Il cappello di paglia: un must dello chic che contrasta i raggi UV

 

Proteggersi da Caronte anche dal punto di vista modaiolo: oggi esamineremo proprio questo aspetto. Un accessorio su tutti, in tal senso, si rivela un vero e proprio must. E’ il cappello di paglia, un copricapo nato secoli orsono nelle zone rurali. Anticamente, veniva utilizzato dalle popolazioni agresti per ripararsi dal sole mentre lavoravano nei campi. Nell’Ottocento, tuttavia, assunse un volto totalmente inedito: divenne la quintessenza dello chic. Lo indossavano gli uomini e le donne indifferentemente; il gentil sesso, dato che l’abbronzatura rimase tabù fino agli inizi del XX secolo, lo abbinava ad accessori come i guanti e gli ombrellini parasole. I cappelli di paglia cominciarono ad essere prodotti soprattutto a Signa, vicino Firenze, che si guadagnò l’appellattivo di “città della paglia”, ma anche in Svizzera. Oggi, il cappello di paglia è un evergreen. Non esiste estate che non lo veda protagonista: anno dopo anno, rimane l’accessorio di tendenza per antonomasia. Ed ancor più nel periodo attuale, con le temperature infuocate del cambiamento climatico. Persino gli esperti consigliano di proteggere il viso e il collo dai raggi UV indossando un cappello a tesa larga. Quale scelta migliore, dunque, di un cappello di paglia che coniuga la funzionalità con lo stile?

 

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Seven Magic Mountains, l’iconica opera di Land Art di Ugo Rondinone nel deserto del Nevada

 

Nel cuore del deserto del Nevada, a circa 30 minuti da Las Vegas, si innalzano pinnacoli in netto contrasto con il paesaggio circostante: sono sette, e a prima vista potrebbero sembrare totem o torri di pietra. I colori, molteplici e fluorescenti, li rendono ancora più impattanti. Ci troviamo davanti a un miraggio? Il nostro sguardo viene catturato immediatamente, la mente comincia a farsi domande. Perchè quelle sette monumentali sculture sono comparse all’ improvviso, in un luogo del tutto inaspettato, e decifrare la loro funzione è quasi imprescindibile. Ecco dunque la risposta: Seven Magic Mountains è una celebre opera di Land Art di Ugo Rondinone. L’ artista, nato in Svizzera nel 1964 e residente a New York, ha inaugurato il suo capolavoro l’ 11 Maggio del 2016 prevedendone la fruizione per due anni; in realtà, i totem variopinti e torreggianti rimarranno nel deserto per molto altro tempo ancora (forse fino al 2027). Il perchè non è difficile da intuire: l’ installazione è diventata iconica, quasi un emblema del paesaggio stesso. Il pubblico accorre a visitarla in massa, tanto più che per vederla non si paga neppure il biglietto. Ma con quale intento è nata e quale è stato il processo di lavorazione di Seven Magic Mountains? Il complesso si trova nel deserto del Mojave, precisamente nella valle di Ivanpah, e sorge su un terreno brullo circondato dalle montagne. A comporre l’ opera sono macigni calcarei sovrapposti verticalmente; si va da un minimo di tre pietre a un massimo di sei. L’ altezza delle “montagne” raggiunge i nove – dieci metri, e ciascun masso è tinto di un colore fluorescente. Osservando le sette creazioni, affiorano indizi di una sacralità primordiale: elementi del Hoodoo di matrice africana, residui totemici dei nativi americani appartenenti alla tribù degli Ojibway.

 

 

Coniugando Land Art e Pop Art, l’ opera in realtà sancisce un connubio tra natura e artificio. La sua realizzazione, che si è avvalsa del contributo di giovani land artist locali, è durata ben cinque anni. Prodotta dal Nevada Museum of Art e dall’ Art Production Fund di New York, Seven Magic Mountains si erge a pochi passi dal lago Jean Dry e fiancheggia l’ Interstate Highway 15 (che attraversa da nord a sud la California, il Nevada, l’ Arizona, lo Utah, l’ Idaho e il Montana). Rondinone ha dichiarato di essere subito rimasto colpito da quel tratto di deserto in cui regnano solo il silenzio e il sole. Ha pensato, quindi, di collocare proprio lì le sue sette montagne magiche, i sette cumuli di pietre accatastate l’una sopra l’ altra. L’ ispirazione riconduce a un tema predominante nel lavoro dell’ artista svizzero, il rapporto tra uomo e natura. Le sue sculture e i suoi dipinti rievocano spessissimo elementi cosmici e naturali: la luna, il sole, l’aria, l’universo…Natura, romanticismo ed esistenzialismo compongono per Rondinone una sorta di triade di riferimento. Da essa scaturisce il dualismo che permea l’ opera situata nel deserto. Le Seven Magic Mountains costituiscono un trait d’union che connette il naturale e l’ artificiale, la sedimentarietà e l’astrazione, la solidità e l’ equilibrio precario, il minimalismo e il romanticismo. Il misticismo, in questo mix, è presente eccome. Soprattutto nel suggerire riflessioni tra la divinità naturale e i simulacri di Las Vegas, a una manciata di chilometri dall’ installazione.

 

 

Le sette sculture, sicuramente, ispirano meditazioni. Pongono interrogativi, esortano a ragionare, a dedurre e a rinvenire collegamenti. Le loro cromie vivaci, le loro forme irregolari e massicce erompono come per magia dal suolo arido del Mojave. Immaginatele mentre si stagliano contro il suggestivo cielo del tramonto…Tra le mille luci di Las Vegas e quella landa solitaria e selvaggia, le Seven Magic Mountains si insinuano come un’ oasi di straordinaria poesia. Dal 2016 in poi, l’ installazione è stata visitata da milioni di persone. Turisti e autoctoni se ne sono innamorati al punto tale da far sì che i due anni inizialmente dedicati alla sua fruizione fossero prorogati. A causa del particolare clima del deserto, tuttavia, i totem sono stati sottoposti a frequenti restauri: i raggi del sole, le temperature – una media di 37 gradi tutto l’anno – e i persistenti venti sabbiosi rappresentano degli ineludibili fattori di danneggiamento. Le vernici utilizzate per tingere i massi, ad esempio, contengono pigmenti eco-compatibili che tendono a scolorire con il tempo. Ogni restauro è stato quindi eseguito nel massimo rispetto sia della salvaguardia ambientale che della presevazione di una delle più prestigiose opere di Land Art degli Stati Uniti da 40 anni a questa parte.