Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)
Il blog di Silvia Ragni
Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
(Cesare Pavese)
Quando il grano è nei campi, è di Dio e dei Santi.
(antico proverbio agreste)
Si avvicinano i giorni della mietitura del grano, che si effettua tra la fine di Giugno e la metà di Luglio: un momento cruciale per la vita agreste, decisivo al fine di scandire i suoi ritmi; una pratica dalle origini antichissime che, nel corso dei secoli, si è arricchita di significati simbolici che spaziano dalla fede alla cultura. La raccolta dei cereali, una delle principali fonti di nutrimento per l’organismo umano, rappresentava un evento importantissimo nel mondo contadino. L’organizzazione che lo precedeva era perfetta: si spalmava il lavoro su un tot numero di giornate, si riordinavano gli attrezzi, ci si approvvigionava di cibi e bevande per festeggiare il raccolto con pranzi conviviali. La mietitura, infatti, coinvolgeva un numero incalcolabile di persone: le famiglie coloniche si aiutavano tra loro, dando vita a vere e proprie comunità, e i salariati (i lavoranti esterni retribuiti per la loro prestazione) erano moltissimi. Tutti partecipavano alla grande festa del raccolto, anche i bambini, e a ognuno veniva affidato un incarico ben preciso. L’evento chiave dell’ annata agraria vedeva all’opera l’intera collettività. Non è un caso che fosse una sorta di rituale in cui il folklore giocava un ruolo preponderante; danze, stornelli, canti e usanze propiziatorie per la raccolta e lo stoccaggio ne erano parte integrante.
Un tempo, quando l’utilizzo della mietitrebbia era una realtà ancora molto lontana, il grano veniva mietuto con la falce. Il suo nome varia a seconda delle località e delle regioni: falcinella e falciola erano due degli appellativi più comuni. Gli antichi romani, che già se ne servivano, l’avevano battezzata “falx messoria”. In qualsiasi modo la si chiamasse, comunque, rimane il fatto che fosse uno strumento estremamente tagliente; per questo i mietitori erano soliti proteggersi le dita della mano sinistra con degli anelli d’alluminio. Il grano, dopo essere stato falciato, veniva posato sul terreno e ai giovani spettava il compito di raccoglierlo per ammucchiarlo e comporre i covoni, dei grandi fasci di spighe legate insieme. Solitamente, i covoni si posizionavano verticalmente per accelerare l’essiccazione del grano.
Dopodichè avveniva la battitura, la separazione, cioè, del grano dalla spiga. Il grano si spargeva sull’aia e veniva fatto calpestare da asini o da buoi bendati (se non lo fossero stati, si sarebbero cibati del frumento) che effettuavano il lavoro con i loro zoccoli. Gli uomini, intanto, contribuivano all’opera battendo il grano con dei pali.
Infine, il grano veniva pesato e suddiviso in due parti: una spettava al proprietario terriero, l’altra all’agricoltore. Tale mansione, che abbisognava di una grande forza fisica, era svolta dai giovani uomini vigorosi e “gagliardi”, che ne approfittavano per sfoggiare i muscoli davanti alle ragazze occupate a pulire i chicchi dalla pula. Per questo tipo di operazione, sempre effettuata sull’aia, si preferivano le giornate di vento: le spighe battute venivano alzate in aria con l’ausilio dei forconi affinchè la pula, leggera come una piuma, si librasse nell’aria, mentre i chicchi cadevano a terra a causa del loro peso. La preparazione del pagliaio, ovvero la sistemazione del fieno attorno allo stollo (un palo di legno conficcato nel suolo), spettava invece agli uomini e alle donne più maturi. Ogni fase del processo di mietitura e trebbiatura era accompagnata da battute, racconti, stornelli improvvisati sotto forma di botta e risposta, finchè arrivava l’ora del pranzo. I pasti erano abbondanti, rigorosamente genuini e a base di frutti della natura: a gustosi primi piatti seguivano il bollito e una miriade di verdure, dolci fatti a mano e caffè con l’anice. Il vino si manteneva al fresco calandolo in un pozzo dal quale veniva estratto con una carrucola.
Spesso non esisteva neppure una tavolata. I lavoranti e le lavoranti si sistemavano sotto le fronde ombrose delle querce, si sedevano sull’erba e consumavano i pasti su una lunga tovaglia distesa sul suolo. La gioia di stare insieme, l’euforia estiva prevalevano, nonostante la fatica: si rideva, si scherzava, ci si corteggiava con arguzia. Non era raro che sbocciassero nuovi amori, favoriti dalla complicità e dal lavoro collettivo svolto sotto i cocenti raggi del sole.
Ma quali tradizioni si accompagnavano alla mietitura? Abbiamo già visto che rivestiva un ruolo carico di significati per la cultura agreste. Il grano, nei vari stadi che accompagnavano il suo ciclo vitale, era associato a rituali che propiziavano l’abbondanza del raccolto. Si pensava, ad esempio, che le ultime spighe di grano mietute o l’ultimo covone realizzato fossero pregni di una potente valenza simbolica: rappresentavano lo “spirito del grano” e avevano un’importanza decisiva per determinare le sorti delle messi future. Anticamente, in molte civiltà europee, vigeva l’usanza di gettare l’ultimo covone in un fiume o di bruciarlo; l’acqua del fiume era un emblema della pioggia che avrebbe favorito un buon raccolto, mentre la cenere del fuoco, sparpagliata sui campi, avrebbe auspicato la loro fecondità. Altre tradizioni prevedevano che il contadino che mieteva le ultime spighe fosse legato a queste ultime con una corda e che, dopo essere stato condotto nel villaggio, venisse bastonato e poi buttato in acqua.
La parte finale della mietitura aveva una valenza fondamentale in svariati luoghi. La tradizione detta incannata, tipicamente campana, prevedeva che il passante che transitava in un campo a mietitura quasi ultimata venisse insultato dai mietitori; al che, costui avrebbe dovuto rispondere con espressioni gioiose. Ma che significato si celava dietro a questa usanza? Gli insulti avevano una funzione protettiva: salvaguardavano il raccolto dagli influssi negativi che il passante avrebbe potuto esercitare. L’ultimo covone, poi, doveva essere dimenticato sul campo o tramutato in un fantoccio che rappresentava la cosiddetta “madre del grano”. Riallacciandoci al proverbio che apre questo articolo, è d’obbligo dire che la religione era sempre presente, quando si trattava di mietitura. Gli agricoltori invocavano la protezione di Dio, di Maria e di diversi Santi per garantire l’abbondanza delle messi e la buona riuscita dei lavori agricoli. E non solo: esistevano speciali orazioni che assicuravano la tutela degli strumenti utilizzati. Anche i canti e gli stornelli erano di buon auspicio, se non altro perchè incrementavano l’energia e lo spirito di squadra.
L’argomento potrebbe essere approfondito ulteriormente, specie nelle sue declinazioni spirituali e religiose. Però ho deciso di fermarmi qui, focalizzandomi sui significati e sui riti della mietitura nella cultura agreste. Valenze di tipo più mistico meriterebbero un articolo a parte. Concludo quindi questo post sulla scia dell’atmosfera inebriante e rurale che aleggia sull’evento più atteso del mondo campestre.
Con il 1 Maggio ritorna la tradizione agreste dei “canti del Maggio”, diffusi prevalentemente in regioni come le Marche, l’Umbria, la Toscana, l’Emilia Romagna, la Liguria, il Piemonte e alcune aree della Lombardia. I cantori, detti “maggerini” o “maggianti”, danno il via ai loro canti di questua nella notte del 30 Aprile e li concludono la sera successiva. Sono canti gioiosi, stornelli accompagnati dal suono dei violini, delle fisarmoniche, dei cembali e degli organetti; i termini e le espressioni dialettali la fanno da padrone, rendendo ancor più genuino il saluto alla Primavera che i maggerini intonano di porta in porta, inoltrandosi nei villaggi e percorrendo i sentieri campestri. Nelle Marche, la mia regione, i canti di questua si chiudono immancabilmente con un “saltarello” vivacissimo che sottolinea le richieste che i cantori rivolgono al “vergaro” e alla “vergara” (i proprietari della casa colonica). La tradizione, infatti, vuole che i maggerini ricevano una lauta ricompensa: di solito si tratta di salumi, uova, formaggi e pollame vario affiancati al classico bicchiere di vino. E’ molto raro, d’altronde, che le famiglie non soddisfino la questua; si dice che i doni elargiti ai cantori attirino la buona sorte, favoriscano il benessere fisico e garantiscano un abbondante raccolto.
Il numero dei maggerini può variare dai tre ai dieci, anche se gruppi così nutriti sono comuni più che altro nel fabrianese. Il Cantamaggio, come vi ho già accennato, inneggia alla Primavera e alla lietezza (ma anche all’ebbrezza) che si associa alla rinascita. L’allegria predomina, mescolata ad accenti dionisiaci e a una malizia scanzonata. Non mancano le odi alla fertilità di buon auspicio per il nuovo ciclo agricolo: è questo, sostanzialmente, l’augurio che i maggianti portano di casa in casa. Il Cantamaggio, non a caso, trae le sue origini dai riti di fecondità che i pagani eseguivano in epoche molto antiche.
I profondi mutamenti della società hanno fatto sì che, fino a qualche anno fa, la tradizione di “cantare il Maggio” si smarrisse nei meandri del tempo. L’omologazione ha a poco a poco distrutto la cultura agreste; le campagne si spopolano e solo un esiguo numero di famiglie potrebbe offrire ai maggianti salumi, formaggi e uova fresche. Negli anni ’80, eppure, come per miracolo qualcosa è cambiato. Mi riferisco sempre alle Marche: il Cantamaggio di Morro d’Alba festeggia questo mese la sua 42esima edizione, e anche in paesi come Montecarotto e Monsano è stata ripristinata l’antica usanza dei canti di questua. Nel fabrianese, poi, il rito del Cantamaggio ha ripreso gradualmente vigore. L’appuntamento con i maggerini è ormai immancabile sia nelle frazioni che per le strade di Fabriano, dove non è raro avvistarli mentre intonano i loro canti rituali.
Foto via Unsplash
Sir Lawrence Alma-Tadema, “Spring” (1894), particolare
Il 1 Maggio, oltre che Festa del Lavoro, è anche Calendimaggio. Ne parlo con due giorni di ritardo, ma non importa: l’ incanto che circonda questa ricorrenza rimane intatto. Con il Calendimaggio, gli antichi popoli festeggiavano la Primavera ormai giunta al suo apice. Il nome deriva da “calende”, ossia il primo giorno del mese (calcolato in base alla luna nuova) del calendario romano. Durante le “calende” di Maggio si celebrava Flora, la dea della fioritura, e venivano compiuti numerosi rituali. Uno di questi vedeva protagonisti gli alberi, emblemi della natura e della sua fertilità ritrovata, associati alla prosperità immancabilmente: la tradizione voleva che i giovani uomini, la notte del 30 Aprile, si inoltrassero nei boschi per procurarsi rami fioriti o interi arbusti.
John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrs” (1897), particolare
Li avrebbero posti davanti alle finestre o ai portoni delle fanciulle a mò di rito di corteggiamento. Ma gli alberi venivano trapiantati nei luoghi più disparati, come le piazze, i cortili, addirittura accanto alle abitazioni delle personalità del villaggio. Probabilmente questi riti si ricollegavano all’ “albero cosmico” su cui per nove giorni e nove notti si rifugiò Odino, la massima divinità della mitologia norrena, prima che apprendesse la potente simbologia delle rune celtiche. Tra le usanze più famose e amate, tuttora diffusa in molte zone d’ Italia, c’è poi quella dei Canti del Maggio: il primo giorno del mese (o la notte precedente), i “maggianti”, anche detti “maggerini”, si recano di casa in casa – o percorrono le vie dei borghi, soprattutto in tempi di Covid – cantando versi gioiosi e pieni di brio intrisi di termini dialettali. Si tratta perlopiù di stornelli, accompagnati da chitarre, tamburelli e violini, che inneggiano al risveglio della natura e al ritorno di Dioniso (originariamente, il dio della vegetazione). In onore all’ allegria che sprigionano questi canti, i maggianti ricevono omaggi enogastronomici: un bicchiere di buon vino, una fetta di dolce, delle uova, uno spuntino…Simili soste consentono di osservare da vicino gli ornamenti a base di rose, viole, foglie di ontano e maggiociondolo sfoggiati dai maggerini, tutti fiori e piante tipici del mese appena iniziato e ricorrenti nel Cantamaggio. Che questa tradizione sia connotata da una forte valenza propiziatoria è ovvio, e anche qui risiede il suo fascino; non è un caso che affondi le radici presso popoli che attribuivano valori ben precisi alla ciclicità della natura: in particolare i Celti, affiancati dagli abitanti dell’ antica Etruria e dai Liguri.
Charles Daniel Ward, “The Progress of Spring” (1905), particolare
Per concludere, cari lettori di VALIUM: è Maggio, uno dei mesi più belli dell’ anno. La Primavera è esplosa in pieno e l’ Estate, con la sua afa, è ancora lontana. Mi piace pensare ai 28 giorni che ci aspettano immaginando di avventurarmi, rigorosamente al tramonto, lungo un sentiero fiancheggiato da cespugli di rose…
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