calda? E’ possibile scegliere differenti tipologie di latte, ad esempio quello di soia o di riso, per ottenere una bevanda “vegana” o destinata agli intolleranti al lattosio. Oppure, si può decidere di puntare sul latte parzialmente scremato per renderla meno calorica. Ma aromatizzare la cioccolata calda è davvero il top: cannella, zenzero e peperoncino le doneranno uno squisito sapore speziato, una scorza d’arancia e lo sciroppo d’acero saranno l’ optimum per arricchirla di un delizioso profumo invernale, mentre la panna e il caramello la doteranno di un’ opulenza del tutto speciale.

 

 

Passiamo ora ad uno degli argomenti più affascinanti relativi alla cioccolata calda, la sua storia. Che è una storia remotissima: basti pensare che ha radici presso le antiche civiltà precolombiane. Gli Olmechi, un popolo che si stanziò nel Messico centrale tra il 1400 e il 1500 a.C., erano già soliti coltivare e consumare cacao in modo massiccio. Ai Maya spetta l’ ideazione della cioccolata sotto forma di bevanda: arrostivano una mistura di cacao e fagioli, la insaporivano con un po’ di pepe e aggiungevano dell’ acqua per donarle una consistenza liquida. Il preparato si chiamava “xocoatl”, e rivestiva una valenza mistica tale da essere soprannominato “il cibo degli dei”.  I Maya, d’altronde, ai chicchi di cacao attribuivano un enorme valore: venivano utilizzati persino come valuta. Nel 1517, quando il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés approdò sulla costa messicana, iniziò ad apprendere usi e costumi dell’ Impero Azteco. Fu l’ Imperatore Montezuma a fargli assaggiare la “xocoatl” (o “chocoatl”), una bevanda deliziosa che mescolava cioccolato, spezie e vaniglia risultando soffice come il miele. Montezuma la considerava afrodisiaca e la consumava regolarmente prima degli “incontri galanti”. Con la conquista del Messico e la nomina di Cortés a governatore, quest’ ultimo inviò in Spagna cacao a profusione. Carlo V si innamorò talmente della cioccolata calda da decretarla “bevanda in” delle classi agiate; cominciò ad offrirla come dono di nozze ogni qualvolta un membro della sua casata si univa in matrimonio con un aristocratico europeo. La cioccolata calda si diffuse così in tutto il Vecchio Continente. E dato che l’ Imperatore manteneva rigorosamente segreta la ricetta della bevanda, svariate leggende cominciarono ad aleggiare sulla sua preparazione.

 

 

Nel 1563, anno in cui la capitale sabauda fu trasferita a Torino da Chambéry, il duca Emanuele Filiberto I di Savoia elesse la cioccolata calda a dessert ufficiale dei festeggiamenti. Un secolo dopo, in Inghilterra furono addirittura inaugurate delle “Chocolate House”, dove la cioccolata calda si sorbiva durante confronti e discussioni sui più disparati argomenti. Era il 1657 quando, a Londra, aprì i battenti la prima Chocolate House. Il costo della bevanda, tuttavia, era talmente elevato da destinarla unicamente all’ élite. Ai britannici va anche il merito di aver introdotto il latte al posto dell’ acqua con l’ intento di impreziosirne la ricetta. La prima cioccolata calda prodotta meccanicamente risale al 1828: nei Paesi Bassi fu lanciata un’ apposita macchinetta. Il gusto della bevanda originale, però, risultò alterato e la differenza non passò inosservata. Oggi, la cioccolata calda è diffusa in tutto il mondo, e negli Stati Uniti d’America è celebratissima: viene arricchita di innumerevoli ingredienti, ma la panna – in barba alle calorie! – rappresenta un’ aggiunta pressochè fondamentale.

La colazione di oggi: il torrone, tra storia e leggenda

 

 

Il torrone è un altro cult natalizio che va tassativamente approfondito. Anche perchè pare che il suo consumo, durante le feste, raggiunga la ragguardevole proporzione del 74% rispetto agli altri dolci del periodo. Parlando di torrone, tuttavia, in molti tendono a soffermarsi solo sul suo alto contenuto calorico; ma questo alimento è anche estremamente ricco di proprietà e benefici. Innanzitutto, il torrone è una vera e propria miniera di proteine: basti pensare alle mandorle e alle uova che include tra i suoi ingredienti. Le mandorle sono dei potenti energizzanti e abbondano di minerali quali il potassio, il ferro e il magnesio. Ma non solo. Contribuiscono a diminuire i livelli del colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) incrementando quelli degli antiossidanti, fondamentali nei contrastare i danni dei radicali liberi. La presenza dei carboidrati, degli acidi grassi essenziali e di sette amminoacidi essenziali costituisce un ulteriore punto di forza del torrone. Un gran numero di benefici si associa a tutte le versioni del dolce. Il torrone alle noci o alle nocciole, ad esempio, protegge dalle patologie cardiovascolari; il torrone al cioccolato, grazie alla massiccia presenza di polifenoli antiossidanti, svolge la stessa funzione limitando l’ ossidazione del colesterolo “cattivo”.

 

 

Va ricordato che il torrone viene preparato con uno squisito impasto di mandorle tostate, zucchero, miele e albume d’uovo; le differenti tipologie del dolce includono l’aggiunta di frutta secca come le noci, i pistacchi, le nocciole…Due, invece, sono le sue versioni classiche: il torrone bianco alle mandorle, friabile o duro, e quello alle nocciole, a base di cioccolato o cioccolato gianduia, solitamente dalla consistenza morbida. Esiste poi anche un mix dei due, il torrone bianco completamente ricoperto di cioccolato fondente. Il tasso di golosità, insomma, rimane inviariato. Non variano neppure i due strati di ostia applicati sopra e sotto il prodotto, un’ altra caratteristica di questo amatissimo dolce. Per godere appieno delle sue proprietà, l’ ideale sarebbe gustare un buon torrone artigianale: gli ingredienti naturali e l’assenza di prodotti chimici sono le sue principali virtù, un binomio che esalta le doti nutrienti dell’ alimento senza alterarne il gusto e mantenendolo salutare. Consumare il torrone a colazione è un ottimo modo per affrontare la giornata con una sferzata di energia, ma non esagerare nelle porzioni (una regola applicabile a tutti i dolci) rimane un must fondamentale. 

 

 

Ma qual è la storia del torrone? A quali leggende rimandano le sue origini? Tanto per cominciare, il nome “torrone” proviene dal latino “torrēre”, ovvero “abbrustolire”; questo verbo, com’è facilmente intuibile, si riferisce alla tostatura della frutta secca che troviamo tra i suoi ingredienti. Alcuni ipotizzano anche una derivazione dallo spagnolo “turròn”, da “turrar” che significa “arrostire”. Quel che è certo è che il torrone ha radici antichissime e che molte regioni italiane se lo contendono in qualità di “dolce tipico”. Il fatto che fosse diffuso in tutta la penisola ha dato adito alla tesi secondo cui gli antichi romani ne avessero divulgato la ricetta: in effetti, Marco Terenzio Varrone detto “Il Reatino” citò il “cuppedo” in uno dei suoi scritti  (e “cupeto” è il nome dato al torrone nella zona tra Benevento e Avellino) già nel 116 a.C.. Il letterato sosteneva che i creatori del dolce fossero i Sanniti, e che i Romani avessero appreso proprio durante le guerre sannitiche della sua esistenza; quella leccornia a base di miele, albume e semi oleosi li conquistò immediatamente. Il gastronomo Apicio, non a caso, descrisse un dolce romano chiamato “nucatum” poco tempo dopo. I suoi ingredienti? Miele, albume d’uovo e noci, una delle tipiche ricette del torrone odierno. Ma c’è chi sostiene che il torrone, in realtà, abbia radici arabe. A Baghdad e nella Spagna Islamica medievale, illustri studiosi solevano menzionare un dolce di frutta secca molto simile al torrone. Il celebre torrone siciliano potrebbe derivare da quel tipo di dolce, che senza dubbio approdò sull’ isola ai tempi del dominio arabo. Nei primi anni del 1100, Gherardo da Cremona tradusse il libro “De medicinis et cibis semplicibus” di Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista ismaelita residente a Cordova. Nel libro si parlava del “turun”, un prelibato dessert arabo, e venivano lodate le proprietà del miele da cui era composto. In molti attribuiscono a Gherardo da Cremona il merito di aver reso celebre il torrone nell’ Italia del Nord, mentre secondo altri fu Giambonino da Cremona a scrivere per primo del dolce: quest’ ultimo era infatti descritto in due testi bagadesi che stava traducendo. Verosimilmente, però, colui che divulgò la ricetta del torrone nel settentrione fu Federico II di Svevia. L’ Imperatore aveva assimilato la cultura araba nella sua corte palermitana, e durante le lotte contro i Comuni dell’ Italia del Nord aveva stabilito il suo quartier generale a Cremona. La leggenda, invece, narra che il torrone giunse a Cremona in occasione delle nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Era il 25 Ottobre del 1441, e i cuochi pensarono di omaggiare gli sposi con un delizioso dolce a base di mandorle, albume e miele che raffigurava il Torrazzo cremonese. Il dessert riscosse un successo tale da diventare una tipicità di Cremona; veniva impastato durante le feste e offerto in dono alle autorità che arrivavano in città. Testimonianze varie, tuttavia, fissano la nascita del torrone a una data anteriore al XV secolo: è quasi certo, quindi, che fu Federico II di Svevia a diffondere la ricetta. Tra i torroni più famosi d’Italia rientrano, oltre a quello di Cremona, la “cubbaita” di Caltanisetta, il torrone sardo di Tonara, il torrone prodotto tra Avellino e Benevento, il torrone tenero aquilano, il torrone di Bagnara Calabra IGP e il mandorlato di Cologna Veneta.

 

 

La colazione di oggi: il panettone, ghiottoneria natalizia da Milano al mondo

 

Latte, uova, burro, zucchero, vaniglia, canditi, uva sultanina…Il solo menzionare i suoi ingredienti evoca sentori di pura delizia: non è un caso che il panettone sia il dolce del Natale per eccellenza. Includerlo nella prima colazione è un’ idea perfetta, dato l’ alto apporto calorico che fornisce. Eh già, questo non si può negare: il panettone è una vera e propria bomba di calorie (circa 350 in 100 grammi). Ecco perchè è molto meglio gustarlo di mattina, piuttosto che a fine pasto. Affondare i denti nel suo impasto morbido, assaporando la dolcezza dei canditi e delle uvette, è un piacere che non conosce eguali. Un Natale senza panettone non può considerarsi veramente Natale: i due, insieme, compongono un binomio inscindibile. Ma quali sono le proprietà del tipico dolce milanese? Consumarlo comporta più benefici o controindicazioni? Cominciamo subito con gli alert, che riguardano soprattutto chi soffre di determinate patologie. Il panettone abbonda di lipidi, carboidrati, grassi saturi, peptidi, colesterolo. Di conseguenza, dovrebbe evitarlo chi è affetto da diabete o da ipercolesterolemia. A suo favore va invece detto che è ricco di proteine e di fibre, un elemento nutritivo importantissimo per il nostro organismo. La lunga lievitazione a cui viene sottoposto il dolce determina la presenza del glutine, mentre il burro e le creme che a volte lo farciscono contengono lattosio in quantità. Un altro punto di forza del panettone è costituito dalle vitamine: le molecole idrosolubili del gruppo B prevalgono, seguite dalla vitamina A e dalla vitamina D. Riguardo i sali minerali, il ferro trionfa grazie al tuorlo d’ uovo contenuto nel prodotto. Lo seguono a ruota il calcio e il fosforo.

Iniziare la giornata con una fetta di panettone e un buon caffè è una coccola che facciamo a noi stessi. La consistenza, il profumo, il sapore del “dolce del Natale” sono unici: la presenza del burro li esalta, favorendo inoltre una buona conservazione. Il panettone, se ci fate caso, rimane soffice e invitante per molti giorni. Ovviamente, va consumato con parsimonia. Ma le eccezioni alla regola sono previste, specie durante le feste natalizie. Anche perchè in altri periodi dell’ anno sarebbe improbabile farne incetta!

Le tradizioni e le leggende sul panettone hanno un denominatore comune: la matrice milanese. Tra le leggende che lo circondano, molte risalgono al Medioevo. Una di queste, ambientata a Milano, narra che il falconiere Messer Ulivo degli Atellani fosse innamorato della figlia di un fornaio, la bella Algisa. Per corteggiarla organizzò uno stratagemma: iniziò a lavorare come garzone nella bottega del padre e, con l’ intento di non passare inosservato, si inventò un dolce mai visto prima. L’ impasto era composto da burro, miele, uova e uva sultanina, un’ autentica squisitezza. Il dolce piacque talmente che il forno si affollò di nuovi clienti. Messer Ulivo ottenne la mano di Algisa e potè così coronare il suo sogno. Un’ altra leggenda viene associata alla corte di Ludovico il Moro. Il giorno di Natale, il Duca diede un pranzo a cui invitò numerosi ospiti. Ma dopo aver messo a cuocere il dolce, il cuoco disgraziatamente lo dimenticò nel forno. Quando lo tirò fuori era pressochè carbonizzato. Fu allora che a Toni, un giovane inserviente di cucina, balenò un’ idea: mostrò al cuoco un dessert che aveva preparato con degli ingredienti trovati in dispensa, e gli propose di servirlo in tavola. Il dolce a base di burro, uova, farina, scorza di cedro e uvette riscosse un successo incredibile tra i nobili ospiti di Ludovico Il Moro. Quando questi chiese al cuoco come si chiamasse quella leccornia, costui rispose “L’è ‘l pan del Toni”. Pare che il nome “panettone” derivi proprio da questa frase.

Secondo Pietro Verri, la nascita del panettone sarebbe datata addirittura al IX secolo: in “Storia di Milano” racconta che il giorno di Natale, nella città meneghina,  vigeva l’ usanza di consumare dei “pani grandi”. Al Natale veniva associata un’ ulteriore tradizione, stavolta risalente al XV secolo. I fornai, quel giorno, vendevano al popolo e agli aristocratici lo stesso tipo di pane. Durante l’ anno, infatti, esistevano un “pane dei poveri” e un “pane dei ricchi”. Il pane del Natale, detto “pan de ton” (da notare la somiglianza con il termine “panettone”), conteneva miele, burro e zibibbo, una pregiata varietà di uva. Nel 1599, “grandi pani” preparati con burro, spezie e uvetta comparivano nell’ archivio spese del Collegio Borromeo di Pavia. Il loro consumo era previsto per il pranzo di Natale. Tra il ‘700 e l‘800, a Milano venne incrementata l’ apertura dei forni e delle pasticcerie; nel XIX secolo il panettone era già un dolce pregiato e conosciutissimo. Con l’avvento dell’ industrializzazione, nel 1900 cominciò ad essere prodotto su vasta scala. Tuttavia, a Milano, la tradizione del panettone artigianale non venne mai meno. Fornai e pasticceri hanno sempre utilizzato la ricetta originale del dolce e a tutt’oggi continuano a prenderla come riferimento. Negli anni ’50 del XX secolo il panettone divenne uno dei prodotti di punta dell’ industria dolciaria. Esportato in tutto il mondo, nel 2005 la sua produzione è stata disciplinata da un decreto che determina le caratteristiche di un panettone affinchè possa essere definito tale.

 

 

Santa Lucia

 

” Il 13 Dicembre, al mattino presto, quando freddo e oscurità regnavano sulla terra del  Värmland fino ai tempi della mia infanzia, santa Lucia di Siracusa entrava in tutte le case sparse tra le montagne della Norvegia e il fiume Gullspång. Portava ancora, almeno agli occhi dei bambini, una veste bianca di luce di stelle e sui capelli una ghirlanda verde con fiori ardenti di luce, e svegliava sempre chi dormiva con una bevanda calda e profumata che versava dalla sua brocca di rame. Mai mi capitò all’ epoca visione più meravigliosa di quando la porta si apriva e lei entrava nel buio della mia stanza. E vorrei augurarmi che mai smetta di apparire nelle fattorie del Värmland. Perché è lei la luce che sconfigge le tenebre, è la leggenda che vince l’oblio, è quel calore interiore che rende le contrade gelate ammalianti e piene di sole nel cuore dell’inverno. “

Selma  Lagerlöf, da “La leggenda della festa di Santa Lucia” (ne “Il libro di Natale”)

 

La rubrica Le perle di VALIUM si fonde con il post odierno per celebrare la Festa di Santa Lucia, la “Santa della Luce”. Voglio omaggiarla tramite un estratto che ho selezionato da “Il libro del Natale” (1933) di Selma Lagerlöf, scrittrice svedese Premio Nobel per la Letteratura nel 1909. Tra gli otto racconti a tema natalizio in cui Lagerlöf esplora ricordi, atmosfere, fiabe popolari della tradizione scandinava, ne appare infatti uno intitolato “La leggenda della festa di Santa Lucia”. E’ suggestivo e magico, e volevo proporvene il finale. Perchè Santa Lucia è una delle feste dell’ Avvento che mantiene un’ impronta indelebile nell’ immaginario collettivo. Il nome stesso della Santa, che deriva dal latino “Lux” (“luce”), sembra emanare un avvolgente alone luminoso: un dettaglio indicativo, nel periodo in cui le notti si allungano a dismisura. Non è un caso che, anticamente, il 13 Dicembre coincidesse con i festeggiamenti per il Solstizio d’Inverno, giorno più corto dell’ anno ma anche punto di partenza del nuovo ciclo di ascesa del Sole. Dodici mesi fa ho dedicato un approfondimento alle celebrazioni svedesi di Santa Lucia (rileggi qui l’articolo). Il magnetismo sprigionato da questa ricorrenza mi spinge oggi a soffermarmi sulla sua storia e sulle sue leggende in terra italica.

 

 

Dove a Lucia ci si riferisce sempre come a “Santa della Luce”, seppure con motivazioni leggermente diverse. Se nelle lande del Nord Europa il suo bagliore inaugura il primo baluginio di luminosità dell’ Inverno, in Italia viene associato alla vista (nello specifico, a leggende inerenti al sacrificio dei suoi occhi) e al chiarore delle candele che la accompagnava durante l’ operato svolto a sostegno del cristianesimo. Si narra infatti che portasse segretamente i viveri ai cristiani rifugiatisi nelle catacombe per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano, e che per farsi strada nel buio li raggiungesse con una corona di candele fissata sul capo. L’ agiografia descrive Lucia come una giovane di nobili origini nata nel 283 d.C. a Siracusa. Profondamente cattolica, Lucia consacrò la sua verginità a Cristo sin da bambina. Era orfana di padre e viveva con la madre, Eutychia, malata da tempo. Dopo un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata, che Lucia invocò affinchè la aiutasse a guarire, la donna riacquistò la salute miracolosamente. Sant’ Agata apparve in sogno a Lucia esortandola ad onorare la fede a cui si era votata con tanta dedizione. La giovane donna, quindi, decise di dedicarsi alla carità: rinunciò al suo patrimonio devolvendolo ai bisognosi, dai quali si recava per portare aiuto, e supportava i cristiani perseguitati in seguito all’ editto che Diocleziano emise nel 303 d.C. . Tutto ciò provocò l’ira del promesso sposo di Lucia, un nobile pagano, che si vendicò denunciandola in quanto cristiana e la costrinse a sottoporsi a un processo conclusosi con il martirio della ragazza. Era il 13 Dicembre del 304 d.C.. Secondo alcune leggende, Lucia perse gli occhi quando fu martirizzata, altre raccontano che se li strappò dalle orbite spontaneamente. Altre ancora, che li offrì in sacrificio a un pretendente. Quando glieli donò, posati su un piattino, venne dotata per miracolo di occhi addirittura più splendenti. L’ innamorato, furibondo, pretese che glieli sacrificasse nuovamente, ma al suo rifiuto la uccise pugnalandola al cuore. Nacque in questo modo il culto di Santa Lucia come protettrice degli occhi e della vista. Luce, occhi e vista si uniscono dunque in un affascinante amalgama che rimanda a svariati miti pre-cristiani.

 

 

Alcuni di questi si ricollegano proprio alla tradizione scandinava: pare che ciò sia dovuto ai Longobardi, stanziatisi nel Nord Europa durante il I secolo a.C.. Quando invasero l’ Italia nel 568, diffusero il culto di Lussi (il cui nome significava “luce”), divinità che in Scandinavia regnava sugli spiriti dell’ Aldilà e sul “piccolo popolo” (gnomi, elfi, fate e folletti). Lussi dominava la notte del 13 Dicembre, la più lunga dell’ anno, chiamata “Lussinatt”, ed era solita volare sui tetti seguita da un bizzarro corteo di anime erranti. Puniva i bambini malvagi, che venivano trascinati su per il camino e condotti nel regno dei morti, e le famiglie che non si stavano preparando adeguatamente alla festa di Yule (il Solstizio d’Inverno). In quella notte fatata, si pensava anche che gli animali avessero facoltà di parola.

 

 

Ma Lussi non era l’unica figura ad appartenere a questo patrimonio mitico. Nella Roma Imperiale veniva venerata la dea Lucina, divinità del parto. Lucina, il cui nome (come quello di Lucia) risalirebbe a “Lux” e potrebbe essere tradotto con “colei che porta i bambini verso la luce”, era anche battezzata Candelifera poichè i parti si svolgevano a lume di candela. Un cero votivo, inoltre, veniva acceso dalle partorienti che invocavano la protezione della dea. La festa di Lucina, di conseguenza, era celebrata nel mese di Dicembre, il periodo del “Dies Natalis Solis Invicti”: quando il Sole, cioè, “rinasceva” e il giorno cominciava progressivamente ad allungarsi dal Solstizio d’Inverno in poi.

 

 

Innumerevoli fattori hanno contribuito a combinare la figura di Santa Lucia con quella di Lussi e della dea Lucina. Generalmente, si ritiene che l’ evangelizzazione cristiana in Scandinavia fu determinante nella propagazione della storia della Santa. Tra popoli che sperimentavano tanto spiccatamente il divario tra buio e luce, la martire di Siracusa che squarciava le tenebre con la sua luminosità divenne popolare al punto tale da dar origine a una festa – quella di Santa Lucia, appunto – celebrata sin dagli inizi del Medievo. Ciononostante, moltissimi altri elementi della tradizione pagana e pre-cristiana germanica ebbero il loro peso nel diffondere il culto di Lucia. Il tema della luce che trionfa sul buio, non a caso, è uno dei cardini portanti della ricorrenza di Yule, anticamente salutata con un tripudio di rituali, convivialità e banchetti. Diamo quindi il benvenuto alla giornata di Santa Lucia: la Festa della Luce.

 

 

Foto di Santa Lucia in Svezia (la 2 dall’ alto) di Claudia Gründer, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

La colazione di oggi: dolcetti al pan di zenzero, una magica spezia per un magico Natale

 

Parlare di colazioni natalizie senza citare lo zenzero sarebbe improponibile! Avete presente quei giocosi e golosissimi biscotti a forma di omini, alberi di Natale, renne, fiocchi di neve e quant’altro? O le incantevoli casette ornate di glassa che sembrano uscite dalla fiaba di “Hansel e Gretel”? Bene: lo zenzero è l’ ingrediente basilare di dolci diventati ormai l’ emblema del periodo che gravita attorno al 25 Dicembre. E non a torto: sono squisiti, leggeri ed emanano un aroma di spezie che li rende del tutto speciali. Gustarli a inizio giornata, credetemi, è davvero l’ optimum. Basti pensare che vengono preparati con un ricco impasto composto da zenzero in polvere, cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Al tutto si aggiunge successivamente il miele oppure la melassa (quest’ ultima, soprattutto nel Nord Europa). Il risutato sono dolci dalla consistenza morbida al punto giusto: possono essere plasmati nelle forme più disparate e decorati con dosi massicce di Ghiaccia Reale, una glassa che si indurisce ad asciugatura ultimata. Di conseguenza, risultano una vera e propria delizia sia per il palato che per gli occhi. Alcuni, addirittura, li utilizzano per addobbare la casa e l’ albero di Natale! Ma privarsi del gusto di assaporarli sarebbe un vero peccato. Anche perchè lo zenzero è una spezia che abbonda di proprietà salutari, e viene considerato portentoso sin da tempi remotissimi.

 

 

Vanta virtù energizzanti, mantiene giovani e genera benefici per l’ intero organismo. E’ infatti un potente antiossidante, antibatterico oltre che antinfiammatorio, favorisce il benessere dello stomaco (azzerando la nausea e facilitando la digestione) e rafforza il sistema immunitario. Questa spezia appartenente alla specie delle Zingiberaceae – una pianta che proviene dall’ Estremo Oriente – possiede inoltre la facoltà di diminuire i livelli di glicemia e di colesterolo: un punto di forza non da poco. Durante l’ inverno è un autentico toccasana per i malanni stagionali. Nello specifico, lo zenzero è ricco di carboidrati, acqua e proteine, ma è anche una preziosa miniera di minerali quali il potassio, il fosforo, il calcio, il sodio, il ferro, lo zinco e il manganese.

 

 

Relativamente alla storia e alle leggende che la circondano, poi, la radice di zenzero è in grado di meravigliarci al pari dei dolci che con essa vengono preparati. Innanzitutto va detto che questa spezia, secoli orsono, veniva considerata magica. Il motivo principale risiedeva nel fatto che gli antichi popoli scoprirono che favoriva la conservazione dei cibi, ma non solo. Le sue virtù furono apprezzate fin da subito, quando Alessandro Magno la “trapiantò” in Europa dall’ Oriente. Greci e Romani ne decantavano le virtù: e se Confucio, nella lontana Cina, giudicava lo zenzero un ottimo “disintossicante” per la mente, pare che Dioscoride Pedanio, medico e botanico vissuto nella Roma imperiale di Nerone, lo ritenesse insuperabile per sedare i disturbi di stomaco. Secondo Pitagora, invece, lo zenzero era perfetto come antidoto al veleno dei serpenti. Tra il 1400 e il 1500, durante il regno di Enrico VIII, in Inghilterra si credeva che avesse il potere di allontanare le epidemie. Nel Medioevo, effettivamente, lo zenzero aveva acquisito un valore inestimabile sotto tutti i punti di vista. Per fare solo un paio di esempi, era richiestissimo in cucina e cominciò a guadagnarsi la fama di essere un efficace afrodisiaco.

 

 

Molto importante è citare la valenza magica attribuita allo zenzero sin dalla notte dei tempi. I maghi bruciavano la sua radice e utilizzavano il fumo per compiere svariati rituali, uno su tutti rompere incantesimi. Dalla spezia venivano estratti speciali profumi che avevano lo scopo di instaurare un contatto con l’aldilà. Si riteneva che tramite lo zenzero fosse possibile invocare la potenza del Sole, o del Dio Marte, ma non veniva unicamente utilizzato dagli “operatori dell’ occulto” (tra cui le streghe). Antiche credenze dotavano lo zenzero della capacità di esaudire i desideri (bastava masticarne la radice quel tanto che bastava per interiorizzare i suoi poteri), propiziare ricchezza e prosperità, rinvigorire l’energia, scongiurare i malanni, allontanare la malasorte, tornare a far ardere l’ amore sensuale in un rapporto di coppia…Amuleti allo zenzero proliferavano così come i medicinali che contenevano la sua radice, ritenuta altamente salutare.

 

 

In Inghilterra, gli omini al pan di zenzero che compaiono durante le festività (soprattutto a Natale, quando i simpatici biscotti assumono le forme dei tipici emblemi del periodo) vantano una lunga e prestigiosa storia. Pare che fu la Regina Elisabetta I Tudor a farli preparare, poichè amava offrirli agli autorevoli ospiti che invitava a corte. In seguito, intorno al 1875 circa, l’ omino al pan di zenzero (in inglese “gingerbread man”) diventò il protagonista di una fiaba/filastrocca famosissima nei paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa. La storiella viene tuttora narrata ai bambini in occasione del Natale, ma il fatto che sia stata tramandata oralmente e che abbia conosciuto un’ ampissima diffusione ha fatto sì che ne esistano innumerevoli versioni. 

 

 

Il 25 Dicembre del 1905 a Broadway venne addirittura inaugurato un musical, “The Gingerbread Man”, che rimase in cartellone per mesi sia a New York che a Chicago. Il biscotto più amato di Natale appare anche ne “La strada per Oz”, il libro che Lyman Frank Baum scrisse a mò di sequel de “Il meraviglioso mago di Oz” (la serie dei “Libri di Oz” contiene ben tredici volumi), ma il nostro eroe è comparso perfino sul grande schermo: riveste il ruolo di protagonista nel cortometraggio muto “John Dough and the Cherub” (1910) di Otis Turner e si fa notare tra i personaggi delle fiabe della saga di “Shrek” (che ha avuto inizio nel 2001).

 

 

La colazione di oggi: i macarons, un tripudio di colori e di dolcezza

 

Solo a guardarli, mettono allegria. I loro colori vivaci attirano e conquistano l’occhio ancor prima della gola. E poi, fanno pensare subito a Maria Antonietta e agli invitanti dolci di cui era ghiotta: chi ha visto il film che Sofia Coppola le ha dedicato, sa bene di cosa sto parlando. I macarons, in effetti, hanno un’ apparenza talmente variopinta e briosa da risultare uno dei regali che si preferisce fare oppure ricevere. Meritano appieno, quindi, di diventare i protagonisti della nostra colazione di oggi. Com’è ben noto, questi pasticcini multicolor nascono in Francia (almeno, nella loro definitiva versione) e sono costituiti da due cialde tondeggianti unite da uno strato di ganache (panna e cioccolato bianco), marmellata o crema al burro. Uno dei loro punti di forza è quello di non contenere glutine, per cui anche i celiaci possono gustarli senza problemi, ma l’ autentico atout dei macarons ha un nome ben preciso: farina di mandorle.

 

 

La farina di mandorle, infatti – insieme allo zucchero a velo, allo zucchero, agli albumi d’uovo e ai coloranti alimentari – è l’ ingrediente fondamentale dei  due gusci che li compongono. Ed è proprio dalla farina di mandorle che deriva la maggior parte delle proprietà e dei benefici dei pasticcini tanto amati dalla Maria Antonietta di Sofia Coppola. Abbiamo già parlato delle virtù delle mandorle, in questa rubrica (rileggi qui l’articolo): considerate che la farina viene ottenuta semplicemente dalla loro macinazione. Per elencare i suoi benefici, l’ intero blog non basterebbe…Potremmo dire che, in sintesi, la farina di mandorle è ricca di un gran numero di micronutrienti e che può essere considerata una vera miniera di energia. In più, contiene dosi abbondanti di magnesio, un antidoto contro l’ insonnia, la depressione e qualsiasi tipologia di stress. La farina ricavata dalle mandorle si avvale poi di molteplici proteine vegetali, e oltre al magnesio vanta un’ alta quantità di calcio (un toccasana per le ossa) e di ferro (essenziale per la formazione dell’ emoglobina). E’ molto importante anche il fatto che la contraddistinguano dei grassi buoni, i cosiddetti “omega 3”: ciò contribuisce a far calare il colesterolo e a tenere la glicemia sotto controllo. Altri ingredienti contenuti in questo alimento sono le vitamine E e del gruppo B, gli acidi grassi insaturi e ulteriori minerali quali il fosforo e lo zinco.

 

 

In cucina, la farina di mandorle viene utilizzata prevalentemente nei prodotti di pasticceria: macarons come pure amaretti, pasta di mandorle, guarnizioni di dolci; la troviamo, ad esempio, grattugiata sui gelati e sui budini, o in qualità di ingrediente base di dolci veri e propri quali i baci di dama, le crostate, le torte di mele, le torte di carote…Con questo tipo di farina si prepara persino il pane.

 

 

Ma torniamo ai macarons. Siete curiosi di sapere qualcosa in più sulla loro storia e sugli aneddoti che li riguardano? Eccovi serviti. Pare che sia in realtà Venezia, la loro città natale (ma la ricetta originale potrebbe derivare dal Medio Oriente). In Francia vengono introdotti nel 1533, da un cuoco, in occasione del matrimonio tra Caterina de’ Medici e il futuro Re Enrico II di Valois. E’ subito boom di gradimento, urge quindi identificarli con un nome ben preciso: nel 1552 François Rabelais, il noto scrittore e umanista francese, decide che si chiameranno “macarons” in omaggio alle loro origini italiane. Il termine, naturalmente, deriva da “maccheroni” e designa il popolo dello Stivale, ma è del tutto privo di connotazioni sarcastiche o dispregiative. Quando approdano in Inghilterra, i golosissimi dolcetti spopolano soprattutto a corte e vengono denominati “macaroon”, rimandando alla pronuncia francese molto in voga. La storia dei macarons, tuttavia, include più di una versione. A Nancy, in Francia, le suore del Monastero delle Dames du Saint-Sacrement preparano degli speciali biscotti destinati a Caterina, la nipotina di Caterina de’ Medici, che soffre di seri problemi gastrici e digestivi. I biscottini compiono un miracolo, la bimba riesce a digerirli perfettamente: pare che si tratti di un “archetipo” di macarons. Nel 1793, dopo aver abbandonato il Monastero, due suore utilizzano la ricetta per confezionare dei biscotti da vendere dapprima a domicilio e poi in una pasticceria tutt’ oggi attiva, la Maison des Soeurs Macarons. Ai biscotti viene dato il nome di “Macarons de Nancy” ed è inutile dire che la città francese rivendichi di aver dato i natali ai dolcetti. Anche nel corso del pranzo di matrimonio tra Luigi XIV (“il Re Sole”) e Maria Teresa d’Asburgo, tenutosi nel 1660 a Saint-Jean-de-Luz, i macarons riscuotono un successo enorme. All’ epoca, però, sono molto diversi da come li conosciamo oggi. L’idea della doppia meringa e della crema al centro appartiene a Pierre Desfontaines: nel 1930, il nipote di Louis Ernest Ladurée – fondatore della celebre pasticceria parigina battezzata con il suo cognome – unisce due mezze cialde con uno strato di ganache al cioccolato. Il macaron nell’ attuale versione nasce ufficialmente, e da quel momento in poi viene considerato il capolavoro per eccellenza della “patisserie française”.

 

 

 

 

Il Gucci Garden, uno scrigno fatato nel cuore di Firenze

 

Il suo logo – il Gucci Eye – ricorda l’ “l’occhio che tutto vede”, un elemento che rimanda alla simbologia esoterica di cui sono intrise le collezioni di Alessandro Michele. Perchè a partire dall’ uroboros fino al sole, passando per il quadrupede nero e il serpente con tre teste, Michele ha sempre attinto all’ iconografia alchemica e il Gucci Garden, il multispazio appena inaugurato all’ interno del Palazzo della Mercanzia a Firenze, non poteva non evidenziare un leitmotiv ispirativo che è ormai parte integrante della sua estetica. Lo storico edificio fiorentino è lo location ideale per ospitare l’ universo Gucci in ogni sua sfaccettatura: concepito da Alessandro Michele stesso, distribuisce su tre piani una galleria espositiva, un ristorante e una boutique che traducono la nuova visione della Maison in puro incanto.

 

 

Moda, ispirazione, arte, ricordi, reperti d’archivio, gusto e savoir faire artigianale si fondono in un magico mix che prende il nome da una costante delle creazioni del designer, il giardino, ennesimo emblema dalla forte valenza mistica. L’ iter ha inizio con la Gucci Garden Galleria e più precisamente con una sala, Guccification, interamente all’ insegna della doppia G. Vi trovano spazio espressioni artistiche recenti, come il GucciGhost di Trouble Andrew o i  lavori di Coco Capitain e Jayde Fish.  Gli “hashtag” Guccy, Guccify e Guccification concentrano la quintessenza del brand: Gucci come un’ attitude, che spazia dal look a un modo di porsi di fronte al reale.

 

Guccification

A seguire, un approfondimento dedicato all’ heritage è suddiviso tra le sale Paraphernalia e Cosmorama, che rispettivamente rievocano i codici del marchio, i suoi celebri clienti del jet set e gli elementi araldici presenti nel suo logo. Al di là di spesse tende di velluto rosso, poi, l’ auditorium Cinema da Camera del Gucci Garden è adibito alla proiezione di film e corti sperimentali.

 

Paraphernalia

Cosmorama

L’ avventura prosegue al secondo piano con De Rerum Natura, una panoramica che sviscera in modo museale, quasi “scientifico”, l’ amore di Alessandro Michele per i giardini e gli animali. Ephemera è la sala conclusiva: qui, in un tripudio di video, di oggetti e di ricordi, la storia della Maison Gucci regna sovrana.

 

De Rerum Natura

Cinema da Camera

Ephemera

Il percorso è a dir poco spettacolare, un viaggio tra l’ onirico e il reale che fissa al 1921 il suo anno di partenza. Negli spazi del Gucci Garden si interfacciano passato e presente, vintage e pezzi cult, le più leggendarie creazioni del brand dialogano con gli stili iconici di Tom Ford, Frida Giannini e Alessandro Michele. A curare questa ipnotica galleria è il critico e fashion curator Maria Luisa Frisa, direttore del corso di Laurea in Design della Moda e Arti Multimediali all’ Università IUAV di Venezia.

 

Gucci Osteria di Massimo Bottura

Gucci Boutique

Ma nello scrigno fatato ideato da Alessandro Michele sono racchiuse due ulteriori chicche: la Gucci Osteria di Massimo Bottura, chef tre stelle Michelin, omaggia la Firenze crocevia di scambi culturali del Rinascimento con un menù che spazia dalle delizie locali a quelle internazionali, mentre la Gucci Boutique è un’ oasi delle meraviglie vera e propria. Collocata al piano terra, le pareti dipinte di giallo, al suo interno è possibile rintracciare pezzi unici, tutti assolutamente originali e contrassegnati dall’ esclusivo logo Gucci Garden. Il Bookstore, infine, affianca ai libri un’ ampia scelta di oggettistica rara, memorabilia, pubblicazioni d’antan e d’avanguardia, preziosi paraventi, arredi e prodotti di cartoleria sui generis. Visitare il Gucci Garden si configura come un’ esperienza intrisa di fascino: è penetrare a fondo nell’ immaginario della Maison, lasciarsi contagiare dalla sua creatività, calarsi in magnetiche atmosfere. Senza sottovalutare che la metà del costo del biglietto d’ingresso (8 euro) verrà devoluta agli interventi di restauro nel capoluogo toscano.

Per info: https://www.gucci.com/it/it/

Photo: Gucci

 

“Vennari signed R.F.”: Roberto Ferlito firma una capsule collection per Vennari

 

Roberto Ferlito e Vennari: un connubio esclusivo. Il direttore creativo di Schield (che i lettori di VALIUM conoscono bene: trovate la sua intervista qui), il brand di fashion luxury jewelry adorato da nomi del calibro di Rihanna, Kate Moss e la Regina Letizia di Spagna, ha inaugurato una collaborazione con la storica Maison fiorentina di alta gioielleria. Il sodalizio si traduce in una capsule collection, Vennari signed R.F., che verrà lanciata in occasione della Paris Fashion Week e sancirà questa entusiasmante e inedita partnership creativa. A fare da protagonisti, l’ inconfondibile stile scultoreo, ironico – e al tempo stesso iconico – di Roberto Ferlito e la lunga tradizione orafa Vennari, che coniuga un alto tasso di raffinatezza e preziosità dei materiali. Nella capsule, contemporaneità e heritage si fondono in uno sbalorditivo mix. I codici avantgarde di Schield si rinvigoriscono a contatto con gli stilemi luxury di un brand che ha tramandato il proprio savoir faire da generazione in generazione: il risultato non può che essere la ricercatezza più fine. Vennari, il cui atelier ha sede nell ‘ Antica Torre in via de’ Tornabuoni, è un nome cult nell’ ambito della gioielleria di alta gamma. L’ eleganza della quale si fa portavoce viene espressa persino dall’ubicazione dei suoi headquarters creativi nel cuore di Firenze, lungo la via del lusso del capoluogo toscano; una location emblematica, intrisa di allure secolare. Ferlito  attinge ai connotati più fortemente radicati nell’ identità del brand per tramutarli in uno chic senza tempo e dall’ alto valore artigianale. La collezione è composta da pezzi rigorosamente fatti a mano, scolpiti in una lega d’oro a 18 carati o d’ oro bianco e impreziositi da gemme come il peridoto, lo zaffiro e il diamante, che donano un tocco di colore e di aggiuntivo splendore. Quella con Vennari rappresenta, per il direttore creativo di Schield, l’ennesima  collaborazione dopo i recenti sodalizi con Mary Katrantzou e N.21. La capsule collection Vennari signed R.F. , introdotta dagli scatti del sempre geniale Diego Diaz Marin, verrà presentata nello showroom parigino del brand in rue du Mont Thabor 36 durante l’ imminente Fashion Week: un “save the date” è tassativo!

Photos by Diego Diaz Marin courtesy of Fingercoast Studio

“Christian Dior, couturier du reve”: la grande mostra che celebra i 70 anni della Maison

Christian Dior, Bar suit, Haute Couture, Spring-Summer 1947, Afternoon suit, Shantung jacket , Pleated corolla skirt in wool crêpe, Musée des Arts Décoratifs, UFAC
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope

Sono trascorsi 70 anni da quando il New Look, nel secondo dopoguerra, rivoluzionò in toto la silhouette femminile. Era il 1947 e la collezione Primavera/Estate di Christian Dior, contrapponendo uno charme elegante alle austerità imperanti durante il conflitto bellico, riscosse un successo tale da far sì che Parigi fosse ribattezzata “capitale della moda internazionale”. Da allora, la Maison Dior ha conosciuto un’ epopea di invariato splendore che in occasione del suo 70mo viene celebrata da una retrospettiva parigina: “Christian Dior, couturier du reve” è appena stata inaugurata presso il Musée des Arts Décoratifs e sarà visitabile fino al 7 Gennaio 2018. La mostra approfondisce ad ampio spettro l’ universo Dior, ripercorrendo il percorso inaugurato da Monsieur Christian fino ad approdare ai suoi illustri successori; il tributo è in grande stile, forse il più maestoso mai dedicato alla Maison. Agli oltre 300 abiti di Haute Couture selezionati viene affiancato, infatti, il fitto patrimonio intangibile costituito dalle emozioni, dalle storie di vita, dalle affinità e dalle ispirazioni, un heritage insostituibile documentato attraverso documenti, tele d’atelier, fotografie, schizzi, illustrazioni e reperti pubblicitari oltre che da accessori come i cappelli, le scarpe, le borse e dagli storici profumi Dior.

Christian Dior, Opéra Bouffe gown, Haute Couture, Fall-Winter 1956, Aiman line Short evening gown in silk faille by Abraham, Paris, Dior Héritage
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A dare il via al percorso espositivo, un approfondimento biografico sul “couturier du reve”: l’ infanzia a Grenville, gli Anni Ruggenti trascorsi in una Parigi effervescente dove inaugurò una galleria d’Arte, gli inizi nella Haute Couture come illustratore vengono evidenziati al pari delle sue passioni. L’ arte fu, senza dubbio, l’ amore principale di Christian Dior. Lo rivela il feeling che instaurò con nomi del calibro di Giacometti, Max Jacob, Dalì, Leonor Fini, Jean Cocteau e moltissimi altri habitué della galleria, ma anche la cospicua serie di dipinti, arredi, sculture, oggetti di antiquariato e d’arte esposti ad avvalorare la sua inclinazione. I curatori Florence Muller e Olivier Gabet hanno organizzato un excursus cronologico e tematico che si estende nei 3000 mq del Museo con dovizia di particolari: “raccontare” la Maison Dior significa anche, naturalmente, non tralasciare il prezioso ruolo che le creazioni fur di Frédéric Castet, i beauty look di Serge Lutens, Thyen e Peter Philips e le fragranze di François Demachy hanno rivestito nel forgiare la sua estetica. Fondamentale è poi lo spazio dedicato ai couturier che, dal 1957 (anno in cui Christian Dior morì improvvisamente) ad oggi, hanno portato avanti il suo heritage. Le creazioni di Yves Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferrè, John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri vengono omaggiate  in 6 gallerie che evidenziano le loro rispettive riletture di uno stile ormai leggendario.

Maria Grazia Chiuri for Christian Dior, Essence d’herbier cocktail dress, Haute Couture, Spring-Summer 2017, Ecru fringe cocktail dress, floral raffia and thread embroidery adomed with Swarovski crystals, derived from a Christian Dior original
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Quando il New Look trionfò, si impose una moda dai codici del tutto inediti: la linea a corolla, che sottolineava la vita e amplificava le gonne a dismisura, esaltava una nuova femminilità. Le spalle si arrotondavano dolcemente, il busto risaltava grazie a bar jacket aderenti e gli accessori – cappello, borsa, guanti – si tramutavano in parte integrante della mise. Al razionamento dei tessuti tipico della Seconda Guerra Mondiale venivano sostituite stoffe in metratura extra, la donna si riappropriava del gusto di abbigliarsi e di esibire glamour allo stato puro. La passione per l’arte e per l’ antiquariato divenne, per Christian Dior, sommo leitmotiv ispirativo: se ne rinvengono tracce sia nel design che nei pattern decorativi. Dal 1957 ad oggi, i couturier che gli sono succeduti hanno reinterpretato la sua cifra stilistica attingendo ai più svariati spunti. La raffinata audacia di Saint Laurent, lo chic lineare di Marc Bohan, le suggestioni architettoniche di Gianfranco Ferrè, la Punk couture teatrale di John Galliano, il rigoroso minimal di Raf Simons e il femminismo luxury di Maria Grazia Chiuri vengono analizzati, nella mostra, tramite outfit tanto splendidi quanto significativi.

John Galliano for Christian Dior, Shéhérazade ensemble, Haute Couture, Spring-Summer 1998 Evening ensemble , Ballets-Russes-inspired kimono, pyramid line with large silk velvet funnel collar, appliqué décor, embroidery and incrustation of Swarovski crystals, Long double satin sheath dress, Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A concludere l’ esposizione, la navata centrale si tramuta in sala da ballo per accogliere un novero di evening dress spettacolari. Alcuni di essi sono stati indossati da VIP del calibro della Principessa Grace di Monaco, Lady Diana Spencer, Charlize Theron e Jennifer Lawrence, affascinanti figure chiave dell’ iconografia Dior. Altre creazioni, sono per la prima volta visibili a Parigi. Tutti gli abiti contribuiscono, mirabilmente, ad illustrare la storia mitica di una Maison che del glamour ha fatto il suo emblema più sublime.

Gianfranco Ferré for Christian Dior, Palladio dress, Haute Couture, Spring-Summer 1992, In Balmy Summer Breezes line, Long embroidered and pleated white silk georgette sheath dress Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

“CHRISTIAN DIOR, COUTURIER DU REVE”

Una mostra a cura di Florence Muller e Olivier Gabet con lo sponsor di Swarovski

Dal 5 Luglio 2017 al 7 Gennaio 2018

c/o Museé des Arts Décoratifs

107, Rue de Rivoli

Parigi

Per info: www.lesartsdecoratifs.fr

 

Raf Simons for Christian Dior, Haute Couture, Fall-Winter 2012
¾-length yellow duchess satin evening dress with Sterling Ruby SP178 shadow print, Paris, Dior Héritage, © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Yves Saint Laurent for Christian Dior, Bonne Conduite dress, Haute Couture,
Spring-Summer 1958, Trapèze line, Smock dress in speckled wool by Rodier, Paris, Pierre Bergé – Yves Saint Laurent Foundation © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Marc Bohan for Christian Dior, Gamin suit, Haute Couture, Fall-Winter 1961, Charme 62 line,Tweed suit, Short double-breasted jacket, Trapeze skirt and matching scarf Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Photo courtesy of Musée des Arts Décoratifs