Il noce di Benevento: l’albero delle streghe tra leggenda, realtà e superstizione

 

Attorno al noce, l’albero che i Romani consacrarono a Giove (il nome botanico della pianta, Juglans regia, deriva da “Jovis glans”, in latino “la ghianda di Giove”), sono sorte innumerevoli leggende. Cominciamo col dire che, anticamente, alle noci si attribuivano delle portentose virtù curative: venivano considerate afrodisiache per la loro somiglianza con le gonadi dell’uomo, e benefiche per le emicranie in quanto la parte interna del frutto ricorda la forma di un cervello. L’albero della noce, tuttavia, nel corso dei secoli non si guadagnò lo stesso tipo di reputazione. Le sue radici contengono juglandina, una sostanza potentemente tossica che provoca il deperimento di tutte le specie vegetali sorte nelle vicinanze: ecco perchè il noce è una pianta così solitaria, raramente immersa nel fitto verde. Il Juglans regia, inoltre, veniva definito “maledetto” poichè con il suo legno era stata costruita la croce su cui venne crocifisso Gesù Cristo. La nomea negativa del noce era alla base di molte credenze, in particolare nell’ ambito della cultura agreste. Si pensava che addormentarsi sotto un noce avrebbe portato a soffrire delle forti emicranie, o che se le radici del noce si fossero sviluppate sotto una stalla avrebbero fatto soccombere il bestiame. Ma questa reputazione “maledetta” deriva soprattutto dal noce di Benevento e dalla sua associazione con le streghe, dal momento che si diceva che proprio ai piedi di quell’albero celebrassero il loro sabba.

 

Illustrazione tratta da “Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894” di Enrico Isernia, Benevento, Stabilimento Tipografico A. D’Alessandro e Figlio, 1895.

Le leggende riguardo al noce di Benevento presero vita in epoche remotissime, ma si consolidarono nel 1200. Prima di recarsi al sabba, le streghe si sfregavano il petto con un unguento e pronunciavano una formula magica; dopodichè, si libravano in volo a cavallo di una scopa. Grazie all’ unguento diventavano invisibili, puro spirito che fluttuava nel vento, tant’è che adoravano volare nella tempesta. L’ appuntamento era fissato per tutte sotto il noce di Benevento, dove si riuniva una moltitudine di streghe provenienti dalle località più disparate. Lì, durante il sabba, praticavano riti magici e blasfemi, danzavano, si lanciavano in orge sfrenate con i demoni e gli spiriti infernali…il tutto alla presenza del Demonio che sfoggiava le sembianze di un caprone. A Benevento le streghe venivano chiamate “janare”: prima della Seconda Guerra Mondiale, quando fu bombardato, esisteva un ponte dal quale si diceva che spiccassero il volo.

 

“Il grande caprone”, Francisco Goya (1795)

Una volta terminato il sabba, le streghe si dedicavano ai malefici e ad azioni terribili nei confronti degli abitanti del luogo. Si introducevano nelle case attraverso la fessura del portone, il che non era difficile data la loro consistenza incorporea, e infastidivano le famiglie addormentate: le sferzavano con una raffica di vento, oppure le opprimevano provocando un senso di soffocamento scaturito da una forte pressione sul petto. Ma non si limitavano certo a questo: le streghe erano in grado di far abortire le partorienti con un semplice incantesimo, storpiavano i neonati infliggendo loro un insopportabile dolore e a volte li rapivano per lanciarseli l’un l’altra sopra le fiamme del fuoco. Si diceva anche che, quando si intrufolavano nelle stalle, riempivano di trecce la criniera dei cavalli e che li riconsegnassero provatissimi dopo averli cavalcati per l’intera notte. Secondo antiche superstizioni, per tenere le streghe a distanza bisognava mettere una scopa e una ciotola di sale dietro la porta principale della propria casa: la strega non sarebbe potuta entrare senza aver contato, prima, tutte le setole della scopa e tutti i granelli di sale, ma a quel punto la luce del giorno l’avrebbe obbligata a fuggire.

 

“Départ pour le Sabbat”, cartolina di Albert Joseph Pénot (1910)

Ma dove si trovava, esattamente, il noce di Benevento? A dire di alcuni, nei paraggi del fiume Sabato (Sabatus in latino), da lì l’associazione con il sabba. Questa ubicazione fu detta Ripa delle Janare, però esistono molte altre ipotesi sulla collocazione dell’albero. Considero più importante sapere da dove ha preso vita la leggenda del noce delle streghe: nel VII secolo, Benevento era la città principale di un ducato longobardo, e il popolo germanico usava praticare dei raccapriccianti rituali pagani. All’epoca, sotto la reggenza del duca Romualdo I, i longobardi erano soliti onorare Odino con un rito piuttosto inquietante: il luogo in cui si svolgeva, guarda caso, si trovava proprio accanto al fiume Sabato. Dopo aver appeso la pelle di un caprone al ramo di un noce, i longobardi galoppavano sfrenatamente intorno all’albero tentando di strappare lembi della pelle con le loro lance. Poi, si cibavano dei brandelli come prevedeva il rituale. I cristiani di Benevento, sconvolti da quella pratica ai loro occhi barbara, cominciarono ad accostarla al sabba. Le urla dei guerrieri, la pelle di caprone, il trambusto provocato dal rito vennero associati, dai beneventani, a una riunione orgiastica organizzata dal Demonio e dalle streghe.

 

“Il noce di Benevento”, Giuseppe Pietro Bagetti (1816)

Barbato, un sacerdote di Benevento, espresse più volte la sua avversione per quella pratica pagana. Così, quando nel 663 la città fu assediata dai Bizantini, promise al duca Romualdo che gli invasori sarebbero arretrati grazie all’ intervento divino ma ad una condizione: il suo popolo avrebbe dovuto abbandonare il Paganesimo. Il duca acconsentì e, miracolosamente, i Bizantini batterono in ritirata. Secondo la leggenda, il duca Romualdo nominò Barbato vescovo di Benevento e quest’ ultimo corse subito a sradicare il famigerato noce. Nella località in cui sorgeva l’albero fece poi costruire una chiesa che chiamò Santa Maria in Voto. Nel Medioevo, tuttavia, a Benevento si ricominciò a parlare dei convegni delle janare. Due secoli dopo, queste voci vennero avvalorate da una donna accusata di stregoneria: secondo la sua testimonianza, le streghe erano solite riunirsi attorno a un noce. Lo scalpore suscitato dalla notizia fu immenso. Il Demonio aveva fatto sicuramente ricrescere l’albero che Barbato aveva abbattuto! Nel 1500, il ritrovamento di un mucchio di ossa sotto un noce riaccese i riflettori sulla vicenda. Tra le ipotesi sull’ origine della leggenda del noce di Benevento, quella relativa a Barbato (poi diventato Santo e Santo Patrono di Benevento) e ai riti dei Longobardi rimane, senza dubbio, la più accreditata. A tutt’oggi il mito del noce di Benevento continua ad affascinare, e le adunanze delle streghe hanno contribuito a creare un’aura magica su tutta la città campana e i suoi dintorni.

 

“El Alquelarre”, Leonardo Alenza y Nieto (1830-1845)

“La sorcière allant au Sabbat”, Luis Ricardo Falero (1880)

“Il Sabbath delle streghe”, Francisco Goya (1819-1823)

“La leçon avant le sabbat”, Louis-Maurice Boutet de Monvel (1880)

“Le Sabbat des sorcières”, Hans Baldung Grien (1508-1510)

 

Immagini

Foto di copertina di Моходу Хеу, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, da Wikimedia Commons

Dipinti, cartoline e incisioni Public Domain via Wikimedia Commons

 

Countdown to Halloween: inizia la maratona di VALIUM

 

“Il vento si appollaiava tra gli alberi, poi spazzava i marciapiedi con gli artigli sottili di un gatto. Tom Skelton rabbrividì. Tutti sapevano che il vento, quella sera, era un vento insolito; anche l’oscurità era insolita perchè era Halloween, la vigilia di Ognissanti. Tutto pareva tagliato in un morbido velluto nero, dorato, arancione. Il fumo si arricciolava fuori da mille camini, come i pennacchi di un corteo funebre. Dalle cucine esalava il profumo delle zucche; quelle svuotate della polpa e quelle che cuocevano dentro il forno. Il chiasso dietro le porte chiuse delle case crebbe in maniera impossibile, mentre ombre di ragazzi si stagliavano dalle finestre. Ragazzi semisvestiti, con la faccia truccata; qua un gobbo, là un piccolo gigante. Si frugava nelle soffitte, si forzavano chiavistelli, si buttavano all’aria vecchi bauli alla ricerca dei costumi. Tom Skelton si mascherò da scheletro. Sghignazzò soddisfatto ammirando la colonna vertebrale, le costole, le rotule che spiccavano candide sulla stoffa nera. Che fortuna il mio nome! pensava. Tom Skelton. Fantastico per Halloween! Tutti ti chamano Scheletro per canzonarti! Quindi come mi travesto? Da scheletro. “

Ray Bradbury, da “L’albero di Halloween”

 

Questo brano, tratto dal romanzo “L’albero di Halloween” di Ray Bradbury, inaugura la maratona che VALIUM dedica ogni anno alla vigilia di Ognissanti. Ci aspetta una settimana (o poco più) all’ insegna di un countdown perfettamente in linea con il 31 Ottobre e i suoi temi: eventi, moda, food, tradizioni, lifestyle, leggende e molto, molto altro ancora. Il tutto, va da sé, in salsa rigorosamente halloweeniana. Omaggeremo Samhain, l’antico Capodanno Celtico, che i mutamenti socio-epocali hanno tramutato in Halloween, la festa più attesa dell’ Autunno – una stagione, peraltro, ribattezzata “spooky season” dagli americani proprio in virtù dell’influenza che Halloween esercita su questo periodo dell’anno. Nelle città a stelle e strisce, zucche intagliate e decorazioni in stile horror stazionano davanti alle case già da inizio Ottobre. Noi dedicheremo a Samhain solo otto giorni, ma sono più che sufficienti per immergerci appieno nella sua atmosfera. Stay tuned e…segui il sentiero di mattoni arancioni!

 

Halloween e le sue tradizioni: dalle torte dell’anima al “Trick or Treat”

 

Il conto alla rovescia per Halloween è già iniziato: tutti ne parlano, gli eventi si moltiplicano, negozi e supermercati strabordano di zucche intagliate o da intagliare. Ma le tradizioni associate all’antico Capodanno Celtico non si limitano alla famosissima Jack-o’-lantern. Sapevate, ad esempio, dell’esistenza della soul cake? Questa “torta dell’ anima”, tondeggiante e ricca di spezie, ha le sembianze di un grande biscotto. Una croce la suddivide in quattro parti: può essere incisa sul dolce con il coltello oppure creata con una manciata di uvette, e in entrambi i casi simbolizza la sua valenza mistica. Le soul cakes sono nate nel Medioevo in Gran Bretagna e in Irlanda. Inizialmente le si preparava per i defunti, giacchè si credeva che sarebbero tornati a far visita ai vivi alla vigilia di Ognissanti (quindi ad Halloween o, come lo chiamavano gli antichi Celti, Samhain). Poi, però, prese piede una nuova consuetudine. Le soul cakes vennero destinate ai soulers, i questuanti che a Samhain bussavano di porta in porta cantando e dichiarando che, in cambio di un “dolce dei morti”, avrebbero recitato preghiere per i defunti. I soulers, in genere bambini o persone indigenti, venivano ricompensati con le torte dell’anima: si pensava che ogni torta mangiata avrebbe liberato un’anima dal Purgatorio.

 

 

L’a-souling era una tradizione molto simile al wassailing e ai Christmas Carols, due cardini del folclore britannico. Queste usanze si basavano sui canti natalizi porta a porta: la prima contemplava che i cantori portassero con sè una coppa beneaugurale di wassail (sidro di mele con spezie); la seconda, sorta in età vittoriana, vedeva protagonisti soprattutto i benestanti impegnati nel sociale, che grazie ai loro canti raccoglievano denaro per i poveri. I soulers, invece, in cambio delle torte dell’ anima recitavano preghiere. Ma come si preparavano, le soul cakes? Le loro varianti erano innumerevoli, accomunate però da un abbondante ripieno di spezie: non mancavano la noce moscata, lo zenzero, la cannella, il pimento, lo zafferano, mentre l’uvetta veniva utilizzata per le guarnizioni. La croce che le contraddistingueva era fondamentale, stava ad indicare che i dolci erano opere di bene. Le torte dell’ anima venivano impastate il giorno di Halloween e il 2 Novembre, solennità della commemorazione dei defunti. Il souling, invece, si praticava sia in occasione di queste date che nel periodo natalizio. E’ molto probabile che dall’usanza derivi il contemporaneo “Trick or Treat”, “dolcetto o scherzetto”, la frase pronunciata dai bambini ad Halloween nel corso della loro questa di caramelle. Verso la fine del XIX secolo, la tradizione del souling e delle torte dell’anima andò scemando. Alle porte delle case, ormai, bussavano perlopiù fanciulli ai quali si regalavano delle mele o qualche scellino.

 

 

I canti dei soulers, le cosiddette souling songs, per la loro particolarità e bellezza furono accuratamente trascritti nel corso dei secoli, mantenendo viva una tradizione di spicco del folklore inglese. E le soul cakes? Ho una buona notizia per voi: continuano ad essere preparate. Non sono destinate a una questua, ma con la loro valenza simbolica rendono Halloween ancora più speciale.

 

 

Foto: Yaroslav Shuraev via Pexels

Foto delle Soul Cakes: Samantha from Haarlem, Netherlands, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 

La cornucopia: storia, leggende e miti legati al “corno dell’abbondanza”

Carel Van Savoyen, “Un’ allegoria dell’abbondanza” (1651)

Che cos’è la cornucopia? Considerata un emblema dell’iconografia autunnale, oggi è perlopiù associata al Giorno del Ringraziamento che si celebra in America. Le sue origini, in realtà, sono antichissime ed affondano le radici nel Vecchio Continente. “Cornucopia” è un nome che deriva dall’ unione dei termini latini “cornu”, “corno”, e “copia”, “abbondanza”: questo corno dell’abbondanza, non a caso, viene raffigurato come un grande cono che strabocca di frutta, fiori, verdura o monete d’oro. La simbologia, evidente, rimanda alla fertilità della terra, ai doni del raccolto, e al tempo stesso alla fortuna. Perchè la fortuna è la “condicio sine qua non” per ottenere un ricco raccolto. E se la nascita della cornucopia viene generalmente fatta risalire alla mitologia greca, non sono pochi gli studiosi che la ricollegano ad un periodo antecedente alla civiltà ellenica: una dea italica, la dea Abundantia, aveva infatti come simbolo una cornucopia che la accompagna in tutte le sue rappresentazioni. Abundantia era la dea che dava vita e nutrimento ad ogni creatura vivente, ma anche la dea della fortuna e della prosperità. Il suo aspetto era quello di una giovane donna con una corona di fiori sul capo e un mantello verde impreziosito da decori floreali color oro. Regge nella mano destra una cornucopia ricolma di frutta e nella sinistra un mazzo di spighe. L’enorme corno dell’abbondanza rimanda al corno degli animali dai quali si ricava il latte: i bovini e i caprini, all’epoca, fornivano un prezioso mezzo di sostentamento.

 

Jan Bruegel, “Allegoria dell’ abbondanza” (XVII sec.)

Ma Abundantia era anche una dea lunare, il cui corno simboleggiava il corno della Luna, e in quanto tale era dotata di un ricco patrimonio interiore; regnava sul mondo dei vivi e su quello dei morti, ecco perchè in molte opere viene ritratta con una cornucopia vuota. Capace di dare la vita così come la morte, la dea proteggeva gli antenati delle famiglie romane. Gli spiriti protettori degli antenati, infatti, i cosiddetti Lari, sono raffigurati con una cornucopia in mano proprio come la dea Abundantia. La dea, inoltre, propiziava il benessere economico familiare e la conclusione di affari redditizi e vantaggiosi, da qui la miriade di monete che straripano dal suo corno. Con il passar degli anni, la figura di Abundantia venne assorbita da svariate dee del Pantheon romano, su tutte la dea Fortuna (divinità del Caso e del Destino). La dea Fortuna e i Lari erano figure veneratissime nell’ antica Roma:  vegliavano sulla gens e favorivano la sua prosperità. Agli spiriti protettori degli antenati si dedicava addirittura un larario, una sorta di sacrario domestico. Tuttavia, va detto che la cornucopia non era un’esclusiva della dea Abundantia o della dea Fortuna. Anche Cerere (divinità delle messi e dei raccolti), Tellus (divinità della Terra) e Proserpina (dea dell’ agricoltura e dell’ oltretomba) venivano associate al corno dell’ abbondanza: ciò costutuiva l’emblema della loro natura trina, che inglobava cioè cielo, terra e inferi. La madre di tutti gli dei e delle creature viventi, come abbiamo già visto, aveva il potere di dare la vita ma anche di toglierla.

 

Noel Coypel, “L’abbondanza” (1700 ca.)

Passiamo ora alla mitologia greca, dove le origini della cornucopia si intrecciano a due suggestive leggende. La prima vede protagonista Zeus, ovvero Giove, re e padre di tutti gli dei dell’ Olimpo. Zeus nacque dall’unione dei Titani Crono e Rea. Crono, suo padre, un giorno ebbe una premonizione: in futuro, uno dei suoi figli l’avrebbe spodestato. Così, decise di divorare la sua prole per impedire che si verificasse l’evento che tanto temeva. Rea, però, scoprì il piano di Crono e riuscì a nascondere Zeus in una grotta dell’ isola di Creta. Lì lo lasciò con Amaltheia, una capra che lo crebbe e lo nutrì con il suo latte. Esistono versioni della leggenda secondo cui Amaltheia sarebbe invece stata la ninfa proprietaria della capretta che allattò Giove. Figlia del Titano Oceano, la ninfa utilizzava uno dei corni dell’animale per nutrire Zeus: lo riempiva di frutta, miele, latte e tutto ciò che serviva per sostentare il piccolo figlio di Crono. La leggenda vuole che quando Giove crebbe, e divenne il re degli Olimpi, volle dimostrare la propria gratitudine alla capra innalzandola nel cielo con il suo corno e dando origine alla costellazione del Capricorno (da “caprum”, capra, e “cornu”, corno). L’altra versione del racconto narra invece che Zeus, una volta cresciuto, staccò un corno della capretta e lo dotò di poteri straordinari: bastava esprimere un desiderio e si sarebbe riempito di tutto ciò che veniva anelato. Ecco quindi come nacque la cornucopia, il corno dell’ abbondanza, per la mitologia greca. Ma esiste una seconda leggenda sulla sua genesi.

 

Frans Snyders, “Cerere e Pan” (1615-1620 ca.)

Acheloo, divinità fluviale greca, aspirava a sposare Deianira, la bellissima figlia di Eneo, il re degli Etoli. Ma anche Eracle, nato da Zeus e Alcmena, aveva chiesto la sua mano. Tra i due pretendenti scoppiò una lotta senza esclusione di colpi; Eneo annunciò quindi avrebbe dato Deianira in sposa al vincitore dello scontro. Acheloo e Eracle combatterono furiosamente: Acheloo, essendo un dio, approfittò delle sue doti trasformandosi dapprima in un serpente, poi in un drago, infine in un uomo con la testa di bue. Ma fu proprio grazie a quest’ultima metamorfosi che Eracle ebbe la meglio. Quando Acheloo si scagliò contro di lui per trafiggerlo con le sue corna, Eracle le afferrò e gliene strappò una. Acheloo cadde a terra stremato, la lotta era stata vinta dal figlio di Zeus. Vedendo il corno a terra, le Naiadi (ninfe delle acque) corsero a raccoglierlo e lo riempirono di frutta, fiori e ogni ben di Dio. Da quel momento in poi, il corno divenne sacro e fu considerato un simbolo di abbondanza: era nata la cornucopia.

 

Jan Bruegel Il Vecchio, “Le ninfe riempiono la cornucopia” (1615)

Gki emblemi a cui è legata la cornucopia, vale a dire la fertilità, la prosperità e l’abbondanza, rimangono più o meno gli stessi in tutte le civiltà che l’hanno adottata. Gli antichi Celti la scolpirono su una statuetta che raffigurava Epona, dea dei muli e dei cavalli, ma anche tra le mani di Olloudious, un dio che i Romani equipararono a Marte. Pare che per le popolazioni celtiche la cornucopia si associasse anche alla guarigione, mentre i persiani la collegavano alle offerte sacrificali con le quali i re omaggiavano dei. Ovidio nomina la cornucopia nelle “Metamorfosi”, il suo capolavoro, citando la leggenda di Eracle (ribattezzato Ercole dai Romani) e Acheloo. A Roma, intorno al II secolo d.C., la cornucopia rimandava prevalentemente alla dea Fortuna e ai Lari. Nel Medioevo, invece, il corno dell’ abbondanza si arricchì di un’ ulteriore valenza: l’onore. Ovvero l’abbondanza combinata con il prestigio e con il valore. In una miniatura dell’ Evangelario di Ottone III risalente all’anno 1000, quattro personificazioni delle province imperiali omaggiano Ottone III, Imperatore del Sacro Romano Impero, con preziosi doni. Inutile dire che tra essi spicca una cornucopia.

 

Evangelario di Ottone III, miniatura della scuola di Reichenau (1000 ca.)

Durante il Medioevo, dunque, l’accezione di abbondanza a cui rimanda la cornucopia si amplia, fondendosi a doppio filo con il lustro delle persone e dei luoghi. Non sono rare, infatti, le personificazioni di città, aree geografiche ed elementi naturali ritratte accanto ad una cornucopia; da allora, il corno dell’abbondanza appare di frequente nella simbologia araldica e lo ritroviamo persino sulle bandiere di determinati stati, uno dei quali è il Perù. Oggi la cornucopia viene associata soprattutto al Thanksgiving Day degli USA e del Canada. Il perchè è evidente: questa festa celebra l’abbondanza del raccolto dell’anno precedente e le sue benedizioni. La cornucopia, di conseguenza, quel giorno fa bella mostra di sè accanto al tacchino, alle patate dolci, alla salsa di mirtilli e alla torta di zucca. Naturalmente, è colma di frutta e verdura di stagione: zucche, uva, fichi, mele, noci, pere, granturco, cavolfiori…Cosa simboleggia, ormai lo sapete a memoria. E voi, quando inserirete la cornucopia tra le vostre decorazioni autunnali?

 

La cornucopia, imprescindibile sulla tavola del Thanksgiving

Pietro Paolo Rubens, “Cerere e due ninfe” (1624)

Dettaglio del Salone dell’Abbondanza alla Reggia di Versailles

Maarten de Vos, “Abbondanza” (1584)

Luca Giordano, “Maria Anna di Neuberg, regina di Spagna, a cavallo” (1693-94)

Jan Bruegel Il Giovane, “Allegoria dell’ Abbondanza” (1625)

Jan van Kessel Il Vecchio, “I quattro continenti: Europa” (XVII sec.)

Pietro Paolo Rubens, “L’unione di Terra e Acqua” (1618 ca.)

Una cornucopia contemporanea

Agnolo Bronzino, “Allegoria della Felicità” (1564)

 

Immagini dei dipinti (Public Domain) via Wikimedia Commons

 

Sole di Mezzanotte: nel Grande Nord, in estate, il giorno non finisce mai

 

Pensate a un Sole che non tramonta mai: una visione affascinante, ma tutto fuorchè un miraggio. Il Sole di Mezzanotte è un fenomeno astronomico che si verifica d’estate nelle zone a nord del Circolo Polare Artico e a sud del Circolo Polare Antartico. Più ci si avvicina al Polo, più il Sole rimane fisso sopra l’orizzonte. Ciò è determinato dall’ inclinazione dell’asse terrestre a latitudini superiori o equivalenti a 66°33′49.5“: in tali aree, il Sole “galleggia” sull’orizzonte per una serie di giorni o per mesi interi. La durata del fenomeno dipende dalla latitudine. Ad esempio, il Circolo Polare Artico (collocato sul parallelo 66°33′ 49″ di latitudine nord), rappresenta l’area più meridionale in cui il Sole di Mezzanotte appaia. In questa zona, il fenomeno coincide con il Solstizio d’Estate e non oltrepassa le 24 ore. I paesi in cui è possibile assistere allo spettacolo del Sole di Mezzanotte sono le regioni settentrionali del Canada, dell’ Alaska, della Russia, della Groenlandia, e poi ancora l’Islanda (dove è visibile per rifrazione) e la Lapponia norvegese, svedese e finlandese. Come vi ho già accennato, più ci si sposta a nord del Circolo Polare Artico, più la notte è destinata a indietreggiare: basti pensare che nelle Isole Svalbard, situate all’estremo nord della Norvegia, il Sole di Mezzanotte splende ininterrottamente dal 20 Aprile al 22 Agosto.

 

 

Al Polo Nord, invece, dura addirittura da fine Marzo a fine Settembre. Ma cosa rappresenta il Sole di Mezzanotte, al di là delle latitudini e dei paralleli? Innanzitutto, ore di luce ininterrotta in un cielo che si tinge di volta in volta dei colori dell’alba, del giorno o del tramonto. Ciò comporta un totale stravolgimento nelle regole che scandiscono il tempo: la notte non esiste, i ritmi si ribaltano a nostro piacimento. A fare da denominatore comune è la prorompente euforia che travolge le persone. L’energia straordinaria, la gioia di vivere irrefrenabile che si impossessa dei popoli del Grande Nord. E’ come se la luce del Sole irradiasse potenza e spazzasse via ogni traccia di sonno e di stanchezza. Si vive a contatto con la natura, si fanno gite in bici, si pagaia tra i fiordi, si va a pesca, si organizzano safari di Whale Watching, si fanno bagni di mezzanotte…I musei, le attività e le attrazioni turistiche sono sempre aperti. Molti piantano una tenda nel bel mezzo di paesaggi incantevoli per godersi l’aria pura e la luce dai colori incredibili di queste giornate senza fine.

 

 

Alle isole Svalbard, nel Mare Glaciale Artico, si esplorano i ghiacciai e si fanno escursioni in slitta per ammirare la sorprendente natura delle zone polari. L’iperattività è il leitmotiv di ogni giornata, il cui principio e la cui fine sono regolati soltanto dagli orari di lavoro: i momenti dedicati al tempo libero risultano perfettamente personalizzabili.

 

 

Il popolo dei Sami, altrimenti detti lapponi, chiamava “Beaivi” sia il Sole che la dea del Sole. I Sami erano soliti sacrificare una renna bianca ad ogni Solstizio d’Inverno per favorire il ritorno di Beaivi dopo i lunghi mesi freddi e privi di luce. Quando il Sole cominciava a fare capolino, la tradizione voleva che i Sami appendessero panetti di burro sulle porte affinchè Beaivi salisse sempre più in alto senza difficoltà. Durante il Solstizio d’Estate, si intrecciavano collane di foglie e fiori in omaggio a Beaivi. Sempre in Estate, inoltre, i Sami dedicavano preghiere a chi soffriva di depressione, una patologia a loro dire provocata dalla mancanza di luce patita durante l’Inverno. In Scandinavia, non a caso, la Festa di Mezza Estate (Midsommar, cade il venerdì tra il 19 e il 25 Giugno) viene celebrata con grande entusiasmo. I festeggiamenti e i rituali ricordano molto quelli tipici di San Giovanni Battista. Un esempio? L’ aspetto della divinazione: se una giovane donna, la notte di Midsommar, dorme con sette fiori sotto il cuscino, le apparira’ in sogno il suo futuro sposo. Quando arrivava il Sole di Mezzanotte, in Groenlandia, ai bambini si raccomandava di non girovagare troppo: avrebbe potuto rapirli il qivittoq, un esiliato che il clima gelido del paese aveva tramutato in un’anima errante.

 

 

Se avete in programma un viaggio per ammirare il Sole di Mezzanotte, questo è il periodo ideale. Nella maggior parte dei paesi a nord del Circolo Polare Artico, infatti, appare in un periodo compreso tra la fine della Primavera e l’Estate inoltrata. Nella Lapponia finlandese il fenomeno è visibile dal 26 Giugno al 7 Agosto, nelle Isole Lofoten (Norvegia Settentrionale)  dal 20 Maggio al 22 Luglio: un lasso di tempo che più o meno coincide con quello dell’ Isola di Grimsey, in Islanda. In Norvegia, nella mitica Capo Nord, il sole non tramonta dal 14 Maggio al 29 Luglio. Nella suggestiva Kiruna, la città più a nord di tutta la Svezia, il Sole di Mezzanotte è visibile da fine Maggio a metà Luglio, mentre a Helsinki il sole tramonta, ma solo per un paio d’ore al giorno: un evento che dona un fascino incommensurabile alla capitale della Finlandia.

 

 

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Notte di San Giovanni, la “notte delle streghe”: tre antichi rituali sotto il magico influsso della rugiada

 

Chi nasce la notte di San Giovanni non vede streghe e non sogna fantasmi.

(Proverbio Popolare)

 

Se il Solstizio d’Estate è governato dal Sole, sulla notte di San Giovanni la Luna regna assoluta. Anche se la tradizionale accensione dei falò appartiene a entrambe le ricorrenze, la notte che precede il 24 Giugno (solennità della nascita di San Giovanni Battista) viene considerata una notte magica ed è associata a un tripudio di credenze e di rituali. Per gli antichi popoli nordeuropei, non a caso, rientrava nella triade delle notti degli Spiriti insieme a Calendimaggio e Samhain (più conosciuto come Halloween). Ma la notte di San Giovanni è stata anche ribattezzata la “notte delle streghe”, perchè, secondo il folklore popolare, tra il 23 e il 24 Giugno le fattucchiere si radunavano attorno al noce di Benevento per celebrare il Sabba. Sempre alle streghe rimandano le erbe tradizionalmente raccolte questa notte, dalle virtù miracolose, e le capacità divinatorie, che nelle ore antecedenti all’ alba di San Giovanni Battista sarebbero particolarmente sviluppate. Chi meglio delle streghe, infatti, era in grado di padroneggiare le arti dell’erboristeria e della divinazione? Nella magica notte di San Giovanni, un rituale prevedeva che posizionando dei mazzi di erbe sotto il cuscino si propiziassero sogni a carattere divinatorio. La divinazione è un tema ricorrente, legata in particolare agli indizi che poteva fornire alle giovani donne sull’identità dell’uomo che avrebbero sposato. Esistono innumerevoli pratiche al riguardo, diffuse in tutta Europa ma differenti da regione a regione; un ruolo chiave spetta alla rugiada di San Giovanni, associata alla Luna (e alla dea Artemide) come l’acqua e quindi impregnata di magici poteri. Le erbe raccolte il 23 Giugno, generalmente la ginestra insieme all’iperico e a piante aromatiche come il timo, il rosmarino, la salvia, il basilico, la rosa, l’alloro, la lavanda, il finocchio selvatico, la maggiorana, il caprifoglio e il fiore di tiglio, venivano esposte alla rugiada notturna e tenute a bagno fino all’alba prima di essere utilizzate per lavarsi il mattino dopo. La cosiddetta “acqua di San Giovanni” era considerata un toccasana per la pelle e una protezione da tutti i “malanni”, come recita un noto proverbio.

 

 

Nelle Marche, più precisamente a Fabriano, la “città della carta” circondata dai monti dell’ Appennino umbro-marchigiano, le giovani donne usavano versare la chiara dell’ uovo in un bicchiere e poi posizionavano quest’ ultimo fuori casa, sotto il magico influsso della rugiada: il mattino dopo, la forma che aveva assunto la chiara avrebbe offerto indizi sul futuro sposo di colei che aveva effettuato il rituale.

 

 

Un altro rito fortemente legato alla notte di San Giovanni è la preparazione del nocino, un liquore a base di noci verdi impreziosito da erbe e da deliziose spezie che gli donano un sapore inconfondibile. Le origini di questo liquore sono remotissime: pare che fosse molto apprezzato sia dagli antichi romani che da popolazioni celtiche come quella dei Picti. La tradizione vuole che, durante la notte di San Giovanni, una donna salga su un noce scalza e che raccolga le noci rigorosamente a mani nude. Il numero di noci raccolte dev’essere dispari; dopodichè, utilizzando il loro mallo, si procede alla preparazione del liquore. La bevanda attirerà la ricchezza e il benessere ad ampio spettro per tutti i mesi a seguire. Anche in questo caso, la rugiada della notte di San Giovanni riveste un ruolo fondamentale: le noci, infatti, vengono esposte alla guazza notturna prima della macerazione in alcool. Il nocino è ricco di proprietà salutari. Anticamente, le sue virtù digestive, antibatteriche, antinfiammatorie e antifungine lo rendevano un vero e proprio antidoto contro un gran numero di patologie. Le origini del liquore sono legate ai rituali che le streghe compivano attorno al noce di Benevento già nel VI secolo d.C. Lì danzavano, lanciavano incantesimi e nella notte tra il 23 e il 24 Giugno, una delle più corte dell’ anno, raccoglievano noci acerbe per propiziare un’esistenza perpetua all’ albero nei giorni in cui il buio era sconfitto dalla luce. Ma il nocino non si beve a San Giovanni: il 24 Giugno, il mallo viene posto in infusione nell’alcool  dove rimane fino alla notte di Samhain, o Halloween che dir si voglia. Sicuramente, una data non casuale.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Il maggiociondolo, uno sfarzoso tripudio di fiori gialli tra leggende e tradizioni

 

Fiorisce a Maggio, come suggerisce il suo nome. E se vi è capitato di vederlo, potete star certi non lo dimenticherete: i suoi grappoli di fiori gialli pendono dai rami come una rigogliosa cascata. La somiglianza con quelli del glicine è evidente. A differenziarli è il colore, un giallo brillante che cattura lo sguardo e lo riempie di meraviglia. La pianta di cui sto parlando è il maggiociondolo (nome botanico Laburnum anagyroides), un piccolo albero che appartiene alla famiglia delle Fabacee. La sua altezza è compresa tra i 4 e i 6 metri e sfoggia grappoli del colore del sole che raggiungono i 25 cm di lunghezza. I fiori, profumatissimi, ciondolano dai rami ad ogni alito di vento: da qui il nome “maggiociondolo”.

 

 

Il legno del tronco è molto scuro e super resistente. I frutti dell’ albero si presentano come baccelli contenenti innumerevoli semi neri, ma nascondono un’insidia: sono ricchi di citisina (un alcaloide), il che significa che sono estremamente velenosi per l’uomo e per alcune specie animali. La brutta notizia è che del maggiociondolo non risultano velenosi solo i semi. Quest’ albero, infatti, è velenoso nella sua interezza. “Guardare e non toccare” potrebbe essere il motto che lo rappresenta. Gli animali a maggior rischio avvelenamento sono i cavalli, le capre, le mucche: se queste ultime brucano i rami della pianta, c’è il pericolo che la tossicità si trasmetta finanche nel loro latte. I semi sono particolarmente letali, soprattutto se non ancora maturi. Ci si può intossicare anche ingerendo un solo seme, e consumandone molti si mette a rischio la propria vita. Misteriosamente, tuttavia, animali selvatici quali le lepri, i cervi e i conigli si nutrono dei semi del maggiociondolo senza incorrere in spiacevoli conseguenze: è uno dei motivi per cui questa pianta viene considerata magica sin da tempi remotissimi. Ed è proprio in virtù di ciò che vi parlo del maggiociondolo, un albero altamente simbolico, associato a molteplici leggende e a secolari tradizioni, nello specifico quelle della notte di San Giovanni.

 

 

Il Laburnum cresce nelle zone temperate ed è diffuso principalmente nell’ Europa del Sud: l’area sudorientale della Francia, catene montuose come le Alpi e gli Appennini, i rilievi della Penisola Balcanica. L’habitat in cui si sviluppa è il bosco. Il legno scurissimo e solido del maggiociondolo, che negli esemplari anziani accentua queste sue caratteristiche, è valso alla pianta l’appellativo di “falso ebano”, poichè può sostituirlo perfettamente.  Antiche leggende ricollegano l’albero alla figura delle streghe: pare che, nel Medioevo, si servissero dei suoi semi per la preparazione di elisir e pozioni magiche, mentre durante i Sabba erano solite cavalcare bastoni ricavati dal suo legno. Ma il maggiociondolo non è un albero che rimanda unicamente a connotazioni “malefiche”. I riti della notte di San Giovanni, ad esempio, prevedevano che venissero accesi dei falò con i rami di sette alberi, tra cui, appunto, il maggiociondolo. I falò ardevano con valenza purificatoria, in omaggio al sole e per alimentare l’energia interiore. Tale usanza persiste in molte aree geografiche.

 

 

Tornando alle streghe, vale la pena di approfondire alcuni aspetti del loro utilizzo del maggiociondolo. Le pozioni che preparavano con i componenti dell’albero sortivano effetti psicotropi: “liberavano” dal peso del corpo, davano l’illusione di poter levitare nell’aria. Lo scopo era quello di alterare lo stato di coscienza per esplorare nuove dimensioni. Questa pratica, chiamato “volo della strega”, veniva effettuata nel corso dei raduni. Il bastone di maggiociondolo utilizzato durante il sabba, invece, era un palese simbolo fallico, ma anche una sorta di strumento di riconoscimento che decretava lo status di strega. Simboleggiava inoltre il volo, il trionfo nei confronti della materia e delle costrizioni corporali. Pare che proprio da tale tipo di verga nacque la leggenda della “scopa volante”: per sfuggire agli inquisitori, le streghe usavano cammuffare i loro bastoni tra mazzi di saggina. Davano così l’impressione di essere delle normalissime scope.

 

 

In tempi remoti, il maggiociondolo era chiamato anche “pioggia d’oro” per la teatralità dei suoi grappoli fioriti. La chioma dell’ albero, un tripudio sfarzoso di giallo, è stata celebrata da poeti e letterati. Il poeta inglese Francis Thompson, in un suo componimento, definisce il maggiociondolo “miele di fiamme selvagge”. J.R.R. Tolkien, l’autore de “Il Signore degli Anelli”, inserisce la pianta nell’ opera mitologica “Il Silmarillon” e lo identifica con Laurelin, l’Albero d’Oro della terra primordiale di Valinor. Anche Sylvia Plath cita spesso il maggiociondolo nei suoi versi; la poesia “The arrival of the bee box” recita: “C’è il laburno, con i suoi biondi colonnati,/E le gonnelle del ciliegio”. Persino Giovanni Pascoli lo nomina ne “La capinera”.

 

 

Per concludere, una leggenda che fa riferimento al territorio abruzzese. Si narra che la Frigia, una remota regione situata in Asia Minore, fosse popolata da guerriere gigantesse chiamate “Majellane”. Maja, una di loro, ebbe un figlio da Giove che partorì in Arcadia, sulle alture del Monte Cillene. Hermes – così fu battezzato il bambino – divenne un giovane di bellissimo aspetto e imponente come sua madre. Un giorno, dopo che rimase ferito durante una terribile battaglia, Maja lo condusse in un luogo dove proliferavano erbe officinali di ogni genere: il Monte Paleno, nell’attuale Abruzzo.  Purtroppo, però, quando raggiunsero il Monte si accorsero che era completamente ricoperto di neve e per Maja risultò impossibile procurarsi la pianta di cui era in cerca. Hermes morì e sua madre cadde nella disperazione più totale. Il pianto della gigantessa risuonò tra le valli del massiccio montuoso per un anno intero, dopodichè fu stroncata dal dolore. Sceso sul Monte, Giove provò un’enorme sofferenza nel constatare che Maja era morta. In suo ricordo, allora,  creò il maggiociondolo, un alberello che “esplodeva” di fiori gialli, e le dedicò il mese di Maggio (poichè era il mese della fioritura). Sebbene non fosse più in vita, Giove elevò la madre di Hermes a ninfa delle selve e delle sorgenti del Monte. Ordinò che il Paleno fosse ribattezzato Monte Majella, un nome che onorava la memoria di Maja, e stabilì che sarebbe diventato il tempio eterno della donna che aveva amato suo figlio di un amore così profondo.

 

 

 

Il luogo: la Feria de Abril di Siviglia, per catturare lo spirito della cultura andalusa

 

Siviglia è speciale perché emoziona e commuove, perché dà corpo alla bellezza e alla grazia dei sogni. Perché è Musa e Artista al tempo stesso, perché vive nel presente proiettando la sua Storia nel futuro”

(Plácido Domingo)

 

La Primavera inoltrata è il periodo migliore per visitare Siviglia, una città dove si respira la quintessenza dello spirito della Spagna. E quale occasione migliore della Feria de Abril, per volare nella capitale dell’ Andalusia? Fondata nell’ VIII secolo a.C., Siviglia è attraversata dal fiume Guadalquivir e abbonda di edifici, piazze, giardini e monumenti che recano le impronte dell’antica dominazione araba. In città il flamenco si balla ad ogni angolo di strada, i “bailaores” proliferano; nelle taverne le “tapas” si degustano con celeberrimi vini locali quali il Fino, la Manzanilla e lo Jerez. La movida è alle stelle, e lo splendore di opere architettoniche del calibro degli Alcazar, l’ Archivio delle Indie, la Cattedrale e la Giralda è valso loro il titolo di Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ma che cos’è la Feria de Abril, e quando si tiene esattamente?

 

Il manifesto della Feria de Abril del 1961

Questa straordinaria settimana di festa, la più eclatante manifestazione folclorica dell’ intera Andalusia, si svolge ogni anno dopo circa 15 giorni dalla Settimana Santa. Quindi, nel pieno della Primavera: il periodo ideale per ritrovarsi tutti insieme nel “recinto ferial” (collocato tra i quartieri di Los Remedios e Tablada) e mangiare, bere Rebujito (una bevanda a base di vino Fino o Manzanilla mescolato alla gazzosa), divertirsi e ballare flamenco da mattina a sera. Quest’ anno, la Feria inizierà il 23 e terminerà il 29 Aprile. A partire dal 2017, tuttavia, i festeggiamenti cominciano il sabato sera per poi protrarsi fino alla notte del sabato successivo, quando si chiudono con uno strabiliante show di fuochi d’artificio sulle rive del Guadalquivir. Perciò l’inaugurazione vera e propria, imperdibile, si terrà sabato 22 Aprile: quella sera si potrà assistere alla cerimonia dell’ “alumbrao de la Portada”, l’accensione della spettacolare porta d’ingresso al cosiddetto Real de la Feria (lo spazio che la Feria occupa), e si svolgeranno le “cene del pescaito”, a base di pesce fritto, che vengono preparate in ogni stand. L’ inaugurazione è un momento importante, ma non è necessario indossare il classico “traje de flamenca”. Dal giorno dopo in poi, invece, via libera all’ abbigliamento tradizionale!

 

La Portada del 2013 in tutto il suo splendore

L’area adibita alla Feria, che occupa oltre 450.000 metri quadrati, è ricoperta di “albero”, un terriccio arancione simile alla sabbia proveniente da Alcalà de Guadaira, ed è solcata da 15 vie che prendono il nome da altrettanti storici toreri sivigliani. Ogni “calle” è illuminata da miriadi di “farolillos“, lampadine racchiuse in scenografiche sfere cartacee, e i 1051 stand sono denominati “casetas”, casette, perchè quel che riproduce la Feria è un’autentica città in miniatura: un microcosmo dove, per una settimana, ci si può immergere nella cultura andalusa più verace. E’ importante dire che la struttura della “portada”, la gigantesca porta d’ingresso, varia di anno in anno, ispirandosi ogni volta a un monumento o a una caratteristica del luogo. L’accensione della porta rappresenta un momento cruciale: per molti è come un Capodanno, il preludio ad istanti che traboccano di gioia e di emozioni. La Feria de Abril concentra in sé tutto il sentire di un popolo, le sue tradizioni, i segni distintivi della sua storia…Lungo le calles ci si sposta a cavallo oppure in carrozza (le distanze sono notevoli), le casette sono in gran parte private proprio per evocare l’idea di una mini-città. Solitamente, quindi, è possibile visitarle su invito, a parte le casette del Comune, quelle che rappresentano i quartieri di Siviglia e quelle dei partiti politici. I colori, gli addobbi e gli ornamenti, non c’è bisogno di dirlo, sono incredibili e riprendono cromie ed elementi tipici dell’ Andalusia. Lo stesso discorso vale per i “farolillos”, 237.000 in totale, che illuminano suggestivamente ogni calle. All’ interno delle casette predominano i fiori, affiancati a tavoli e sedie variopinte per lasciar spazio alla convivialità. Nel Real de la Feria è anche presente un immenso parco giochi chiamato Calle del Inferno. Qui si trovano attrazioni come una ruota panoramica e un centinaio di “cacharritos”, le giostre per i più piccoli.

 

 

L’aria di Aprile, a Siviglia, è mite anche di notte; veicola il fermento e l’entusiasmo al pari dell’aroma del pesce fritto e delle note di chitarra che accompagnano il flamenco. La gente è ospitale, allegra, cordialissima. Non è difficile, per i turisti, essere invitati a bere o a mangiare nelle casette: la socializzazione è uno dei punti cardine della festa. Potrete scoprire le delizie gastronomiche ed enologiche locali in un clima assolutamente unico, improvvisarvi “bailaores”, lasciarvi contagiare dall’ amore che i sivigliani nutrono per la propria cultura.

 

 

Tutto grazie alla Feria de Abril, una Feria dove è d’obbligo, per gli uomini, indossare il tradizionale “traje corto” (composto da un giacchino che termina all’ altezza della vita, pantaloni aderenti e stivali) abbinato al “cordobés”, un cappello a falda larga con calotta piatta, mentre alle donne è richiesto di sfoggiare le “faralaes”, i caratteristici abiti da flamenca ricchi di balze, colorati e tempestati di grossi pois. Questo look viene impreziosito da fiori tra i capelli, enormi orecchini a cerchio, mantillas o grandi scialli ornati di frange.

 

 

La Feria de Abril nacque come fiera del bestiame nel 1847. Ad organizzarla furono il catalano Narciso Bonaplata e il basco José Maria Ybarra. La prima edizione si svolse il 18 Aprile nel Prado di San Sebastiàn con il benestare della Regina Isabella II. Nel 1848, la Feria aveva già cambiato volto: a contribuire alla metamorfosi fu la presenza delle casette del Comune di Siviglia, del Casinò cittadino e del Duca e la Duchessa di Montpensier. L’evento esplose nel pieno degli “anni ruggenti”, gli anni ’20 del ‘900, e da allora il suo successo fu costantemente in ascesa. Basti pensare che oggi, ogni giorno, vanta 500.000 visitatori! Se avete intenzione di viaggiare a Siviglia in occasione della Feria de Abril, non mancate di ammirare le innumerevoli meraviglie cittadine: la Cattedrale con la torre campanaria della Giralda, appartenente a un’antica moschea, la stupefacente Plaza de Espana, solcata da un canale che è possibile percorrere in barca, l’Alcazar, fortezza reale araba dall’architettura sbalorditiva e corredata di splendidi giardini interni, la Torre del Oro, una torre di sorveglianza duecentesca edificata sulle rive del Guadalquivir, i suggestivi quartieri moreschi con le loro viuzze strette e le numerose piazzette…In questo caso, vi consiglio il Barrio de Santa Cruz. Ho citato solo alcune delle principali attrazioni situate nella capitale andalusa. Lascio a voi il compito di scoprire Siviglia a poco a poco, compresi gli angoli meno battuti dai turisti: l’ intera città è intrisa di un fascino tale da mozzare il fiato.

 

 

Foto della Feria de Abril, dall’ alto verso il basso:

Manifesto Feria de Abril 1961 di Halloween HJB, CC0, via Wikimedia Commons. Portada del 2013 di Agustín Macías, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons. Gruppo di donne in abito flamenco fotografate di spalle di Sevilla Congress & Convention Bureau, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons. Donne in abito flamenco davanti a casetta con strisce bianche e rosse di Tom Raftery via Flickr CC BY-NC-SA 2.0. Panorama della Feria serale dall’alto di Zifra Ra, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons. Gruppo di donne in abito flamenco con fiori tra i capelli di Sevilla Congress & Convention Bureau from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette in pieno giorno con farolillos via Joaquin O.C. from Flickr CC BY-NC 2.0. Casetta con strisce bianche e rosse di Radio Sevilla  di Frobles, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons. Carrozza via Julie Raccuglia from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette fila a sinistra con farolillos di Sandra Vallaure, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons. Feria de Abril di notte panorama con Portada di Sevilla Congress & Convention Bureau from Flickr CC BY-SA 2.0. Casette sullo sfondo a destra con donne in abito flamenco e farolillos di EdTarwinski, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons. Tutte le altre foto via Piqsels, Unsplash, Pixabay e Pexels.

 

Imbolc, la festività celtica del 1 Febbraio

 

Il freddo è polare, la neve spadroneggia in diverse regioni. Ma lo spiraglio di luce che ha iniziato a manifestarsi dal 21 Dicembre, ormai è evidente: le giornate si sono allungate, il sole comincia a fare capolino e i bucaneve fioriscono, generando un’ illusione di Primavera in mezzo al gelo. A livello temporale ed astronomico ci troviamo nel punto intermedio tra il Solstizio d’Inverno e l’Equinozio di Primavera. Non è un caso che il 1 Febbraio gli antichi Celti festeggiassero Imbolc, una ricorrenza che sanciva il culmine dell’ Inverno o, in paesi come l’Irlanda, il principio della Primavera. Il nome della festa ha molteplici varianti e significati: “Imbolc”, letteralmente “grande pioggia”, sta ad indicare il periodo di transizione stagionale, ma in senso figurato designa la purificazione dalle “scorie” invernali. “Oimelc”, un’altra denominazione della festa, è sinonimo di “lattazione degli ovini”. “Imbolg”, che testualmente si traduce con “nel sacco”, ha l’accezione di “in grembo”. La Natura, infatti, si prepara a rinascere nel grembo di Madre Terra, e con essa gli agnelli che vedono la luce all’ inizio della bella stagione. Il latte di pecora rappresentava all’ epoca un’ importante fonte nutrizionale: era (ed è) la materia prima per la produzione del burro, del siero di latte e di svariati formaggi, ma conteneva anche una grande quantità di calcio, proteine e vitamine. Dei dettagli di rilievo, ai tempi in cui il sostentamento costituiva la linea di confine che separava la vita dalla morte.

 

 

Un’ altra caratteristica di Imbolc è la sua valenza di “festa della Luce”. Era d’uso accendere lanterne, falò e candele per simboleggiare l’ allungamento delle giornate e propiziare un rapido arrivo della bella stagione. I Celti onoravano Brigid, dea della fertilità, della Primavera ma anche del triplice Fuoco che risplende sui poeti, sui fabbri e sui guaritori, categorie di cui la dea è la protettrice: esiste un fil rouge costante che connette il sacro fuoco dell’ ispirazione, la fucina del fabbro e l’ energia che purifica e guarisce. Il motivo della purificazione è legato al fuoco a doppio filo; per Brigid, il primo dei quattro elementi si associa inoltre alla propulsione vitale, una forza che dalle più profonde viscere della Terra si irradia alle entità naturali e interrompe il loro lungo sonno invernale. Brigid è la giovane dea, nell’ Irlanda celtica veniva considerata anche la patrona dei pozzi e delle sorgenti. La leggenda vuole che sia nata all’ alba di Imbolc (l’alba, collocata a metà tra notte e giorno, era uno dei “luoghi di mezzo” venerati dai Celti); una fiamma arde sulla sua fronte, il cigno è il suo animale totem poichè simboleggia il candore, la regalità e il mutamento. Quando arrivava Imbolc, all’aurora, i Celti accendevano falò in onore di Brigid, ed è sempre la dea del triplice Fuoco che invocavano le partorienti. Le celebrazioni del 1 Febbraio iniziavano immancabilmente al tramonto del giorno prima, perchè per il calendario celtico ogni giornata cominciava al calar del sole.

 

 

Con l’ avvento del Cristianesimo, la festività pagana di Imbolc venne sostituita dalla Candelora, che celebra la presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme; durante la messa, la tradizionale benedizione delle candele omaggia la luce di Cristo. La ricorrenza di Santa Brigida, invece, prese il posto dell’adorazione della dea Brigid: la santa, una badessa irlandese, insieme a San Patrizio fu attivissima nell’ evangelizzazione del suo paese.

 

Brigid in un dipinto di John Duncan, “The coming of bride”, del 1917

 

 

Il luogo: la Finlandia, il Paese più felice al mondo del 2022

 

“La Finlandia vuol essere scoperta, poichè non ha bellezze sgargianti o violente che l’osservatore superficiale possa cogliere così a volo dopo una fuggevole osservazione. Chi giunge in questo paese deve gettare lontano da sé ogni sorta di inquietudine quotidiana, deve aprire ben bene gli occhi e la mente per sentire e comprendere l’anima del paesaggio e le sue nascoste armonie. Così soltanto potrà tornare felice e ricco di impressioni nuove al suo paese.”

(Börje Sandberg)

 

Dopo aver trascorso il Natale a Tallinn, in Estonia, VALIUM torna nel Grande Nord. Stavolta, ci spostiamo ancora più in direzione della Stella Polare: siamo in Finlandia, un Paese dalla superficie totale di 338.424,38 km2 di cui un decimo è occupata da laghi di origine glaciale. La terra del Sole di Mezzanotte, confinante a est con la Russia, a nord con la Norvegia, a ovest con la Svezia e a sud con il Golfo di Finlandia, è un luogo straordinariamente affascinante. Le foreste ricoprono il suo territorio a perdita d’occhio, occupando l’86% del Paese; nella parte più settentrionale, a nord del Circolo Polare Artico, è possibile ammirare fenomeni quali l’aurora boreale. Lì si estende la Lapponia, il cui capoluogo – Rovaniemi – viene considerato la patria di Babbo Natale. Morfologicamente, in terra finnica si alternano monti (basti pensare alla catena dei Monti Scandinavi a nord-est del Paese), tundra (in Lapponia, dove prevale l’allevamento delle renne), fiumi (come l’ Oulujoki e il suo sistema fluviale), laghi (nell’area sud-orientale è situata la celebre Regione dei Laghi), ghiacciai e una costa frastagliata fronteggiata a sud dalle Isole Aland. Il mare che bagna la Finlandia è il mar Baltico e da ciò si evince che il litorale, soprattutto durante l’ Inverno, sia scarsamente praticabile a causa delle acque ghiacciate.

 

 

Ma qual è, esattamente, il motivo che ci ha spinti fino in Finlandia? La risposta è molto semplice: questo Paese, per il quinto anno consecutivo, è stato eletto il più felice al mondo dal World Happiness Report (elaborato dal Sustanaible Development Solutions Network dellONU). Viene quindi spontaneo esaminare le ragioni che hanno determinato la conquista di tale titolo. Cioè: perchè la Finlandia è un Paese felice, e su quali basi si fonda la sua felicità? Lo scopriremo subito insieme.

 

 

Il rapporto del World Happiness Report, innanzitutto, analizza il livello di felicità – dove per “felicità” si intende un’alta qualità della vita –  di un totale di 156 Paesi relativamente al benessere degli autoctoni, e di 117 rispetto a quello degli immigrati. Vengono presi in esame criteri come il reddito, la salute, la sicurezza, l’ istruzione, il funzionamento delle istituzioni e le caratteristiche a cui si associano, ad esempio la fiducia accordata loro dai cittadini, la presenza o meno della corruzione, la libertà di cui gode il Paese. Un parametro molto importante è costituito dall’ inclusività. Tornando a bomba: quali sono le motivazioni che fanno della Finlandia il Paese più felice del globo?

 

 

L’armonia con la natura

Non è difficile immaginare che la natura giochi un ruolo primario nella decisione del World Happiness Report. I finlandesi adorano vivere in armonia con l’ambiente, la sostenibilità e l’eco-friendly sono parte integrante della vita quotidiana. L’aria è pulita, la natura è uno degli scenari più amati entro i quali muoversi. In Finlandia, passeggiare nei boschi rappresenta uno dei passatempi preferiti: le foreste coprono tre quarti del Paese e raggiungerle richiede, in genere, non più di un quarto d’ora a piedi. Nelle grandi città, inoltre, è possibile usufruire delle immense aree di verde costituite dai parchi. Ma c’è di più. Secondo il principio del “jokamiehen oikeus”, il bosco appartiene a chiunque. Chiunque, cioè, può raccogliere liberamente erbe, fiori, funghi, bacche, oppure pescare con la massima tranquillità. “Everyman’s Rights” è il diritto che tutti hanno di godere responsabilmente dei frutti della natura. L’aria tersa della Finlandia dona a ogni prodotto una marcia in più: anche cibi selvatici come il camemoro, il tipico lampone artico, risultano prelibati, e preparare una cena che inneggia all’ “into the wild” è un’attività incredibilmente emozionante.

 

 

Ripristinare il contatto con la natura, come vi dicevo, in Finlandia è un must. Sono più di 40 i parchi nazionali disseminati nel Paese, tutti raggiungibili in meno di mezz’ora. In ogni parco sono presenti innumerevoli sentieri escursionistici e naturali, esistono aree adibite al campeggio dove è possibile dormire sotto le stelle e pasteggiare piacevolmente attorno a un falò. La varietà dei paesaggi rende ancora più sorprendenti questi istanti in completa armonia con l’ambiente: a sud le foreste sono fitte e rigogliose, a nord lo scenario assume tratti artici in puro stile “winter wonderland”. Non dimentichiamo, poi, che un soprannome della Finlandia è “terra dei mille laghi”. I laghi inclusi nei suoi confini sono ben 188.000 e fanno del Paese il più ricco di acque interne al mondo. A proposito di acqua, va notato che è immancabilmente cristallina: sia quella di laghi e fiumi che quella del rubinetto. A Helsinki è possibile berla senza problemi, viene considerata la più limpida del mondo.

 

 

Relax e detox con la sauna

La sauna fa parte della cultura e delle tradizioni finlandesi, ma non solo: è una vera e propria filosofia di vita. La dice lunga il fatto che, nel Paese, siano presenti ben tre milioni di saune su una popolazione complessiva di cinque milioni di abitanti. In termini di benessere, questo rito tipicamente finnico è senza dubbio il top. Ma non solo: nella sauna ci si ritrova con gli amici, con i colleghi di lavoro e via dicendo, per scambiare quattro chiacchiere mentre ci si rilassa e si usufruisce dei benefici del detox. Durante la sauna, inoltre, l’organismo rilascia un’alta quantità di endorfine, i neurotrasmettitori del buonumore. Lo step finale, che prevede il bagno in un lago ghiacciato, permette di godere appieno della bellezza degli specchi d’acqua del Paese. Non è un caso che l’ UNESCO abbia deciso di includere il più famoso rituale finlandese nell’ elenco del Patrimonio Culturale Immateriale: è una tradizione antichissima (la prima sauna risale al XII secolo) ed estremamente salutare.

 

 

Il paradiso dello sci

Un’ altra attività molto amata in Finlandia è lo sci: complici le basse temperature, si scia praticamente fino a Maggio. Le piste sono numerosissime e in Primavera inoltrata, quando il sole splende quasi tutto il giorno, si scivola lungo le discese sotto la sua luce magica. Anche chi adora lo sci di fondo può godere di vantaggi incomparabili. I percorsi, a miriadi, esplorano scenari da meraviglia che includono laghi, boschi rigogliosi e tutti gli angoli d’incanto del Paese.

 

 

L’ aurora boreale e il sole di mezzanotte: due fenomeni che lasciano senza fiato

La natura regala spettacoli di una magia ineguagliabile. In Lapponia, l’aurora boreale si verifica a partire dall’ Autunno fino alla Primavera per un totale di circa 200 giorni. Ma con il buio dell’ Inverno (i primi di Gennaio c’è una sola ora di luce), quando la neve ammanta il paesaggio di candore, assistere al fenomeno è ancora più emozionante: si tratta di un effetto ottico originato dall’ interazione tra il vento solare e la ionosfera terrestre. Dal loro incontro scaturiscono bande luminose declinate in un’infinità di forme e di colori che mutano continuamente. I cosiddetti “archi aurorali” esplorano nuance che vanno dal verde all’ azzurro passando (sebbene più raramente) per il rosso. Avere la possibilità di ammirarli è un evento che lascia senza fiato per lo stupore.

 

 

L’Estate, in Finlandia, è un periodo elettrizzante. A nord del Circolo Polare Artico, da Maggio ad Agosto il sole non tramonta mai; se ci si spinge più a sud tramonta solo per un istante e poi splende più smagliante di prima. Il cosiddetto “Sole di Mezzanotte” è contraddistinto da una luce straordinaria, praticamente una sorta di alba o tramonto che dura tutta la notte. I colori che prevalgono sono il giallo, l’arancio, il rosa. Questa fase temporale, che segue all’oscurità imperante dell’ Inverno, stimola un’ energia incontenibile nella popolazione: l’attività notturna è frenetica, le saune e i bagni di mezzanotte sono frequentissimi, facilitati anche dalle temperature più alte del mare e dei laghi.

 

 

Sicurezza, ospitalità, inclusività e parità di genere sono la norma

Finora abbiamo parlato di natura e di attività nella natura, ma come vanno le cose in città? Decisamente bene. Le metropoli finlandesi sono sicure, c’è un bassissimo tasso di criminalità. Se perdete il portafoglio è quasi automatico che vi venga riconsegnato, e che ve lo rubino è altamente improbabile. Qui è possibile girare da soli ovunque, sia di giorno che di notte. I servizi pubblici funzionano a meraviglia, la corruzione è pressochè assente e i cittadini guardano al Governo con fiducia. All’ asilo, dove si può accedere a due anni, si insegna ai bambini il concetto di parità di genere: uomini e donne hanno gli stessi diritti e doveri. Proprio nel Settembre scorso, a tal proposito, è entrata in vigore una nuova legge che assegna 160 giorni di congedo parentale a entrambi i genitori; è possibile che un membro della coppia ne ceda 63 al partner o a chi accudisce il bimbo. Le giovani donne hanno anche diritto a 40 giorni di indennità di gravidanza. Per concludere, l’inclusività  è molto importante: in Finlandia, gli stranieri si trovano a operare in un contesto altamente meritocratico che esalta i valori dell’ equità e dell’ accoglienza.

 

 

I finlandesi, un popolo entusiasta ed ospitale

Esistono molti stereotipi sulla presunta introversione dei finlandesi. In realtà si tratta di un popolo che ama aprirsi al prossimo, accogliente e generoso. Sicuramente, i finlandesi hanno molta voglia di raccontarsi e sono a dir poco entusiasti di far conoscere il loro Paese a chiunque lo visiti. A proposito di visite: saprete senz’altro che a Rovaniemi, nella Lapponia finlandese, si trova il celebre Villaggio di Babbo Natale.  E’ qui che Santa Klaus ha fissato la propria dimora, e potete fargli visita ogni giorno dell’ anno. Il Villaggio, inoltre, è attraversato dalla linea del Circolo Polare Artico: oltrepassatela ed otterrete un certificato che testimonierà la vostra impresa!